Karl Marx scienziato cognitivo

<p>Portrait of Karl Marx, date unknown. (AP Photo/Kurt Strumpf)</p>

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Karl Marx esprime uno dei concetti più determinanti e rivoluzionari della sua intera opera filosofica. Il riferimento è alla distinzione tra struttura e sovrastruttura come sistemi regolatori della società: la struttura è «il vero fondamento su cui sorge una sovrastruttura […] non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Per Marx ogni ipotesi di modifica dei dati sovrastrutturali sarebbe illusoria ed improduttiva in assenza di un profondo rivolgimento della struttura. Le rivoluzioni si compiono modificando la struttura e non la sovrastruttura. Nella filosofia marxiana la struttura è insita nei rapporti economici di una realtà sociale e la sovrastruttura dall’apparato ideologico utile al consolidamento della struttura di riferimento. «La cornice giuridica […] codificata e formalmente egualitaria» è stata l’espressione sovrastrutturale con cui è stato eretta l’ideologia dello Stato fondato sui rapporti economici egemonici della borghesia (Michel Foucault).

La vera e grande provocazione è rivedere Marx in chiave di filosofo della mente ed alla luce delle scienze cognitive. Marx filosofo cognitivo è realmente rivoluzionario. Per le scienze cognitive “noi siamo il nostro cervello” e dunque, ciascun essere umano, al di là di illusorie utopie sovrastrutturali fondate sul libero arbitrio assoluto ed incondizionato, non è altro che un intricato gomitolo di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori ed epigenetica; quando l’individuo deve scegliere, il cervello “pesca” le mosse da intraprendere da quanto ha stampato in questo apparato biologico che costituisce la propria personalissima libreria, senza possibilità alcuna di uscire dal proprio gomitolo biologico. In questo modo relegando l’idea di libero arbitrio “uguale per tutti” al libro dei sogni e delle ideologie più fantasiose. Il libero arbitrio non è impedito da psicologismi ed impalpabili devianze della personalità ma è dettato dai timbri cerebrali che hanno impresso nei componenti del cervello il loro disegno. La psicologia e la legge sono le grandi mistificanti ideologie volte a sorreggere l’utopia del libero arbitrio assoluto; sono l’espressione massima della dottrina sul feticismo delle merci, questa volta al servizio dell’ideologia del libero arbitrio.

Legge e psicologia sono i servi sciocchi di questa ideologia sovrastrutturale dominante, dall’Illuminismo sino ai giorni nostri. Una rilettura della dottrina marxiana di struttura e sovrastruttura, ideologia e merce  in chiave neuroscientifica rende il grande filosofo un vero rivoluzionario. La struttura e la sovrastruttura marxiana rappresentano un modello cognitivo dell’io agente. Esattamente come accade nella società, anche nel cervello si può individuare una struttura più profonda, ancestrale, che caratterizza ed influenza tutto l’io cerebrale (la struttura) ed una sovrastruttura “neurale-ideologica” rappresentata dall’impianto cerebrale e comportamentale meno profondo ancorché, all’apparenza, più visibile e vistoso (si pensi, banalmente, ai ruoli sovrastrutturali di medico, giudice, avvocato, pubblicitario, musicista, marito, moglie, amante, ecc. Tutte condizioni portatrici di propri statuti cognitivi sovrastrutturali). Per Marx la sovrastruttura è l’ideologia mistificante volta solo a consolidare la struttura economica; per la filosofia della mente è, a sua volta, un’ideologia mistificante, costituita dal sistema appreso nel corso degli anni che svanisce e si dissolve dinnanzi alla necessità di salvaguardare la struttura. Come già sostenuto sul coté letterario da Giovanni Verga (Fantasticheria e I Malavoglia), ciascuno rimane legato a poche ma decisive tradizioni ataviche che fanno sentire l’ostrica (di qui il suo concetto letterario-filosofico-cognitivo) al sicuro dai pesci feroci del mare. Motivo per cui l’ostrica può anche ipotizzare e convincersi di voler tentare determinate strade che la sua sovrastruttura cognitiva ha conosciuto e appreso, ma la struttura atavica del mondo cognitivo dell’ostrica (secondo la metafora verghiana) relegherà tali conoscenze a sovrastruttura, a pura ideologia incapace di modificare realmente la struttura (neurale) e dettare le scelte dell’io. Con buona pace per il libero arbitrio kantiano che ci vorrebbe pronti e razionali, al momento dell’agire, per essere, addirittura, con le proprie scelte, giudici universali di se stessi e dell’umanità intera (Critica della ragion pratica). Marx in chiave cognitiva è ancor più stupefacente che in chiave politico-economica.

Cosa resta allora della grande dottrina del libero arbitrio, della possibilità per l’uomo di indirizzarsi razionalmente e di decidere in nome delle regole, della legge e dei costumi morali e sociali in essere? Insomma: cosa resta dell’Età dei Lumi su cui è stato costruito il nostro mondo contemporaneo, le nostre leggi, i nostri sistemi di responsabilità giuridica, morale e sociale? Una merce da vendere nel mercato ideologico delle mistificazioni. Solamente la convinzione che l’essere umano ricade sempre nel peccato originale, nel volersi erigere a Dio terreno, ad essere superiore e razionale, esattamente come il Dio in cui vuole credere. Rimane la vanità delle vanità: il libero arbitrio assoluto ed incondizionato.

Luca D’Auria

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La forza dell’abitudine. Ovvero come smettere di mettersi le dita nel naso o di guardare il telefono quando non squilla

Cammini, fai altro, sei impegnato, ma senti vibrare il telefono.
Ti infili una mano in tasca e controlli la notifica.
E così tutte le volte che ti capita di averlo in tasca o a portata di mano. Sempre, quindi.
E poi c’è la curiosità di vedere se qualcuno ti ha scritto, ti ha taggato o ha apprezzato qualche tua azione sui social. Anche quando non vibra.
A un certo punto la mano scivola al telefono in automatico.
Si è creata un abitudine. Ma non solo, si è creato qualcosa di ancor più forte: un rito.
Il rito dell’abitudine. E così per la maggior parte delle azioni che ci partono in automatico: segnale, routine, gratificazione. Segnale, routine, gratificazione. Questo è il circolo vizioso che si mette in atto. E poi a ripetizione ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

Dopo un po’ il segnale non serve nemmeno più, tant’è che possiamo mettere silenzioso e fregarcene dell’input. Controlleremo comunque in maniera spasmodica il telefono come se fosse in perenne stato vibrazione, e per qualcuno non serve nemmeno il “come se”.
Alla base ci sta la gratificazione di un bisogno, qualcosa che ardentemente vuoi soddisfare e che ti richiederebbe troppe energie se ogni volta dovessi riprogrammare l’azione per farlo.
E allora trovi un modo semplice, veloce, immediato. Lo metti in atto un po’ di volte e ti prendi tutta la goduria del risultato.

Se vuoi stroncare un’abitudine devi quindi provare a farlo all’inizio, quando ancora c’è il segnale che ti chiede di trovare una soluzione al bisogno.
Se arrivi troppo tardi, cioè se la tua gratificazione parte anche quando non c’è più il segnale, è – appunto – troppo tardi.
Non abbiamo più margine di manovra per estirpare quella dannata abitudine.
Prendi un bambino (per carità non prendere te come esempio: eri l’unico a non farlo). Prendi un bambino e insegnagli a non mettersi le mani nel naso. Puoi farlo, ma prima che quella sia diventata un’abitudine radicata. Se arrivi un attimo dopo, il gesto gli parte in automatico e non c’è più un controllo consapevole sul movimento.

Come fare? In questo caso intervengono forze maggiori. I poteri forti che riescono a influenzarci anche contro la nostra volontà o contro la nostra consapevolezza: la pressione sociale.
Ma per lo smartphone non c’è nessuna pubblica gogna se lo controlliamo in maniera forsennata e incontrollabile.

Allora dobbiamo ricorrere a qualcos’altro. Anche perché personalmente molti non la ritengono nemmeno un’azione automatica di cui liberarsi. Fa parte di quel meccanismo spontaneo, come quando si apre il frigorifero anche se non stiamo cercando del cibo. Facciamo solo un rapido check-up, e se qualcosa ci cattura, la cattureremo a nostra volta.

Abbiamo bisogno di qualcosa che vada oltre la chimica sinaptica.
Il cervello risente della crisi da millenni, e cerca di mettere in atto un’economia cognitiva che punta al risparmio. Risparmio di tempo, di energie, di ragionamenti.
Se qualcosa è superflua, non la fa.
Se capisce che il telefono lo guardi anche quando non suona, smette di aspettare che suoni per darti l’idea di guardare se è suonato. (Che poi non si è nemmeno sicuri che sia colpa del cervello, che sia lui a lanciare alla persona l’idea di fare qualcosa di spontaneo e inconscio.)

Non c’è scampo insomma, se arriviamo dopo il superamento di questa soglia. L’abitudine ha già preso casa e cambiato gli infissi. Non si sfratta.
Quando insomma non abbiamo alcun motivo intrinseco o estrinseco a cambiare abitudine, o non ci rendiamo nemmeno conto di averne una, come fare?
C’è solo un modo per farla andar via, per farla annichilire sotto gli sferzanti colpi della nostra motivazione e della nostra sete di miglioramento.

Per togliere un’abitudine possiamo solo costruirci sopra un’altra abitudine.

Dobbiamo quindi impegnarci nel costruire un ciclo dell’abitudine forzato sopra all’altra abitudine. E quindi: segnale, routine, gratificazione. Ma questa volta controllati. Fino a che non serviranno più né il segnale né il nostro controllo. E dobbiamo essere intransigenti, dannatamente intransigenti.
Chiodo schiaccia chiodo, insomma. Eppure ci avevano detto che quando si viene lasciati da una ragazza non funziona.
Con il cervello invece sì.
E non sto dicendo che “ragazza” e “cervello” siano due cose opposte, sia chiaro.
Ma chiodo schiaccia chiodo funziona. O al limite lo facciamo funzionare, schiacciandone uno sullo schermo del telefono per fissarlo al tavolo.

Giacomo Dall’Ava

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Sparatutto e GTA, nuove frontiere del terrorismo

<p>The truck which slammed into revelers late Thursday, July 14, is seen near the site of an attack in the French resort city of Nice, southern France, Friday, July 15, 2016.  France has been stunned again as a large white truck mowed through a crowd of revelers gathered for a Bastille Day fireworks display in the Riviera city of Nice. (AP Photo/Luca Bruno)</p>

Ricordo bene l’arrivo del Natale quando si era ragazzi. Ricordo bene quel senso di eccitazione che ruotava attorno all’attesa dei regali, che per i più fortunati significava un gioco nuovo per la Play Station. Ma in un modo o nell’altro quel gioco sarebbe arrivato tra le mani di ognuno di noi, a casa di un amico o magicamente scaricato dal web. Andava di moda GTA, in una delle tante versioni passate alla storia. Un gioco a dir poco irriverente e per questo spopolava: si trattava di fare tutto quello che nella realtà le leggi e il senso etico ci impediscono. Possiamo sparare a tutti, investire persone in auto, andare a puttane in pieno giorno e picchiare, picchiare a sangue chiunque si metta in mezzo tra noi e la nostra onnipotenza.

Non scandalizzatevi! È solo un gioco!”, ripete ogni ragazzo come un mantra, mentre la mamma lo guarda preoccupata, sperando che almeno i compiti per il giorno dopo siano stati fatti.

Nel frattempo il mondo è stato messo a ferro e fuoco da notizie di cronaca nera e di terrorismo, di stragi e di tutto quello che quotidianamente ci fa storcere il naso, quanto più accade vicino ai nostri confini. Il nostro radar del disgusto e del ribrezzo sociale si attiva ogni giorno accendendo il telegiornale, eppure c’è un altro meccanismo che ormai è costantemente attivo in quasi ognuno di noi.

La disinibizione.

Siamo disinibiti di fronte alla violenza, dopo esserci allenati per anni con un joystick in mano; non ci sembra in fondo così strano se qualcuno spara all’impazzata e senza un motivo per strada.
Sì sì, ci scandalizziamo per quei cinque minuti dopo aver sentito la notizia, ma l’informazione in entrata rientra comunque in una gamma di possibilità (cioè di azioni fattibili, possibili) anche perché le abbiamo già esperite virtualmente. È solo un gioco, quello di GTA, certo, ma ci introduce in un climax sinaptico che rafforza nella nostra testa certe connessioni. Strada? Camion? Sì, se scaviamo tra le possibili azioni combinando questi due elementi, ci troviamo anche quella di stendere passanti e polizia, roba da una sola stella tra l’altro (per gli intenditori).

Gli scopi del gioco sono sicuramente quelli di far divertire e sfogare anche con ciò che abitualmente non possiamo fare. Il gioco virtuale potenzia nell’immaginazione le nostre possibilità e ci regala qualche ora di gloria incontrastata. L’effetto però non si ferma qui, il potenziamento a lungo termine dei neuroni (LTP) non guarda in faccia alla morale e rafforza nel nostro bagaglio esperienziale anche l’intera gamma di azioni che abbiamo compiuto giocando. Virtuali o tangibili il cervello le ha esperite, ci siamo macchiati di un peccato da poco, apparentemente, ma che non si può lavare con l’oblio o con una risata.

Scappando dalla polizia o tirando sotto i passanti il nostro cervello ha messo in atto quel meccanismo tanto straordinario quanto delicato della plasticità del sistema nervoso. Addestrando i collegamenti sinaptici che riguardano un determinato comportamento, le connessioni tra i neuroni e il verificarsi di certe condizioni si intensificano, modificando permanentemente la nostra struttura. Il cervello non è elastico, non ritorna allo stato di quiete iniziale dopo aver passato il pomeriggio a sparare e investire persone (virtuali), anzi si modifica e rimane marcato.

Se infatti diamo un I-phone in mano ad un indigeno, non lo userà certo per cercare Pokemon, al massimo proverà a spaccare noccioline, perché nel suo ventaglio di azioni concepibili con un oggetto di quella consistenza, si dipana solo qualche simile possibilità. Per noi, invece, il camion era sempre stato un mezzo di trasporto: me lo ricordo quando ci giocavo da piccolo, per non aver  ricevuto in regalo GTA. Il mio cervello non aveva ancora vagliato una possibilità diversa perché il mio avere-a-che-fare (l’Umgang heideggeriano) con quell’oggetto si nutriva di altre finalità.

Ormai invece siamo immersi in una quotidiana violenza con ogni oggetto che ci capiti tra le mani, vediamo obiettivi da sterminare ad ogni difficoltà o fastidio. Non diventeremo tutti assassini, certo, ma abbiamo inserito nel nostro mondo del possibile anche atrocità che ora iniziano a presentarsi sempre più frequenti.

Non sono azioni isolate di persone disturbate, ma alcuni tra gli esiti e le conseguenze della cultura della violenza, che addestra miliardi di neuroni a disinibirsi di fronte alla brutalità e a uccidere non più per fame, non più per protezione di un confine, ma per un’idea, per uno sfizio che ci si voleva togliere, o per passare un pomeriggio di svago al centro commerciale…

Giacomo Dall’Ava

La paura che corrode

In ogni giorno di festa, quando mettiamo piede fuori casa in mezzo alla gente, stiamo iniziando a sentire una sensazione diversa. Ci assale una sorta di agorafobia negli spazi aperti, una paura sociale quando siamo con gli altri, in autobus, passeggiando attraverso una piazza gremita di gente. Pensiamo che possa accadere il peggio, che i fatti di cronaca più terribili possano in quell’istante coinvolgere la nostra città, la nostra vita. Ci guardiamo attorno, attendiamo un’esplosione infernale, cerchiamo di capire da dove potrebbe arrivare e pensiamo a come fuggire…

Invece non accade nulla, continuiamo a fare la passeggiata che ci eravamo programmati, senza però goderci neanche quel giro in santa pace.

L’esplosione non c’è stata e la nostra vita è ancora al sicuro, ma cosa è successo dentro di noi?

Un’esplosione in realtà l’abbiamo subita, siamo stati dilaniati da un ordigno diverso, silenzioso. Un’arma di distruzione di massa ecologica – perché non rovina l’ambiente – ma provoca danni insanabili se lasciata agire costantemente.

Una bomba di paura, terrore, inquietudine e ansia ha pervaso tutto il nostro corpo. Gli effetti sono devastanti. La paura è una emozione che deriva dalla percezione di un pericolo, reale o supposto: non serve cioè che il pericolo ci sia davvero, ma basta che noi ne percepiamo la possibilità. È un’emozione primaria, governata prevalentemente dall’istinto, non possiamo disinnescarla nemmeno con la forza della ragione, con il pensiero della nostra sicurezza.

Ma il terrore che ci ha pervaso non scompare dopo l’esplosione, rimangono radiazioni e conseguenze su tutto il corpo. Le principali reazioni corporee alla paura possono riguardare infatti l’intensificazione delle funzioni fisico/cognitive e l’aumento del livello di attenzione, del costante stato di vigilanza che ci porta stress, tensione, desiderio di fuga. Diventiamo delle belve intente a proteggere il nostro territorio, la nostra incolumità da un nemico che non esiste ma di cui abbiamo paura.

Mentre passeggiamo con lo sguardo sospettoso, il sistema nervoso simpatico (responsabile delle reazioni in caso di emergenza) è più che mai attivo: aumenta il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la quantità di glucosio per i muscoli che devono contrarsi per l’attacco o la fuga. Anche se effettivamente non stiamo registrando alcuna informazione paurosa, perché stiamo soltanto facendo shopping, il nostro pensiero terrorizzato innesca l’amigdala, che prende il comando delle nostre reazioni, inibendo le parti del cervello responsabili del pensiero.

Come fermare allora questa concatenazione dannosa di eventi? Se rimaniamo immersi in uno stato di paura, anche quando l’oggetto della paura non c’è, entriamo nella cosiddetta ansia anticipatoria. Ma se anche questo stato d’animo rimane insensato, perché continua ad anticipare qualcosa che non accade, come liberarsene?

Sostituendo.

Dobbiamo sostituire ogni pensiero di paura con un pensiero di speranza, ricostruzione, positività, anche nel dolore di quello che succede. Se non lo faremo, il nostro cervello rimarrà “marcato”, perché accumula ricordi di eventi che ci hanno impaurito, proprio per metterci al riparo da nuovi eventuali pericoli. Ogni volta che cammineremo per strada, non staremo più godendo dell’euforia della giornata, ma innescheremo inconsapevolmente una valanga di reazioni dannose: il battito cardiaco aumenta, i muscoli si contraggono, le pupille si dilatano e il respiro si fa più profondo e rapido.

Il cervello non distingue un pensiero ipotetico da un reale bisogno di fuga o attacco in una situazione di pericolo. Per lui anche il solo pensiero che possa succedere una cosa diventa allarmante e stravolge il nostro equilibrio. Per calmarlo non possiamo fare altro che immergerci in pensieri diversi, forzarci di pensare ad aspetti positivi e propositivi.

Usciamo di casa a testa alta, per goderci un’altra giornata di sole e per schiacciare ogni pensiero di terrore con il nostro benessere.

 

Giacomo Dall’Ava

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Occhio non vede? Ma il cuore duole. Il ruolo dei messaggi subliminali

Ci sentivamo un tempo schiavi della televisione, oggi forse di uno smartphone: ce lo dicevano ogni giorno a scuola, leggendo i giornali e sbraitando in famiglia. Per anni ci siamo sentiti in colpa per aver tenuto la televisione accesa in sottofondo, mentre giravamo per casa facendo altro, perché sapevamo che qualcosa entrava nella nostra testa, ci pervadeva e ci condizionava. Eppure sembrava farci compagnia, pensavamo di mantenere comunque saldo il nostro potere decisionale, senza subire il condizionamento di pubblicità, opinione pubblica e conduttori persuasivi.

Nel frattempo le ricerche sul funzionamento del cervello diventavano sempre più elaborate e abbiamo iniziato a sentir parlare dei messaggi subliminali: parole, suoni o immagini che non vengono percepiti consciamente, riescono comunque a influenzare il nostro giudizio, gli atteggiamenti e le credenze a livello inconscio. Immagini tratteggiate sullo sfondo che non sappiamo di vedere, suoni con una frequenza sotto la soglia della percezione e tutto ciò che riusciamo a ricondurre a un significato senza rendercene conto, diventa realtà per il cervello  e può sfociare in un’emozione fastidiosa, insinuata  e radiata.

Ci siamo sentiti attaccati nel profondo, nella nostra intimità: nessuno si permetta di toccarci l’anima, la psiche, la mente, il pensiero che desideriamo nostro e di cui speriamo ancora di essere gli unici tutori e amministratori.

I suoni, le immagini e le vibrazioni sonore eccitano i nostri organi di senso e influenzano le nostre percezioni anche quando sono sotto la soglia della consapevolezza. Il messaggio elettrochimico che i neuroni si trasmettono crea una concatenazione di informazioni che parte dall’esterno e arriva direttamente al cervello. Ma se tutte le strada portano al cervello, che percorso fanno queste informazioni in entrata? La strada non esiste già dentro di noi e la responsabilità di ciò che arriva – anche in modo subliminale – è in parte nostra.

Quando infatti esercitiamo il nostro pensiero e siamo immersi nella vita quotidiana, creiamo dei sentieri, delle tracce che anche le informazioni future potranno percorrere, andando a rinforzare e tracciare al meglio quel determinato percorso. Un messaggio subliminale trova quindi dei varchi nelle nostre abitudini e le va a consolidare, crea una via neuronale specifica e diretta alle nostre credenze più sensibili. Non sono dunque messaggi a cui siamo totalmente vulnerabili, ma diventano incontrollabili anche dalle tendenze che ogni giorno esercitiamo con i nostri pensieri.

La forza della ripetizione di un pensiero crea abitudini e automatismi, piccole fessure su cui va a insediarsi il contenuto inconsapevole di una vignetta, di un motivetto e di un’immagine pregnante.

Per massimizzare l’effetto di questo fenomeno, non si possono usare le buone maniere, il cervello non usa il bon ton: preferisce gli eccessi, la volgarità, omicidi, suicidi, violenze sessuali, catastrofi naturali e tutte quelle notizie che ormai abbiamo assorbito e registrato come “normali”. Queste notizie sono però “negative” e stressanti, pur non essendo riferite a noi in prima persona, hanno un impatto sul nostro modo di percepire il contenuto della notizia.

Quando ci immergiamo in una situazione che il cervello registra come minacciosa, reale o implicita che sia, aumenta l’attività del sistema simpatico e dell’ippocampo, che iniziano a produrre ormoni corticoidi. Ma cosa implica quest’attività? Se il nostro cervello secerne questi ormoni in abbondanza, assistiamo a un mantenimento in memoria delle informazioni registrate. Non solo, dalla memoria a breve termine in cui vengono inserite, vengono poi impresse e incise anche in quella a lungo termine e legate in maniera quasi indissolubile ai nostri ricordi. La pubblicità accattivante non rimane più soltanto una bella esperienza visiva, ma diventa parte integrante del nostro bagaglio di vita, un’emozione che ci ha emozionato e che pulsa ora dentro di noi al ritmo del cuore.

Se vogliamo additare qualcuno per l’intrusione di informazioni impercettibili, non possiamo accusare soltanto i maghi della pubblicità, ma dobbiamo anche sentirci responsabili di aver spostato l’asticella dei nostri pensieri: tramite l’interazione con gli altri abbiamo dato spazio a riflessioni che non avrebbero trovato modo di instaurarsi nel nostro cervello, neanche con la malizia di un messaggio subliminale.

Giacomo Dall’Ava
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L’amore ai tempi del cervello

M’ama o non m’ama? A furia di strappare petali di margherita, servirà un referendum anche per limitare questa taumaturgica pratica di ispezione di sentimenti.

Ognuno di noi avrà sicuramente vissuto un dramma d’amore, che ci avrà poi fatto rovinosamente cercare risposte tra superstizione, tarocchi e oroscopi: come se astrologia e scaramanzia potessero darci un aiuto concreto a scrutare il cuore dell’altro.

Evitando invece malizia e ambiguità, avremmo potuto armarci di stetoscopio e andare a curiosare sul petto del partner (o presunto tale), per sentirne il battito: perderci nel ritmo calmo della sua circolazione e nell’andamento del suo respiro. Un po’ macchinoso, di certo scomodo, ma avremmo avuto un accesso diretto al suo coinvolgimento emotivo nei nostri confronti.

Non è un’indagine del cuore, del sentimento. È piuttosto un’indagine cardiologica, perché, dai risultati di una ricerca condotta da Emilio Ferrer nell’università della California, si è notato che il battito del cuore e la respirazione di due persone innamorate si attestano sulle stesse frequenze. Se infatti l’ultimo petalo dovesse recitare “m’ama”, sentiremmo un battito cardiaco che suona all’unisono con il nostro; così come il ritmo dell’aria, che entra ed esce, cadenzata dalla nostra stessa andatura.

Non si tratta quindi di farfalle nello stomaco né dell’aumento delle palpitazioni del cuore: siamo invece immersi in una sinergia sentimentale che ha sede nel corpo, che vive di corpo e di ogni organo di cui siamo composti.

Anche l’amore platonico, tanto osannato come amore ideale, parte da un’imprescindibile corporeità che ci accompagna lungo la scalata verso la contemplazione dell’Eros. Non si possono evitare i primi gradini della fisicità, che costituisce un fondamento indispensabile anche per i più romantici idealisti. Il corpo è chiamato in causa in ogni relazione d’amore, in ogni sentimento che troppo spesso si è visto relegato simbolicamente soltanto al cuore, finendo per tralasciare il resto della persona.

Il cervello pretende la sua parte, non accetta più di essere trattato come un freddo calcolatore di petali pari o dispari. Eppure si pensa ancora che la componente cognitiva sia così slegata da quella affettiva, come se emozioni e sentimenti fossero opposti e contrari all’apparato cerebrale, che invece si ritrova coinvolto in ogni nostra relazione e compartecipazione emozionale.

Il coronamento di una tensione d’amore induce il cervello a spremere ingenti quantità di ossitocina, il cosiddetto “amore dell’amore”, grazie all’attività della neuroipofisi. E per capire se anche la nostra metà mancante sta vivendo lo stesso stato di grazie, potremmo quindi calcolare il suo livello di questo neurotrasmettitore e osservarne alcuni effetti concreti, quali l’attenuazione dello stress, l’accrescimento della fiducia e dell’empatia con il prossimo. Tutte conseguenze inevitabili di quando si è innamorati…

Non si limita a questo il coinvolgimento  del cervello. L’insula e il corpo striato si attivano quando il desiderio sessuale prende finalmente forma, iniziano a scambiare informazioni e si comportano come se la persona fosse immersa in uno stato di dipendenza da sostanze. Come spiega il professor Pfaus, docente di psicologia alla Concordia University: «L’amore è un “abitudine” che si sviluppa dal desiderio sessuale e come tale chiede appagamento. A livello cerebrale funziona come quando le persone diventano dipendenti da droghe.»

In questo stato di avvolgente dipendenza, possiamo quindi ritenere sincera la drammaticità dei “non posso più vivere senza di te” di chi strappa l’ultimo petalo recitando un disperato “non m’ama”.

Giacomo Dall’Ava

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La musica del cervello a 432 Hz

<p>Music fanatic woman</p>

Suoni, rumori, fracassi. Durante quel breve periodo di militanza nel grembo materno, la prima cosa che abbiamo conosciuto del mondo esterno erano segnali sonori: voci, grida, risate e tutto ciò che è riuscito a destare la nostra flebile attenzione. Un’embrionale consapevolezza di quello che avremmo trovato fuori dalla caverna. Seppur flebile e attutita, la vibrazione sonora dei rumori esterni è stata la prima forma di conoscenza che abbiamo sperimentato.

Il nostro personale – e talvolta ostico – rapporto con la musica nasce da qui, da un piccolo essere vivente che viene bombardato di informazioni acustiche sotto forma di vibrazione. Il percorso delle onde sonore non fa sconti, passa e trapassa ogni parete fino alle membra di un corpo che incassa il colpo, percepisce il segnale e lo manda al cervello. Anche senza un sufficiente sviluppo della coclea (il nostro microfono naturale innestato dentro all’orecchio), schiere di neuroni sensoriali lampeggiano nel buio amniotico del grembo, portano gli input esterni al cervello, per poi ricavarne un output conoscitivo.

Una volta venuti al mondo, però, il rapporto con il mondo sonoro ha cambiato direzione, verso il traumatico mondo della musica per bambini: la lezione di pianoforte. Nessuna gradevole melodia, nessun figlio col violino in spalla a produrre informazioni sonore piacevoli per i vicini di casa. Sono serviti lo sforzo, la tensione, l’olio di gomito dei più tenaci sul pentagramma, per ottenere una comunicazione sbalorditiva, che stimolasse un linguaggio vero e proprio. Con un’improvvisazione musicale si riesce infatti ad attivare persino l’area di Broca, deputata alle funzioni del linguaggio e della comunicazione verbale.

Ogni allenamento a cui è sottoposto il nostro cervello rinforza collegamenti sinaptici, che altrimenti rimarrebbero inesplorati e non ci permetterebbero di evolvere. Per quanto l’avessimo fatto malvolentieri, aver svolto attività musicali in giovane età ha coinvolto e stimolato diversi meccanismi cognitivi: ad esempio produrre o intonare una serie di note stimola capacità attentive, l’apprendimento mnemonico, il confronto, la pianificazione e la conduzione motoria.

Lo sviluppo del senso musicale ci ha indirizzati verso gli elementi stessi dell’Universo: ritmo e armonia, incastrate secondo schemi armonici che la natura ha divinamente riprodotto ovunque nel creato. La sezione aurea con cui è costruito ogni tassello dell’universo (cioè il susseguirsi di precise proporzioni e rapporti armoniosi) ha permesso all’uomo di seguire a tempo ciò che la fisica scandiva a bacchetta, dato che il nostro cervello è particolarmente predisposto a cogliere l’armonia bilanciata dei rapporti aurei della costante di Fibonacci.

La musica sintonizzata sui 432 Hz, infatti, è uno specchio del mondo, rispetta la proporzione aurea e crea una rappresentazione di come l’universo intero produca onde vibranti a 8 Hz. Su questa intensità si attesta la “Risonanza di Schumann”, un delicato e impercettibile rumore dell’universo, che si sposta verso mete inesplorate, producendo vibrazioni vitali per il nostro organismo.

L’avvento del Nazismo invece ha cambiato anche l’accordatura degli strumenti, che da quel periodo in poi è stata mantenuta sui 440 Hz, con effetti sovra-stimolanti al lobo frontale, probabilmente per spremere al massimo la marcia delle truppe tedesche dell’epoca.

È proprio lo scarto di questi 8 Hz che ci allontana dalla fruizione più naturale della musica, quella che invece ci stimola a sincronizzare i due emisferi cerebrali, a produrre creatività e intuizioni del genio umano. Esposti a frequenze addolcite, tarate sui 432 Hz, la nostra ghiandola pineale viene stimolata alla produzione dell’ormone della vita, la somatotropina, un elisir di benessere che non avrebbe bisogno di essere prodotto da alcuna casa farmaceutica.

Se pensavamo di essere stressati per non aver studiato la lezione di pianoforte, forse non sapevamo che l’accordatura in  440 Hz non ci stava aiutando affatto.  Fortunatamente l’esercizio musicale fatto anche a scuola non serviva soltanto a fare un’ora di pausa tra la lezione di italiano e quella di matematica, ma ci ha aperto un varco su un mondo di stimoli percettivi ed emozionali.

I due emisferi hanno iniziato a dialogare con più sintonia: mentre l’emisfero sinistro si attivava nella composizione e memorizzazione di note e scale musicali, quello destro giocava a intrecciare melodie.

Con enorme dispiacere dei nostri genitori non siamo diventati né Mozart né Beethoven, ma possiamo ugualmente fruire dei benefici del “theta mode”, quello stato cerebrale che ci porta ad essere creativi e a stimolare intuizioni di ogni tipo. La creatività si sviluppa dall’alternanza dei due emisferi, come durante una performance di improvvisazione artistica, dove l’area del controllo razionale si sgancia e si spegne, per lasciare spazio a quella autobiografica, all’espressione di sé, che si accende per produrre arte e invenzione.

Giacomo Dall’Ava

Telepatia? No, neuroni specchio

Pausa pranzo, prima di tornare in ufficio o di rimetterci a studiare, entriamo in un bar per prendere un gelato. Ci cade però l’occhio su una persona impegnata proprio nell’azione che, per colpa di quella dannata gastrite, abbiamo scelto di non fare più: prendere un caffè, corretto o liscio che sia.

Anche se attribuissimo la colpa al clima avvolgente del dopopranzo, che potrebbe farci sentire già ingaggiati nel gesto che altri attorno a noi stanno compiendo, questo non è forse l’unico fattore che ha contribuito al nostro coinvolgimento. C’è qualcosa di più cerebrale che si innesca nel momento in cui osserviamo il braccio di quello sconosciuto muoversi verso il bancone, la mano puntare la tazzina ancora fumante e le dita stringersi adeguatamente sul manico.
Eravamo così fedeli alla nostra disintossicazione, eppure il nostro cervello ha in parte vissuto l’esperienza di quel dannato caffè, l’ha afferrato e l’ha portato alla bocca, proprio come ha fatto contemporaneamente quella persona di fronte a noi.

Ne rimaniamo increduli, ma cos’è accaduto nella nostra testa in quel momento? Cosa accade costantemente quando osserviamo azioni di cui non siamo gli artefici, ma solo “passivi” spettatori? Al nostro cervello è bastato un input visivo, vedere cioè un’azione eseguita da qualcun altro, per innescare il processo sinaptico di alcuni neuroni sensorimotori (deputati al movimento in relazione a stimoli sensoriali): i neuroni specchio. Solo guardando quel movimento, si sono attivati in noi gli stessi neuroni, che si sarebbero innescati se avessimo compiuto personalmente quell’azione.

Cosa vuol dire questo? Osservare equivale ad agire? Il solo fatto di aver guardato compiere un’azione fa sì che il mio cervello registri l’esperienza di quell’attività, che non avevo nemmeno l’intenzione di fare? Teoricamente sì: le neuroscienze, a partire dalle scoperte del team di Rizzolatti, ci spiegano che in noi si attivano alcuni neuroni della corteccia pre-motoria e del lobo parietale, aree deputate al movimento e prive di funzioni cognitive. Le cellule in questione sono neuroni bi-modali, si attivano cioè non solo quando compiamo effettivamente un’azione, ma anche quando guardiamo qualcuno compierla: lavorano quindi sia quando afferriamo la tazzina del caffè, sia nel caso in cui tale movimento venga soltanto osservato.

Tuttavia, questo particolare fenomeno sembra non accadere in ogni circostanza: si pensa invece che i neuroni specchio si attivino in fase di osservazione, quando l’azione dell’altro ha un significato per noi, quando guardiamo un movimento che conosciamo, che è presente nel nostro repertorio di significati. Non si instaura infatti una speciale telepatia con l’altro, ma, dato che non siamo immersi in un mondo sterile e oggettivo, la nostra esperienza si plasma in un contesto che prende forma nella nostra mente nel momento in cui lo guardiamo e siamo in grado di attribuire ad esso un significato.

Ma il caffè noi non lo volevamo più prendere, volevamo smettere con le tentazioni e con ogni esperienza di assunzione della bevanda, cerebrale o effettiva che fosse!

Allora perché questi neuroni si attivano involontariamente, anzi anche contro la nostra volontà? L’ipotesi più plausibile sulla loro funzione è che essi contribuiscano a creare nella nostra mente un’idea di movimento, anche tramite un’azione soltanto vista e svincolata da qualsiasi possibile esecuzione. Nel cervello dell’osservatore prende forma un atto motorio in potenza, che va a creare un personale serbatoio di esperienze, guardate e riconosciute, anche se non eseguite. In tal modo possiamo arricchire il nostro vocabolario motorio con una serie di simulazioni mentali, anche mentre qualcun altro afferra una tazzina di cui non desideriamo il contenuto,

Il caffè non l’abbiamo preso, certo, né siamo più caduti in tentazione di berlo, infatti la nostra volontà e il nostro pensiero regnano ancora sovrani sulla nostra esperienza. Quella del cervello invece è una lettura di movimenti a cui diamo un significato, un incremento di esperienza motoria, per cui non possiamo affermare (per ora) che i neuroni specchio influenzino sovrastrutture personali quali la morale, l’attività cognitiva del pensiero e la capacità di prendere decisioni. Ma le neuroscienze hanno iniziato da poco a studiare questi fenomeni e i filosofi si stanno scatenando sulla loro interpretazione.

Per sicurezza, comunque, ci conviene mantenere puro lo sguardo e dedicare la nostra attenzione ai soli gesti e alle circostanze che reputiamo inclini alle nostre credenze. In pausa pranzo, domani, sarà meglio andare in gelateria.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

Neuro, ergo sum

Anche senza aver mai masticato troppa filosofia, al segnale di un “cogito” o di un “ergo”, tutti abbiamo sempre saputo come completare la ormai celebre filastrocca cartesiana del “Cogito, ergo sum”. Che lo sappiate o meno, la sconcertante ovvietà del “Penso, quindi sono” ha stravolto l’andamento della filosofia, conferendo all’uomo un livello di autocoscienza, con cui abbozzare qualche risposta all’ancestrale domanda del “chi siamo?”.

Esseri pensanti, per cominciare: il solo fatto di poter pensare mi dà la garanzia di essere, di esistere come entità che pensa e di dormire sonni tranquilli sulla mia natura di essere umano, se mai qualcuno potesse aver sofferto di insonnia per riflessioni esistenziali (filosofi a parte)…

Se mi addentrassi ancor di più in questa apparentemente banale discussione, il mio lettore mi accuserebbe a ragione del noto delitto delle “seghe mentali”, che tecnicamente potremmo definire “speculazioni filosofiche”. Non mi resterebbe che ammettere la mia colpa, ma… ripensandoci, lui stesso ha appena ribadito quanto espresso da Cartesio!

La sua secca e disarmante considerazione ha infatti dimostrato proprio quello che la filosofia gli stava spiegando: l’attività cognitiva (messa in atto in questo caso per liquidare la filosofia) ha dato conferma della sua presenza, del suo antagonismo nei miei confronti e dell’eterea esistenza di qualcosa che pulsa incessante sotto i nostri ragionamenti: il pensiero.

Se oggi possiamo camminare eretti, immersi nell’agio e nelle comodità del Ventunesimo secolo, esibendo il nostro pollice opponibile su smartphone e smanettando sui tablet, non dobbiamo ringraziare soltanto Steve Jobs e il suo garage, ma dobbiamo partire dalla mente e dal cervello umani. Nel corso della storia dell’uomo infatti, per ottenere un costante miglioramento della tecnica, la via del progresso è sempre passata per la necessaria presa di coscienza della propria condizione: l’autocoscienza, mezzo e fine delle nostre attività mentali.

Il pensiero ha però posto anche i confini del nostro mondo: un perimetro tracciato a suon di colonne d’Ercole, oltre cui si nascondevano paesaggi troppo appetibili per non superarle e macchiarci così di un peccato mortale, la tracotanza (ὕβϱις, in greco). E così con il meta-pensiero (il pensiero del pensiero, lo studio del pensiero) abbiamo tratto il dado: filosofia e neuroscienze hanno spostato l’asticella del concesso, della conoscenza e ci prospettano estensioni di sviluppo ed evoluzione che sembrano un affronto a Dio. Ma non abbiamo fatto altro che affrontare il nostro passato e rendere onore al nostro logos, innalzandoci col petto in fuori rispetto al verdastro orizzonte che potevamo scrutare quando ancora stavamo a gattoni.

Non siamo stati fermi dove Dio o la Natura ci avevano messi, ci siamo trovati su un trampolino di lancio. Il volo è tutto una fase ascendente, non c’è gravità che tenga di fronte alla spinta generatrice, conservatrice e migliorativa dell’attività cognitiva tipica dell’uomo.

Allora capiamo che non stiamo spingendo troppo sull’acceleratore, perché sin dal principio c’era il logos, si pensa cristianamente; ma anche molti pensatori laici attribuiscono alle funzioni logiche (etimologicamente) una funzione primaria, essenziale e vitale. Questo logos racchiude una dicotomia inscindibile di pensiero e parola, gli artigli più affilati che la Natura abbia mai forgiato, il tutto messo in circolo grazie alla rete più affascinante e multimediale che ci sia al mondo.

No, non è internet, ma il sistema nervoso. Miliardi di neuroni che intervengono costantemente nel farci capire e apprendere gli stimoli esterni, capaci di creare collegamenti sinaptici sempre più raffinati e deputati al progresso, all’evoluzione della macchina umana.

Lo sviluppo delle neuroscienze ricopre dunque un’importanza fondamentale per la nostra esistenza, dato che l’analisi delle facoltà cognitive collima perfettamente con una ricerca filosofica rigorosa e puntuale.

Cosa farcene di tutto questo? Scomodare la filosofia dall’Olimpo della conoscenza, per donarle una formalizzazione concreta, che ci accompagni nella crescita dell’autocoscienza.

La tecnica avanza velocemente, non possiamo continuare a rincorrerla, ma dobbiamo condurla verso il destino di cui siamo – forse – gli unici artefici.

 

Giacomo Dall’Ava

[immagine tratta da Google Immagini]