“Per la forza di una parola”

Un giorno di agosto, per nulla soleggiato e nemmeno caldo, sono andata sul monte Grappa e ci ho trovato una grande scultura.

La sono andata a cercare perché avevo visto un cartello che indicava un monumento alla resistenza partigiana; così, svoltando l’ennesimo tornante, l’avevo vista in lontananza. Ho parcheggiato la macchina e le sono andata incontro, l’ho studiata passo dopo passo cercando di capire che cosa rappresentasse; prima era piccolina davanti al suo sfondo erboso, la potevo tenere tra due dita, ma dopo pochi minuti mi sovrastava. Era nera e informe, come se un’improvvisa vampata di intenso calore avesse squagliato la matericità del bronzo. La prima cosa che sono riuscita a distinguere mentre mi avvicinavo erano due gambe e due braccia, che avevano delle mani contratte e protese verso il cielo.

Le ho girato attorno come un avvoltoio attento: la seconda cosa che ho visto è stata un ventre svuotato e la terza un volto, il cui profilo era rivolto verso l’alto e ben delineato contro il cielo, ma non aveva lineamenti definiti ed il suo occhio non era altro che un buco: il vuoto lo faceva sembrare spalancato. Ho notato poi che le mani erano strette da lembi di corda nera, come se una volta fossero legate tra di loro e si fossero liberate. Insomma, ho capito perché i partigiani.

Ma poi ho continuato a girare ed ho incrociato due lastre di pietra con due iscrizioni. La prima, incastonata nella roccia vicino ad una oscura apertura nella montagna, diceva così: “A ricordo dei sette partigiani bruciati vivi in questa galleria da lanciafiamme degli oppressori nazifascisti” e poi una data, quasi nascosta, 22-09-1944. Il mio corpo è stato immediatamente attraversato da quel brivido spontaneo, quello di una mente che prova ad immaginare che cosa si può provare a morire arsi vivi, sentirsi la pelle che si squaglia e il cervello saturo di dolore che ti sembra sul punto di esplodere. Una morte atroce che non si merita nessuno.

Poi ho letto anche l’altra lastra, di marmo questa, dai contorni precisi rettangolari ed accompagnata da fiori rossi e bianchi, rose circondate da un nastro tricolore.

“E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti
Libertà”

Dopo anni di esperienze e di continue riflessioni su di esse sono giunta alla conclusione che sono una persona sensibile; in certi casi, enormemente sensibile. Il tema della guerra è uno di quelli che incontra invariabilmente la mia pena ogni volta che lo sento, che sia declinato in un film o in un libro di storia. Non so se credo veramente nel Paradiso ma credo nel fatto che, in qualche modo, se rivolgi un pensiero ai morti loro ti sentono; perciò, ogni monumento ai caduti delle guerre mi provoca un infinito senso di pietà e di commozione. Forse perché mi saltano subito in mente quei versi di De André, quelli che raccontano del soldato Piero mentre se ne va al fronte senza capire perché ci sta andando.

Ci sono anche altre storie che mi piacciono –cioè, che mi fanno male ma che adoro. Di una ho già accennato qualcosa, quella di Enjolras e dei suoi compagni ne Les Misérables che programmano un moto rivoluzionario per liberare la Francia dalla monarchia di un re non meno spietato –o, piuttosto, noncurante di Luigi XVI¹; un’altra storia potrebbe essere quella di Aléxandros Panagulis, che in tempi più recenti e nella realtà degli eventi ha organizzato un attentato contro la dittatura dei colonnelli che dal 1967 ha stretto la Grecia in un regime privo anche del ricordo democrazia, e quindi anche di una totale mancanza del coraggio di lottare per essa –tranne lui².

Oppure la storia di quest’uomo. Non c’era una firma, né un indizio che facesse capire che quelle parole fossero state effettivamente proferite da qualcuno di quei sette partigiani, ma nella mia testa era chiaro che fossero state proferite da lui, dalla statua. Lui era lì, aveva effettivamente il corpo liquefatto, e la causa di ciò evidentemente era veramente il fuoco; l’occhio era sempre lì, spalancato, azzurro in mezzo alla faccia annerita perché dietro c’era il cielo; le mani erano protese verso l’alto, si era liberato e le tendeva verso la luce benefica del sole che, per uno straordinario caso fortuito, a quell’ora del giorno e in quella stagione sembrava proprio lì, a portata di mano. Fissava la luce e non gridava, perché le labbra, come se mormorassero un’ultima parola, erano appena schiuse su quel volto senza lineamenti, tanto che lui potrebbe essere chiunque. Chiunque abbia trovato la volontà di combattere per la forza di una sola parola.

Libertà. Oggi forse ne abusiamo tanto che ne abbiamo perso il significato –soprattutto noi del fortunello mondo occidentale, anche se pure noi a ben vedere ne siamo privati, a volte senza saperlo, perché siamo uomini, e tutti noi possiamo essere a vari livelli gli schiavisti di qualcun altro.

Morire per la forza di una parola a volte mi appare incredibilmente bello, poetico, a volte persino giusto. La mia vita mi sembra minuscola in confronto a queste storie e continuo a chiedermi se anche io farei lo stesso –intendo, lottare strenuamente per qualcosa, non necessariamente morire, no, quella è la peggiore delle ipotesi ma nel caso la si abbraccia perché un uomo può morire ma l’ideale no. Mi chiedo se sono un’idealista di fatto e non solo d’intenzioni. Mi sento minuscola perché mi pare che quelle storie siano tanto grandi da leggere e a vedersi, ma a viverle io non ce la farei, io sono troppo fragile. Senza dubbio l’ho deciso io di essere fragile perché è una scusa migliore che ammettere di essere troppo pigra per combattere per i miei ideali –troppo pigra o troppo paurosa, o forse, aiuto!, forse non ci credo poi così tanto. Non so uscire da questa impasse, non so se sono davvero così (pigra, paurosa o bugiarda) o se ancora non ho trovato quella parola che fa scattare il click –perché tutto sommato ogni persona probabilmente ha una propria parola. Io non sono Malala, je ne suis pas Charlie, e probabilmente non saprei urlare “Vi faccio vedere come muore un italiano”; però mi auguro di mantenere sempre la stessa dignità, ogni giorno della mia esistenza, e mi auguro di avere il loro coraggio se un giorno la mia vita dovesse così oscuramente capovolgersi. Intanto penso alla statua: lui sapeva tutto, e non aveva dubbio alcuno. E’ morto, ma si è salvato dal tribunale di se stesso.

Giorgia Favero

 

Note:

Nella foto: Augusto Murer, Monumento al partigiano sul Monte Grappa, 1974 [Immagine tratta da Google]

Da una ricerca successiva, ho scoperto che l’incisione sulla lastra di marmo è un frammento di una poesia di Paul Éluard, Libertà, scritta nel 1942 quando anche lui partecipò alla resistenza nel suo paese, la Francia.

  1. Victor Hugo, Les Misérables, 1862.
  2. La sua storia l’ho conosciuta tramite il romanzo Un uomo di Oriana Fallaci (1979). In Italia sono stati pubblicati anche due suoi libri di poesie, Vi scrivo da un carcere in Grecia (1974) e Altri seguiranno (ristampa 1990).

Impara a vivere

Rumeno, ebreo, passò i primi 25 anni di vita scappando dal regime nazista e da quello comunista. Il primo prese i suoi genitori. Trasferitosi a Parigi, pubblicò traduzioni e raccolte proprie, si sposò. Ebbe diverse crisi mentali fino ad essere internato e sottoposto a cura sperimentale, la terapia del coma insulinico[1]. Vita innocentemente nomade e intensa oltre le forze del singolo, tragica nella misura in cui si spezzò per il peso del ricordo, una volta materialmente salvo. [2]

Celan è conosciuto universalmente per lo sforzo poetico di dire l’olocausto, ma questo articolo interroga una poesia diversa, indirizzata a nessuno, un promemoria per sé, forse, indicazioni per un’umanità a venire. Le tre strofe graficamente si susseguono ma sono da pensarsi circolari, da leggersi d’un fiato:

non scriverti

tra i mondi

Esplicitamente la poesia comanda di liberarci dall’eccessiva storicità, dal sentirci perfettamente parte di qualcosa, dall’adesione totale. Non scegliere un mondo da abitare, sembra dire, ma muoviti libero tra questi, magari giocandoci, magari morendoci. Celan ci ricorda di coltivare quel sentimento di alienazione che cova in ogni entusiasmo, forse la forma più meschina della libertà, ma sempre d’oro in tempi bui.

tieni testa

alla varietà dei significati,

Ci ricorda che basta un attimo per perdersi per sempre. Interpretando, rimanere abbagliati dai troppi significati di un evento non è meno pericoloso di non essere più in grado di avvertire angoscia nell’incontro con i mille altri che automaticamente escludiamo. Angoscia questa che nasce con l’uomo, con la sua brama di ca(r)pire la realtà e dal sentimento perenne che qualcosa si perda.

fidati della traccia di lacrime

e impara a vivere. [3]

Questi versi in chiusura sono forse i più difficili da commentare. Parlano direttamente dell’esperienza traumatica di chi scrive, invitano a fidarsi del segno indelebile tracciato dal dolore sui nostri corpi, le nostre menti, a vederne un disegno, non per giustificarlo, ma per averne una comprensione più autentica, meno caotica.

E imparare a vivere.

 

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Images]

 

Note

[1] La terapia del coma insulinico consisteva in ripetute somministrazioni di insulina ai pazienti che soffrissero di schizofrenia e altre malattie mentali e aveva l’effetto di indurre il paziente in stato di coma solo dopo frequenti e dolorose convulsioni. Effettivamente al risveglio il paziente era meno agitato, ma ciò era dovuto più allo choc che non a un effettivo miglioramento delle condizioni del malato. La terapia era ripetuta più volte nell’arco di poco giorni.

[2] L’immagine è un’acquaforte incisa da Gisèle Celan-Lestrange, moglie del poeta. Per ammissione dell’autrice le opere sono ispirate alle poesie del marito, questi talvolta le faceva pubblicare con le sue poesie.

[3] Paul Celan, “Sotto il tiro di presagi”, traduzione a cura di Michele Ranchetti e Jutta Leskien Einaudi, p. 187.

Two beautiful minds

C’è un’occasione che ha sancito definitivamente il mio passaggio all’età adulta, che mi ha fatto guardare disinvolto e senza ingenuità alle favole che da piccolo mi tenevano compagnia.

All’inizio del mio percorso di studi, il professore di logica era incalzante, riempiva la lavagna di formule e aneddoti, così pieno di trasporto e passione da catturare l’attenzione di centinaia di studenti, seduti anche per terra, stipati. Si arrivò ad Alan Turing, matematico, padre della programmazione moderna, del computer e dell’intelligenza artificiale. D’un tratto, gli occhi del professore si riempirono di lacrime, il cuore gli finì in gola e il silenzio per tutta la stanza. Il nostro non era imbarazzo, quanto invece un rispetto reverenziale: nessuno aveva il coraggio di far traballare quella tensione emotiva così delicata.
Ci spiegò che Turing, dopo aver decrittato i codici nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, venne accusato di omosessualità dalla stessa nazione che aveva salvato, dalla nazione al cui servizio prestava tutto il suo intelletto. Il patteggiamento fu una condanna: una cura ormonale dalla quale Turing uscì distrutto, stravolto a livello fisico e psicologico, senza più riuscire a vivere con quel corpo mutato, evirato.
Le favole che ci raccontano da bambini hanno sempre un bel finale, non ci preparano al mondo che in realtà ci aspetta: Turing si suicidò con una mela avvelenata, senza alcun principe azzurro ad impedirne il tragico epilogo.

Qualche anno dopo l’Inghilterra diede i natali a un’altra mente geniale, macchiata anch’essa di quel peccato imperdonabile dell’omosessualità: Oliver Sacks, uno dei neurologi più famosi al mondo. La mela era ancora lì, priva di quell’unico morso letale. A lui la scelta, ma l’esperienza fu maestra e Sacks fuggì oltreoceano a realizzare il suo sogno americano. Brillante, preparato, ironicamente britannico di spirito, la sua fama crebbe in tutti gli Stati Uniti. Scienziato pazzo, per alcuni, pazzo al punto di sperimentare sostanze stupefacenti e provare ciò che i suoi stessi clienti sentivano, per poi scriverne libri di successo internazionale. Senza di lui le neuroscienze sarebbero rimaste relegate soltanto agli ambienti più accademici, rimanendo un’oscura e affascinante disciplina.

L’eredità che ci hanno lasciato Turing e Sacks è legata al progresso della tecnologia, con cui l’indagine filosofica sulla mente umana ha potuto fare passi in avanti, consentendoci di studiare empiricamente l’attività cerebrale dell’uomo. Ci siamo affidati all’informatica, alla minuziosa precisione degli studi sul cervello e delle attivazioni sinaptiche che intervengono nei processi cognitivi di base.
Sacks ha raccolto il frutto di Turing, ma non quello avvelenato; le neuroscienze hanno raccolto l’affinamento del progresso tecnologico e si sono unite alla filosofia per discutere su cosa sia la mente umana, come funzioni e quali siano gli aspetti fisiologici e patologici della cognizione.
Spesso, purtroppo, è solo con lo studio di una disfunzione che si può teorizzare una struttura fisiologica e così, ad esempio, Sacks ha spiegato nei suoi scritti quanto il cervello di un paziente non sia propriamente malato e manchevole di funzionalità, ma sopperisca ad attività neuronali compromesse, mettendo in atto un nuovo modo di percepire la realtà, un nuovo modo di riorganizzarla a livello cognitivo, comprenderla, rielaborarla.

Deliri, allucinazioni, anomalie dalla percezione non sono cose da pazzi, anzi, sono la più sana risposta del nostro cervello ad un cambiamento o ad un malfunzionamento; sono una modalità differente di affrontare la realtà, considerata sempre più spesso una rielaborazione soggettiva della propria percezione. Il cervello si riorganizza, si riassetta su una nuova struttura che dà vita ad una percezione differente della realtà e ad un’interazione con essa rinnovata. Grazie a Oliver Sacks il corpo dei malati ha assunto un’importanza diversa, un valore più umano e degno di rispetto. Dalla fenomenologia si è arrivati alle neuroscienze, percorrendo una strada di valorizzazione del corpo e del cervello, sede delle attivazioni dei nostri processi cognitivi, che ha conferito dignità ad un corpo malato, ad un corpo che in realtà combatte in maniera sana e si adatta con una nuova struttura.

Quella mela però era rimasta sospesa, quasi nascosta. Ci pensò poi Steve Jobs a riportarla alla luce, mettendola sotto gli occhi di tutti, marchiata su ogni apparecchio Apple di cui è popolata la terra. Che la lezione sia servita, dunque, e che Oliver, a pochi giorni dalla sua scomparsa, possa ora riposare in pace.

«E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile – hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.» (Oliver Sacks)

Giacomo Dall’Ava

[immagine di proprietà di La Chiave di Sophia]

Günter Grass: tra la razionalità delle parole e la passionalità

Ieri mattina si è spento all’età di 87 anni, lo scrittore tedesco e drammaturgo Günter Grass, Nobel per la letteratura nel 1999.

Con lui ci ha lasciato un intellettuale controverso, scomodo forse nel senso pieno del termine che per molto tempo è stato considerato la ‘coscienza morale’ di una Germania che era chiamata a fare i conti con il proprio passato. Ci lascia colui che ha fatto della propria esistenza una battaglia morale contro l’oblio del passato nazista e delle sue colpe, lottando contro la rimozione della memoria.

Non solo uno scrittore ma anche pittore, grafico e sculture, autore del più importante romanzo tedesco del dopoguerra: Il tamburo di latta, inserito insieme a Gatto e topo e Anni di cani nella Danzige Trilogie (Trilogia di Danzica) nella quale Grass, a partire dai ricordi d’infanzia nella sua città Natale, rileggeva la storia tedesca, osteggiando quella “fuga dalla storia” esplicitata dalla teoria dell’anno zero, o meglio teoria dell’ora zero, che prevedeva l’annullamento dell’esperienza di terrore che era ancora presente nelle loro menti. Così scriveva in un suo passo: «Si cercava di dare alla fine del ter­rore il signi­fi­cato di ora zero, come se si potesse rico­min­ciare tutto da capo, come se bastasse rimuo­vere le mace­rie, come se fosse con­sen­tito cavar­sela impuniti».

Scoppiò poi lo scandalo, nel 2006, quando Grass confessò nel suo libro Sbucciando una cipolla e un’intervista, di aver fatto parte della Waffen SS, arruolandosi a 17 anni. Molti si chiedono perché, per oltre 60 anni, sia rimasto in silenzio su quella che potremmo considerare l’esperienza più importante della sua vita. Quello che è certo, è che Grass ha cercato per tutta la vita di emendarsi da quell’errore, sia attraverso i suoi libri sia attraverso il suo attivo impegno politico come militante. Nell’intervista del 2009 dell’Espresso, in riferimento al perché della scelta di parlare della sua reale esperienza solo in tarda età, Grass così dichiara:

«dovevo diventare vecchio per poter rivivere la mia biografia. Solo ottantenne mi è stato possibile rivedermi ragazzino di 14, 15 anni».

Aldilà della questione del suo arruolamento al nazismo, Günter Grass fu uno di quegli autori che non ebbe paura di esporre i suoi testi e metterli al confronto con coloro invece che volevo nascondere e occultavano le atrocità del nazismo. Noi vogliamo ricordarlo con queste parole:

la società ha bisogno di una letteratura che si immischi nei discorsi quotidiani, che faccia vedere senza pietà i misfatti dei potenti e mostri ai giovani i limiti delle utopie radicali. C’è sempre bisogno dell’arte che, come Oskar col suo tamburo, svegli le coscienze intorpidite”

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]

Louis-Ferdinand Céline, un nichilista? Viaggio al termine della notte: ritratto di un’epoca

 

La nostra vita è come il viaggio di un viandante nella notte; ognuno ha sul suo cammino qualcosa che gli dà pena.

Canzone delle guardie svizzere, 1793

 

«Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.»

Incipit del Viaggio al termine della notte, citato all’inizio del film La grande bellezza

Louis Ferdinand Céline (1894-1961) è stato uno scrittore francese, uno dei più controversi personaggi della letteratura del XX secolo ma anche uno dei più ammirati ed influenti.

Di professione medico, Louis Destouches assunse lo pseudonimo letterario di Céline ed esordì nel 1932 con il romanzo Viaggio al termine della notte, tuttora la sua opera più famosa. Il romanzo fu oggetto di attenzione e dibattito già al momento della sua pubblicazione, dividendo trasversalmente i lettori di ogni schieramento. Vi fu chi lo salutò come una rivelazione letteraria di prim’ordine e chi lo giudicava una sorta di parodia del maledettismo, un nichilista anarchico e disfattista. Il romanzo, chiamato in breve Voyage, è la storia di Ferdinand Bardamu, alter-ego dell’autore, dall’intervento nella Prima Guerra Mondiale nel 1914 fino ai primissimi anni ’30. Nel Voyage è spesso impossibile capire quali elementi siano tratti dalla vita del dottor Destouches e quali invece siano frutto d’invenzione. In questa sede potremmo solo soffermarci brevemente su due aspetti: sul valore della descrizione storica della sua epoca che Céline ci offre sulla nomea di nichilista che l’autore si è spesso attirato. Dovremmo purtroppo trascurare del tutto il valore strettamente letterario dell’opera, che pure è enorme: considerate dunque quanto segue non una vera analisi della vita e dell’opera di Céline, unite in maniera inscindibile, ma come un invito ad approfondire la figura di questo scontroso medico parigino.

Il Viaggio al termine della notte è la narrazione in prima persona della vita del dottor Bardamu, il racconto di quindici anni di vita in una lingua veloce e vorticosa, tanto sboccata e vicina al parlato quanto frutto di grande abilità letteraria. Nelle parole del narratore vengono in discussione tutte le fondamenta del ventesimo secolo. Nella Grande Guerra non vi sono soldati eroici, ma uomini che tentano di sopravvivere in un massacro di cui non capiscono né il motivo né l’utilità. Il colonialismo traspare come uno sfruttamento sistematico di popolazioni indigene dagli usi incomprensibili da parte di europei abbrutiti ed incattiviti. L’espansione delle città nelle campagne appare un contrasto tra due mondi opposti, le nascenti grandi industrie di Detroit sono un mondo alienante, l’ambiente medico ed accademico è pervaso da rivalità ed arrivismo. Ciò che più appare evidente in questo ritratto di un’epoca è però la critica al sistema sociale vigente, che abbandona i più sfortunati al loro destino di povertà. Quella povertà che sia l’uomo Céline sia il personaggio Bardamu vedevano come un’orrenda malattia e che conobbero loro stessi, offrendo assistenza medica anche a tutti coloro che non potevano permettersi di pagare il servizio. Nell’affrontare i grandi miti del Novecento Céline non diventa mai partigiano di una certa parte né si adagia su posizioni di comodo. All’orrore della guerra non segue una dichiarazione di pacifismo. La giungla africana è un posto selvaggio come la metropoli di New York, la severa critica al colonialismo non cede mai il passo ad un retorico elogio del “buon selvaggio”, alla disumanità della realtà industriale non corrisponde una nostalgia del mondo rurale, meschinità ed ipocrisia affiorano tra i ricchi come tra i poveri. Una vorticosa e pessimista descrizione delle brutture della vita e del mondo, in cui però affiorano timidi ed inaspettati momenti di autentica commozione e generosità, specialmente da parte dei reietti, gli ultimi della società. Nemmeno questi ultimi sono però oggetti d’idealizazione: Céline era infatti convinto che un eventuale riscatto delle classi più umili non potesse partire da esse, e tale convinzione gli alienò da subito la simpatia di molti critici.

Il Voyage non è un banale elenco di blasfemie, ingiustizie ed amoralità. Come egli stesso ammise, l’intento di Céline era quello di esprimere i sentimenti che un uomo può sentire ma non può confessare. E i sentimenti che traspaiono nel Voyage non sono quelli di una persona che ha realizzato il vuoto della vita si è abbandonato al nichilismo più crudo convinto dell’inutilità dell’esistere. Céline ci mostra invece i sentimenti di un uomo con un’altissima concezione della vita e degli esseri umani, e che proprio per questo non tollera le bassezze morali cui ogni uomo, di ogni estrazione ed egli stesso compreso, è dedito. Alla luce di ciò è facile mettere in discussione l’idea di Céline come nichilista. Se si mette in discussione ogni principio morale ed il valore stesso della vita allora si rifiuta inevitabilmente anche il mondo in cui si vive. Céline invece, senza apparentemente aderire a nessun credo, si dedica a smontare i falsi miti della società e a porre in evidenza le insanabili contraddizioni del mondo, non a respingere acriticamente ogni cosa.

Purtroppo il valore del pensiero e della letteratura di Céline sono stati a lungo tempo oscurati dalla nomea di nazista che lo scrittore si attirò dopo aver pubblicato, alla fine degli anni ’30, alcuni pamphlet dichiaratamente antisemiti. Opere che appaiono ancora più incomprensibili da parte di uno scrittore di tal valore, pregne di un antisemitismo ben distinto dal nazismo ma che rasenta il farsesco, toccando il complottismo più ingenuo e la pseudo-scienza più cialtrona. Con la Seconda Guerra Mondiale, Céline riparò presso il governo filo-tedesco di Vichy, dove non ebbe però incarichi. Alla fine della guerra il dottore fuggì in Danimarca temendo l’accusa di collaborazionismo, ma fu presto arrestato e rimpatriato. Céline fu scarcerato nel 1951, ma la sua figura era ormai irrimediabilmente compromessa, ed il dottor Destouches pagò i suoi errori vivendo in disparte ed in oblio gli ultimi dieci anni di vita. Difficile esprimersi sull’antisemitismo di Céline, tutt’ora oggetto d’incertezza e d’indecisione. Alcuni ridimensionano il razzismo celiniano fino a considerarlo solo un’espressione dell’antisemitismo che in Francia fu serpeggiante fino alla seconda guerra mondiale, e la colpa dello scrittore sarebbe stata l’averlo ammesso apertamente. Altri evidenziano come tale pregiudizio non avesse nello scrittore nessun fondamento religioso o razziale, ma che egli avesse semplicisticamente identificato negli ebrei la grande borghesia arricchita. Già all’epoca della loro uscita questi pamphlet suscitarono sconforto nella critica di sinistra e dubbi in quella di destra: in molti lo accusarono di nazismo o di opportunismo e solo in pochi, come André Gide, reputarono i tre libri un gioco “letterario” cui l’autore stesso non credeva.

Bisogna sempre distinguere tra un uomo ed il suo lavoro, anche quando vita ed opera sono strettamente intrecciate e confuse come in Céline. Ma come è discussa la figura di Céline, così è indiscutibile il valore dei suoi libri. Prendete questa pagina come un piccolo invito a leggere il Viaggio al termine della notte.

«Così finiscono i nostri segreti quando li esponi all’aria e in pubblico. Di terribile in noi e sulla terra e in cielo c’è solo quello che non è stato ancora detto. Saremo tranquilli solo quando tutto sarà stato detto, una volta per tutte, allora finalmente faremo silenzio e non avremo più paura di stare zitti. Ci saremo.»

Louis-Ferdinand Céline

«…perché ti piace Céline? Perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra. un uomo molto coraggioso. Perché è importante il coraggio? È una questione di stile. l’unica cosa che ci è rimasta.»

Charles Bukowski

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Umberto Mistruzzi

[Immagini tratte da Google Immagini]