We are Belgium: il Belgio oltre il Mondiale, lingue e diversità

Poco più di un mese fa la finale dei mondiali di calcio, un tempo dedicato anche a rispolverare bandiere e origini, anche per chi fa parte della European bubble di Bruxelles. Cosa c’è di meglio di una competizione sportiva internazionale per discutere di politica? In fondo, i mondiali di calcio sono tutto tranne che calcio: riadattando una citazione di Carl von Clausewitz1, mi piace convincere gli amici ad interessarsi ai mondiali sostenendo che, in fondo, qualsiasi competizione internazionale è solo «la continuazione della politica con altri mezzi»2, in questo caso sportivi. Un’occasione perfetta per ricordarci che siamo united, sì, ma in diversity3.

Quando l’Italia al mondiale non c’è e sei circondata da persone che si preparano a tifare la propria nazionale, hai due scelte: scegliere un’altra squadra da tifare o osservare gli altri tifare. Dopo un periodo iniziale di tentennamento e l’uscita ai gironi di quasi tutte le squadre che avevo deciso di “supportare” sulla base di criteri poco credibili (per esempio, il paese dell’ultima vacanza), ho deciso di arrendermi. È stato a quel punto che il Belgio mi ha offerto lo spunto per un’interessante riflessione.

We are Belgium” è il motto del mondiale del Belgio, scelto da AB InBev la più grande compagnia di birra belga (la famosa Jupiler è stata infatti rinominata Belgium per il periodo dei mondiali). Lo scopro qualche settimana prima in una serata qualsiasi al cinema, quando nei 30 minuti di pubblicità che precedono l’inizio del film, passa una sorta di pubblicità-cortometraggio sui Red Devils, la nazionale belga. Lo scopo è quello di spiegare perché “We are Belgium” e smuovere il patriottismo belga. La pubblicità mostra, oltre ad immagini di tifosi dei Red Devils, anche l’intervista ad una ragazza che, presentata al pubblico come la cugina del capitano della squadra belga, spiega le sue ragioni del perché “siamo tutti il Belgio”4.

Tutto normale: la pubblicità è apprezzabile ed una grande idea di marketing. Se non fosse che, a conclusione della stessa, mi rendo conto che la lingua usata è l’inglese. Eccola la Belgicità! Improvvisamente, lo spunto di riflessione mi è servito su un piatto d’argento.
Il Belgio è un paese con tre lingue ufficiali (francese, fiammingo e tedesco), in cui almeno due delle tre comunità linguistiche (quella francese e quella fiamminga) si fanno la guerra sull’uso delle rispettive lingue. Si potrebbe pensare che non ci sia nulla di strano al riguardo – fino a quando non ci si rende conto di quanto sia radicata questa guerra linguistica. Possiamo anche sorvolare sul bilinguismo dei nomi delle vie o delle fermate della metro e degli autobus. Ma prendiamo l’esempio della metro. Appena trasferita a Bruxelles, mi sorprese il fatto che in metro ogni tanto passassero canzoni italiane piuttosto datate – niente a che vedere con il marketing chiaramente, dato che le canzoni in questione avevano nel migliore dei casi almeno 15 anni. Scoprii poi che la questione era semplice: francesi e fiamminghi decisero, per amore della neutralità, che le canzoni usate nel trasporto pubblico potevano essere inglesi, italiane, spagnole – ma rigorosamente non francesi né fiamminghe. Una vecchia storia conosciuta, per chi vive in Belgio.

Ma la questione sembra non avere una fine: così, solo qualche mese fa, scopro che il bilinguismo dietro i nomi delle fermate della metro e degli autobus ha un suo preciso ordine. Per evitare qualsiasi barlume di parzialità, i nomi delle fermate in questione sono rispettivamente in ordine alternato. Ovvero, se una fermata è identificata prima con il nome francese e poi quello fiammingo (Arts-Loi/Kunst-Wet) quella successiva avrà prima il nome fiammingo e poi quello francese (Park/Parc). E così via.
Conscia della guerra linguistica intestina del Belgio, immagino che la scelta dell’inglese per la pubblicità in supporto ai Red Devils sia un tentativo neutrale di non scontentare nessuno. Tuttavia, a pensarci bene, essa racchiude anche la vera essenza del Belgio, che lo slogan stesso vuole promuovere e di cui fa parte in effetti la menzionata guerra linguistica, superata solo grazie ad una neutralità standard su cui tutti sono d’accordo. Nient’altro avrebbe potuto esprimerla meglio del motto “We are Belgium”, rigorosamente in inglese.

Ma torniamo un attimo ai mondiali. A questo punto un dubbio mi assale: in che lingua parlano i giocatori della nazionale belga? Decisa a scoprirlo, inizio a chiedere alle persone di nazionalità belga che conosco. Nessuno mi sa rispondere. Vengono avanzate varie ipotesi: spagnolo, perché l’allenatore è spagnolo; francese o fiammingo perché in fondo anche gli impiegati pubblici devono saperli parlare entrambi. Chiaramente nessuna di questa ipotesi è plausibile. Suggerisco l’inglese, ma nessuno ne sembra convinto. Qualcuno scherza, dice che non parlano (!), qualcun altro dice che ognuno parla la sua lingua – altre ipotesi scarsamente immaginabili, soprattutto per i 90 minuti in campo durante i quali per i giocatori capirsi è fondamentale. Qualcuno mi dice di non essersi mai posto il problema e, in alcuni casi, per far capire il nocciolo della questione mi vedo costretta a spiegare chiaramente cosa si cela dietro la mia curiosità.
Rimango senza risposta per qualche settimana, fino a quando Reuters5 e il Post6 decidono di porsi la stessa domanda. Ma loro hanno fornito anche la risposta. Ed ecco svelato il mistero: l’inglese, come volevasi dimostrare, è la lingua usata dai giocatori della nazionale belga. In fondo, “We are Belgium” e non potrebbe essere altrimenti.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Generale e teorico militare della Prussia (1780 -1831).
2. La massima originaria recita “War […] is the continuation of politics by other means”.
3. Il motto dell’Unione Europea in uso dal 2000 è “United in diversity”, ovvero uniti nella diversità.
4. Quella trasmessa al cinema non è la stessa pubblicità, più corta, trasmetta invece dalla televisione belga, che usa invece tutte le lingue ufficiali del Belgio e lo spagnolo (lingua dell’allenatore spagnolo), con sottotitoli in inglese.
5. Reuters, Who are Belgium? No identity crisis for Martinez’ men, 2 luglio 2018
6. Il Post, In che lingua si parlano i giocatori del Belgio?, 2 luglio 2018

[Photo credits: Alex Wong on Unsplash.com]

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L’Italia è un’invenzione

All’anagrafe: Italia, anni centocinquantasei, faticosamente impastata lungo il tortuoso Ottocento, incastonata tra moti, cospirazioni e un “Quarantotto” sulle spalle; n° di spedizioni con mille uomini: una, n° di re: quattro in rima alternata Vittorio Emanuele – Umberto – Vittorio Emanuele – Umberto, di cui uno morto per febbre, uno ucciso, uno abdicato, uno esiliato per cessazione di attività monarchica su suolo patrio; perdite: «due guerre mondiali, un impero coloniale, otto campionati mondiali di calcio consecutivi» (cit. rag. Ugo Fantozzi). Prima repubblica “era tutto un magna magna”, seconda repubblica “è tutto un magna magna”, la terza ancora deve nascere ma non parte molto avvantaggiata.

Amata dai turisti che cantano O’ sole mio a Venezia, odiata dagli autoctoni solo in occasioni precise che non devono coincidere con le partite della nazionale di calcio, rugby, pallanuoto, bocce, freccette, pesca, con le manifestazioni di orgoglio etnico e di presunta supremazia sulle altrui culture, in pratica odiata solo durante il suo compleanno, durante il compleanno del suo vessillo tricolorato e sporadicamente quando qualcuno o qualcosa pretende la propria indipendenza.

“Si stava meglio sotto il doge” ha la stessa valenza di “Si stava meglio sotto Vespasiano”, in entrambi i casi alzi la mano chi se lo ricorda: nessuno? Ma proprio nessuno? Addio al record di persona più longeva in assoluto, mi avete illuso.

Cos’è l’Italia, cosa sono gli italiani? Le divisioni ci sono, le mentalità sono diverse e possono cambiare da Bolzano a Siracusa (millecinquecento km, n.d.r.), cambiano le storie, le origini di ogni piccola landa. Paese di campanili, campanilismi, campanari – fra’ Martino spostati che ci siamo noi –, non è solo una questione nord-sud, non è solo Milano contro Napoli, ma Pisa contro Livorno, Legnano contro Busto Arsizio, persino le diverse contrade di una stessa città come Siena possono ritrovarsi goliardicamente o meno l’una contro l’altra. Gli italiani mal sopportano il proprio vicino di casa, che sia dirimpettaio, confinante o condomino, poco importa: è genetico, è storico.
Cambiando l’ordine di frazionamento in unità più piccole, la filosofia di base non cambia.

“L’Italia è un’invenzione, una semplice espressione geografica, un artefatto di pochi (cit. diverse persone che oggi sono storici di professione, domani saranno allenatori, o burocrati, o esperti in medicina, o nutrizionisti o costituzionalisti… dei jolly insomma), cosa c’è di vero nel disincanto delle nostre radici? Potremmo parlare per ore della lunga e travagliata vita che ha attraversato i secoli a cavallo della nostra penisola, un intreccio di civiltà mescolate più volte con ingredienti giunti da lontano, ma la parola nazione intesa con il significato odierno, la troviamo solo dopo l’assolutismo, ed è un fatto europeo, non unicamente italiano.

Le nazioni sono state inventate? Certamente, l’Italia è un’invenzione, così come la Francia, la Germania, la Spagna, la Catalogna, il Regno delle Due Sicilie, la Repubblica di Venezia; sono invenzioni anche i nomi delle città, sono invenzioni le tradizioni, i culti, gli idiomi, i proverbi, i riti, le liturgie. Tralasciando l’ambiente, le conformazioni geologiche e per certi versi il clima, è difficile non inciampare in qualcosa inventato dall’uomo con lo scopo di legittimare la propria appartenenza al mondo o cementare i legami con altri uomini: animali sociali ma poco socievoli.
Verrebbe da dire che ci associamo con lo scopo di detestarci e tutto volgerebbe nel pessimismo fatalista – artificiale anch’esso – che poniamo sopra di noi in un conglomerato astratto manovratore dei nostri destini.

Posso dire di aver visto l’Italia da lontano, storicamente e geograficamente.
Esisteva in un sogno nato tra i giovanissimi dopo aver letto la Divina Commedia oppure I promessi sposi, dopo aver ascoltato il Nabucco con il famoso Va, pensiero, opere capaci di accrescere, attraverso i complessi meccanismi della suggestione, il sentimento che diede vita al Risorgimento.
Dall’altra parte del mondo ho capito che l’Italia, con tutte le sue differenze, sembrava molto casa mia. Cambiare città come cambiare stanza, in ogni luogo facce amiche, una lingua alla base che sfuma in accenti e dialetti da ascoltare lentamente per comprenderli più facilmente.

Non è poi così male questa invenzione piena di difetti, con una Storia certamente da rivedere, con pagine ancora bianche o cancellate, contraddizioni a non finire, con un popolo che se spendesse meno energie per la pigrizia culturale, per la troppa rivalità malata figlia più del pregiudizio che dell’esperienza, avrebbe di che vantarsi entro i suoi confini.

Alessandro Basso

Foibe: la strage dimenticata

Oggi 10 Febbraio è la giornata in cui tutti dovrebbero dire ad alta voce “Je suis Italiano”, ma come al solito il silenzio sarà assordante, per mancata conoscenza, per non averlo mai studiato a scuola, per negazionismo, per stupida suddivisione di morti di seria A e morti di serie B, per colore politico.

Oggi è la giornata del ricordo delle vittime dei massacri delle foibe e degli esuli che hanno perso tutto per colpa della loro nazionalità: italiana.

 

Trecentocinquantamila furono gli italiani che dovettero fuggire dal regime slavo e lasciare la propria terra, le proprie origini, i propri beni. Migliaia di sfortunati innocenti furono invece ammazzati e infoibati dai comunisti di Tito: torturati, legati, martoriati e poi gettati nelle cavità carsiche (foibe), così, come fossero spazzatura.

 

Voglio ricordare, per tutte le vittime di quell’eccidio, la storia di una ragazza, Norma Cossetto, studentessa  italiana, istriana, uccisa da partigiani jugoslavi nel 1943 nei pressi della foiba di Villa Surani.

 

cossetto

 

Questa ragazza venne arrestata dai partigiani e venne condotta, con altri prigionieri, alla scuola di Antignana, adattata a carcere; Norma venne tenuta separata dagli altri per essere sottoposta a sevizie e stupri di ogni sorta dai suoi carcerieri che abusavano di lei mentre veniva tenuta legata al tavolo.

 

«Signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura anch’io».

[dall’intervista “Licia Cossetto: mia sorella, un germoglio che non fiorì”]

 

Tra il 4 e il 5 Ottobre 1943, tutti i prigionieri vennero gettati ancora vivi nella foiba di Villa Surani. Norma Cossetto subì ulteriori sevizie sul posto, tra cui l’amputazione di entrambi i seni e «un pezzo di legno ficcato nei genitali»1.

 

L’unica sua colpa?

 

Essere italiana e non volersi unire al movimento partigiano, per essere libera di scegliere e di vivere la sua vita da studentessa come gli altri suoi coetanei.

 

Norma non deve essere dimenticata. Così come tutte le migliaia di persone che hanno subìto l’umiliazione dell’esilio e della tortura.

 

Il massacro delle foibe deve essere ricordato, come tutte le stragi che sono avvenute nel corso della storia, affinché nulla di simile possa più accadere, affinché ognuno possa essere libero.

 

Non deve esserci colore politico intorno a nessun eccidio, il negazionismo è da considerarsi un reato perché ammazza per la seconda, terza, quarta… volta le persone coinvolte.

 

Facciamo uno sforzo e per una volta almeno, per un giorno soltanto, sentiamoci Nazione, sentiamoci Italiani.

 

IO SONO ITALIANA.

 

Valeria Genova

 

NOTE:

1. Claudia Cernigoi, Il caso Norma Cossetto, in La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo (Trieste), 6 marzo 2011.

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Se conservare significa rivoluzionare

A breve si compiranno i novant’anni da quando in un giorno del 1917 Hugo von Hofmannsthal coniò la controversa espressione “rivoluzione conservatrice”. L’epiteto vuole provocatoriamente accostare due termini che letteralmente non potrebbero stare insieme: la rivoluzione è per essenza il movimento volto alla sovversione di ordini politici, sociali, culturali, che tendono a resistere, imporsi, mantenere il loro status e perciò a conservarsi.

Eppure, in uno scritto dal titolo Gli scritti come spazio spirituale della nazione, Hofmannsthal afferma la necessità di un processo culturale che definisce proprio «rivoluzione conservatrice»1. L’obiettivo dello scrittore era cercare di ridare senso all’essenza culturale europea che stava crollando non solo sotto le bombe della prima guerra mondiale, ma anche sotto i colpi di quella trasformazione dalla portata globale che ancora oggi ci investe e che si traduce nel dominio di quell’«io internazionale dai mille volti»2. Questa figura funge da nuovo soggetto che vuole sovrastare un mondo che assume sempre più la forma dell’apparato tecnico dominato da rapporti economici. Nel mondo del «tutto dipende dal denaro»3 tutto è un divenire immerso in un «relativismo ineffabile»4 che pare impossibile se non ridicolo ricongiungere sotto una direzione unitaria.

In questo contesto, anziché alimentare e favorire quella che viene definita l’«ammaliante e provocante libertà»5 di questo soggetto vacuo, Hofmannstahl invita a pensare il senso del legame: il legame inteso come unità spirituale di una comunità che si riconosce come nazione, accomunata da un sentire e da un linguaggio che non è solo mezzo per la comprensione, ma espressione di quella vibrazione originaria che chiude in un cerchio solo chi parla e chi ascolta, chi scrive e chi legge. I valori liberali e socialdemocratici che andavano sviluppandosi e che avrebbero costituito l’esperienza della Repubblica di Weimar erano visti come inizio dello smembramento dell’essere e del sentire del popolo, che doveva adeguarsi a un sistema sociale ed economico ad esso estraneo e dannoso.

Facile comprendere come, dati i tempi in cui queste riflessioni si facevano strada non solo nella mente di Hofmannsthal, ma anche di personaggi come Jünger, Heidegger, Spengler e altri, i discorsi sulla nazione, sul comune sentire, sul sentimento völkisch potevano assumere tratti devianti e inquietanti. Molti dei protagonisti di questo movimento dovranno rispondere delle accuse di appartenenza al nazismo. Né è un segreto che il nazismo stesso abbia assunto da quell’humus culturale parte della propria energia, ponendosi come risposta a quella forte tendenza globalizzatrice e, ai loro occhi, distruttrice, che andava costituendosi già allora.

Ma al di là delle implicazioni storiche e delle deviazioni che il movimento conservatore tedesco di allora subì, possiamo ancora trarre linfa positiva dalle istanze quella particolare rivoluzione voleva porre? Di fronte alle similitudini che il nostro mondo ancora possiede verso quel periodo (le bombe, il caos culturale, la diffusione dell’apparato tecnico come strumento di dominio planetario), hanno quegli autori qualcosa di ancora intensamente valido?

Per chi scrive questo articolo le domande sono retoriche: riferirsi a un contesto originario di legami, tradizioni, relazioni, costituisce il punto di partenza primario per un discorso concreto riguardo un qualcosa che possa darsi come “popolo” o “nazione”. Non si tratta di riferirsi a ideali astratti o invenzioni di comodo, che sono il rovescio della medaglia. Il radicamento dell’uomo al proprio contesto, cioè al suo tempo, al suo spazio, ai suoi modi di vivere e il pensiero intorno a queste cose sono la base culturale ultima che possa porsi come punto di partenza per una ricostruzione nazionale o europea.

Ecco perché alla luce degli stravolgimenti di cui quotidianamente sentiamo parlare troviamo in quelle energie che animarono il centro Europa e nei suoi rappresentanti un invito a pensare il nostro stare al mondo in modo più concreto e vicino al nostro essere proprio, al di là di slogan astratti e propositi buoni ma vani.

Ogni stato e ogni confederazione possono comprendersi a partire da come gli uomini al suo interno vedono e pensano se stessi. Educare alla comprensione del sé e di ciò che è circostante deve essere il primo obiettivo politico. Per questo quegli strani letterati e rivoluzionari non lanciano altro che un invito a ricominciare a ricostruire il proprio tempo a partire da sé prima che da un mondo esterno ed estraneo.

Luca Mauceri

NOTE:
1. Hugo von Hofmannsthal, Gli scritti come spazio spirituale della nazione, in Id., La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia, 2003, p. 72.
2. Id., L’idea di Europa. Note per un discorso, in Id., La rivoluzione conservatrice europea, cit., p. 33.
3. Ivi, p. 34.
4. Ibidem.
5. Ivi, p. 22.

La Patria delle trivelle

In seguito alle votazioni di ieri, mi è giunta forte fortissima la riflessione su un concetto tanto semplice quanto denso di significato, quello di Patria.

Nella modernità troppo spesso si è utilizzato il socialismo marxista per demolire l’amore di patria, infatti, si cercava di diffondere l’idea che se la patria è qualcosa di  ereditato dagli antenati attraverso la tradizione, allora il lavoratore dipendente, che non possiede nulla di suo, non trae alcun vantaggio dalla patria, quindi va respinta come mero vuoto sentimentalismo che le classi dominanti sfruttano per meglio assoggettare i popoli e di cui i proletari  è meglio che si sbarazzino per il progresso del mondo.

Questo pensiero per molto tempo è stato alla base di ogni più stupida e ridicola denigrazione dell’ideale della Patria e purtroppo si sente ripetere ancora troppo spesso da alcuni di vergognarsi di essere italiani, di non sentirsi italiani se rappresentati da una determinata fazione politica: questo non è essere patrioti!

La politica non deve mai compromettere il sentimento che si prova per la propria terra! Un sentimento, appunto, che non svanisce solo perché non si concorda con una determinata politica; l’amore per la propria Nazione deve trascendere questo puro materialismo, anzi, a causa di questo dovrebbe aumentare l’orgoglio patriottico.

La denigrazione del proprio Paese non ci rende degni di esso, di questo ne sono certa.

Concordo con Fichte, esponente dell’idealismo tedesco, quando afferma:

Ma dove mai si può trovare una garanzia per queste aspirazioni e questa fede dell’uomo bennato nell’eternità e perpetuità dell’opera sua? Evidentemente solo in un ordine di cose che egli possa riconoscere eterno in sé e capace di accogliere in sé l’eterno. Tale ordine è quella speciale forma spirituale dell’ambiente umano, che non si può chiudere in un concetto e tuttavia esiste realmente, da cui egli è uscito fuori con la sua attività e la sua mentalità e colla sua stessa fede nell’eterno: il popolo da cui è nato, in cui fu educato e crebbe qual è ora.

[…] Ecco dunque il significato della parola “popolo”, dal punto di vista di un mondo spirituale: quel complesso di uomini conviventi permanentemente e permanentemente riproducentesi sia naturalmente che spiritualmente, stando esso sotto una speciale legge di sviluppo dell’elemento divino che esso ha in sé. La comunanza di questa “speciale legge” è appunto ciò che cementa questo complesso di uomini nel mondo eterno e quindi anche nel mondo temporaneo, facendone un tutto organico e tutto! pervaso di sé. […] Quella legge di sviluppo dell’elemento primitivo e divino determina e compie ciò che si è chiamato il carattere nazionale di un popolo.”

Il concetto di popolo nell’idealismo si fonda con quello di spirito, visto come dimensione metaindividuale alla quale il singolo appartiene: attraverso questa identificazione l’uomo è in grado di oltrepassare i suoi limiti perché entra a far parte di un processo infinito ed eterno. In questo modo risulta chiaro che la Nazione è la vera dimensione dell’individuo in cui può effettivamente realizzarsi.

Ho scelto Fichte perchè a mio avviso esprime proprio il sentimento, la dimensione spirituale che lega l’uomo al proprio Paese: la Patria è ciò in cui vige un legame di partecipazione profonda, di vera e propria identificazione  mediante la quale l’individuo supera la propria particolarità per sentirsi un’unica realtà con gli altri.

La Patria è ciò che ci fa conoscere l’eternità nella nostra finitezza terrena, è

il fiorire del divino nel mondo, sempre più puro, più perfetto, più prossimo al limite nel suo infinito perfezionarsi. Perciò l’amor di patria deve governare lo Stato come suprema incontrollata istanza”.

La voglia di Unità d’Italia deve riguardare tutti gli italiani ogni giorno dell’anno, attraverso la riscoperta dell’universale ideale della Patria che è ciò che ci rende forti e pronti a combattere ogni tipo di sistema che non ci vada a genio, altrimenti, se questo sentimento lo manteniamo sopito dentro di noi o, anzi, lo deturpiamo, beh non lamentiamoci di chi siamo ora e di quello che saremo domani.

Valeria Genova

Aldo Capitini la migliore delle democrazie: l’Omnicrazia

Fin da una prima lettura risulta difficile non riconoscere il pensiero di Aldo Capitini come prossimo alle nostre sensibilità personali, se non addirittura familiare. La profondità morale delle sue riflessioni, la tenacia con cui cercò di stimolare le coscienze degli italiani, l’impegno concreto con cui si oppose ad ogni forma di autoritarismo sia politico sia religioso, sono tutti elementi che caratterizzarono la sua figura e che meriterebbero di essere messi in luce per mostrare la necessità della riscoperta di un sano confronto democratico, riguardo le più imponenti tematiche socio-politiche che caratterizzano i tempi attuali.

Attraverso la lettura del testo “Il Potere di tutti”, sono riuscita a percepire quanto Capitini desiderasse per l’Italia una forma di governo autenticamente democratica. Dico “autenticamente” in quanto l’idea di democrazia che egli aveva definito era così pura da portarlo a criticare la forma di governo “democratica” che a quel tempo si era instaurata, e che continua tutt’oggi. Quest’ultima, infatti, a suo parere non era in grado di favorire una vera interdipendenza positiva tra gli individui, né tantomeno di realizzare un legame solido e proficuo tra essi e i detentori del potere politico. Capitini dimostrò di nutrire nei confronti dell’ideale democratico il massimo delle aspirazioni, tant’è vero che per sottolineare la fiducia che egli riponeva in esso e soprattutto nel suo miglioramento, egli parlò principalmente di omnicrazia.

Omnicrazia, o potere di tutti, deve essere intesa come una più avanzata e più aperta democrazia; in essa tutti devono poter partecipare alla discussione pubblica, senza distinzioni (di sesso, età, razza, nazionalità, istruzione, censo, partito politico) né limitazioni.

Ciò che più importava a Capitini era il dimostrare la reale necessità di procedere oltre il sistema della delega del potere; questa, infatti, marcando una netta distanza tra coloro che detengono direttamente il potere e coloro che invece lo detengono soltanto in maniera indiretta, a lungo andare potrebbe sfavorire l’effettiva partecipazione del popolo alla vita pubblica e politica del paese. Tale processo, a distanza di cinquant’anni rispetto alle elaborazioni teoriche di Capitini, risulta abbastanza evidente: la politica è considerata sempre più come una sfera lontana dalle finite possibilità degli individui e talvolta come impermeabile rispetto alle proposte o alle iniziative provenienti da quei cittadini che vorrebbero apportare al suo interno i cambiamenti indispensabili ad un suo migliore funzionamento. Questo sentimento comune, a mio parere, è palese nella sfiducia di quanti guardano impotenti agli alti piani della politica, nell’alto tasso di assenteismo che si registra al momento delle elezioni, nella mancanza di iniziativa privata (in quanto, inutile dirlo, a causa delle problematiche economiche che caratterizzano l’andamento degli ultimi tempi, gli individui sono talvolta occupati a fare i conti con ben altre preoccupazioni).

Al fine di poter godere di un migliore sistema rappresentativo, Capitini riteneva che il Parlamento dovesse essere integrato da centri sociali e da assemblee pubbliche non per forza deliberanti, ma comunque consultive. Questa integrazione era da lui ritenuta necessaria in quanto «le istituzioni possono inorgoglirsi della loro chiusura e divenire prepotenti». Egli fondò così i cosiddetti Centri di Orientamento Sociale, i quali, garantendo un più profondo coinvolgimento della popolazione rispetto a quanto non avveniva all’interno di un normale contesto democratico, si proponevano come il mezzo migliore per poter attuare una forma di governo omnicratica.

I COS permettevano lo sviluppo di una particolare forma di decentramento politico e di “controllo dal basso” (contro l’influenzabilità politica che può derivare da interessi privati e settoriali, la quale sempre più oggi fa sentire il suo peso) dai benefici facilmente intuibili: non soltanto consentivano agli individui di sentirsi responsabili in prima persona, ma garantivano anche un’attenuazione del tanto temuto divario tra coloro che detenevano il potere e coloro che invece non lo esercitavano direttamente.

A mio parere, la riflessione politica di Capitini, assieme al suo complesso sistema di pensiero etico, filosofico e religioso, può essere un utile spunto per chiederci, non con l’amarezza e la rassegnazione che sempre più caratterizzano il nostro presente, ma piuttosto con una sana progettualità: a che punto ci troviamo oggi? Sentiamo di vivere all’interno di un contesto democratico adatto a realizzare la nostra natura, in grado di tutelare le nostre attività, capace di provvedere al domani del nostro Paese? Ma soprattutto, quanto peso e quanta influenza riteniamo di possedere rispetto alle decisioni politiche che inevitabilmente giungono a condizionare anche la nostra vita privata?

 

Durante il secolo scorso Aldo Capitini si propose e venne identificato come personaggio decisamente controcorrente a causa delle critiche che egli non mancò di indirizzare nei confronti del conservatorismo ecclesiastico e a causa della sua palese opposizione alle direttive del Partito Fascista, del quale, a differenza di molti altri intellettuali dell’epoca, rifiutò coraggiosamente la tessera d’iscrizione. In seguito alla pubblicazione dei suoi primi scritti egli divenne uno dei riferimenti letterari della gioventù antifascista. Capitini si fece inoltre portavoce del pensiero nonviolento di Gandhiana memoria promuovendolo attraverso una serie di iniziative concrete, tra le quali la prima Marcia per la Pace che si svolse nel contesto italiano, dispiegatasi nel 1961 da Perugia ad Assisi.

 Federica Bonisiol

[immagine tratta do Google Immagini]

 

BIBLIOGRAFIA:

Aldo Capitini, Il potere di tutti, Guerra Edizioni, Perugia 1999

(Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1989)

L’essenza della nazione nella contemporaneità

La contemporaneità. Un’epoca relativamente semplice. Un’epoca che usa gli specchi sociali, la credenza più ignota ed il miglior Napoleone sul campo per manifestarsi sulla terra. La potenza di una nazione, oggi, è ben rappresentata dal mercato e della finanza: perché prendersi la briga di un travaglio, quando si può rendere un po’ più “Comune” ogni diversità?!

L’essenza della nazione sfuma per mezzo della materia: l’immagine, il make-up e gli stereotipi sono le leve che azionano la produzione post-idealistica e post-moderna di uomini del futuro. L’equilibrio dell’economia sollazza e decanta la classe politica; tutto il corpo dirigenziale si rende amabile, sempre relativo e sempre meno universale.

Il contrappeso alla spersonalizzazione soggettiva è un livellamento oggettivo: la realtà muta così velocemente rendendosi invisibile al soggetto, svuotandolo di ogni virtù elitaria, livellandolo al suo prossimo. Il soggetto, forzato o corrotto dai suoi bisogni sociali e materiali, muterà per spirito d’adattamento. Ogni tensione sociale all’interno del tessuto post-statale, viene consacrata ad una guerra: il Bene fornisce aiuti umanitari, il Male bombe e pugnali.

Ah l’umanità di oggi! Senza pudore né morale, né filosofia; realtà e rappresentazione concertano con le belle parole che abbiamo in bocca. Il grasso cola da ogni immagine dell’uomo: la bellezza è tangibile; riconosciamo in essa sia tragicità che comicità.

Grasso che cola dai nostri occhi e dai nostri sogni ad occhi aperti. Il grasso della contemporaneità non sta sulla brillantina sulla giacca, né in un colpo di tosse, né nell’improvvisazione; la parola d’ordine è “niente emotività”: ogni opportunità che si presenta va studiata, calibrata e dissolta.

Il fallimento è bandito dalla contemporaneità, non vi è spazio per i sogni e tutto deve compiersi nell’immediato. In questa epoca tutto è sia Bene che Male e i “Perché” non si esprimono ma si confutano ed il tuo problema non sarà mai il mio fintanto ho legna da ardere. Il mondo non è più manicomio, ma ospedale.

Salvatore Musumarra

[Immagini tratte da Google Immagini]