I muri in pietra a secco come medietas tra uomo e natura

In una serie di xilografie l’artista Remo Wolf (1912-2009) raffigura alcuni muretti a secco campestri, in cui l’elemento murario è al centro della rappresentazione, in un gioco di ombre ottenuto dal contrasto tra bianco e nero. Uno degli aspetti che emerge è la compresenza della componente antropica – il muro – e della componente naturale, costituita dalle piante che occupano gli interstizi fra i sassi. Nonostante nelle incisioni la figura umana non compaia, la sua presenza si manifesta nelle differenti tecniche costruttive dei manufatti, mentre la fatica del lavoro promana dalla pesantezza dei massi, disposti da anonime mani contadine. L’elemento vegetale ha un ruolo rilevante nelle immagini, che disvelano la biodiversità tra gli anfratti delle pietre, dove crescono arbusti, muschi, radici e piante rampicanti.

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Attraverso l’alternanza di chiaro e scuro, che intreccia le linee del manufatto e della natura, le xilografie di Wolf invitano a riflettere su valori e funzioni dei muretti in sassi nel paesaggio alpino. D’altra parte, quando si percorrono i sentieri di media montagna, capita di imbattersi in vecchi muri in pietra a secco, che marcano i terreni agricoli, corrono lungo i viottoli di campagna, sostengono i terrazzamenti. Succede di incontrarli anche quando attraversiamo un bosco o siamo in alta quota, e, nel loro stato di abbandono, testimoniano fin dove l’uomo si è spinto per ottenere spazi coltivabili. Sembrano opere d’arte incastonate nel paesaggio alpestre e la loro bellezza risiede nella capacità di evocare un equilibrio fra uomo e natura, tra attività antropiche e ambienti naturali. Eppure, le opere in pietra a secco sono state create principalmente per addolcire i versanti alpini, utilizzando materiale da costruzione trovato in loco, per dissodare terreni agricoli e per riempire pance di gente povera e affamata. 

Come suggerisce Mauro Varotto1, nel contesto paesaggistico i muri a secco dei terrazzamenti montani rappresentano una medietas ambientale, ossia una medietà in cui natura e presenza dell’uomo coesistono in modo armonioso, salvaguardando equilibri idrogeologici, ecologici e produttivi. Appaiono come cerniere relazionali, corridoi di biodiversità interposti tra sistemi diversi e contigui, come il bosco e il campo coltivato. Sono elementi permeabili che segnalano corrispondenze e sovrapposizioni fra cultura contadina e spazio montano. Oltre a ciò, i muri a secco sono elementi di mediazione e cooperazione sociale, poiché non sono mai il frutto del lavoro di un singolo, ma di una comunità che abita e si prende cura di un determinato luogo. Sono beni comuni spesso anche quando sono collocati all’interno di proprietà private, e raccontano una storia di saperi costruttivi tramandati da padre a figlio. 

Quando si affronta il tema della medietà da un punto di vista filosofico, viene in mente che gli antichi greci facevano coincidere la virtù dell’individuo con la ricerca della giusta misura (mesotes) tra gli eccessi. Nell’Etica Nicomachea per Aristotele la virtù consisteva nella disposizione costante a individuare il giusto mezzo tra due estremi. Per quanto la mesotes della virtù antica appartenga a un ambito differente dalla medietas dei muri a secco, risulta interessante notare che il termine greco aretè (ἀρετή, virtù) «deriva dalla radice indoeuropea ar, da cui il latino ars che indica l’abilità a costruire e, più estesamente, l’inventare, il creare. Da qui la parola corrente artigiano, vale a dire colui che possiede una certa maestria – tecnica e insieme creativa» (S. Natoli, Il posto dell’uomo nel mondo, 2022). Dalla radice ar hanno origine altre parole, che richiamano la capacità di mettere insieme, congiungere e armonizzare. Successivamente l’aretè «ha acquisito uno statuto morale: da abilità pratica si è venuta mano a mano disegnando come pratica finalizzata al perseguimento del proprio perfezionamento: da abilità a costruire ad abilità a edificare la vita» (ivi). 

Se da un lato nella parola aretè si trova un nesso fra abilità costruttiva e virtù come disposizione individuale a perseguire il giusto mezzo, dall’altro lato nei muri in pietra a secco e nei terrazzamenti montani si manifesta la capacità di intervenire sull’ambiente a fini produttivi in equilibrio e armonia con la natura. Le abilità nel costruire sono intrinsecamente connesse al nostro modo di vivere e di abitare il mondo, perché solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire2. L’uomo allora dà un senso al costruire solo abitando e prendendosi cura degli spazi di vita. Quando la disposizione a perseguire il giusto mezzo non riguarda l’azione del singolo, ma il modo in cui una comunità abita un territorio, allora è possibile cogliere nel paesaggio i segni tangibili della medietas, come accade nei muri a secco campestri, spazi relazionali tra attività antropica e ambiente naturale.

Umberto Anesi

NOTE
1. Cfr. M. Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, 2020.

2. Cfr. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, 1976.

[Photo credits:
– immagine di copertina: autore
– prima xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1997, Xilografia, 348×248 mm, Museo Civico delle Cappuccine, Bagnocavallo) Museo dell’incisione https://www.repertoriobagnacavallo.it/incisori/loadcard.do?id_card=161637 ;
– seconda xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1997, Xilografia, 350×250 mm, Museo Civico delle Cappuccine, Bagnocavallo) Museo dell’incisione https://www.repertoriobagnacavallo.it/incisori/loadcard.do?id_card=161637 ;
– terza xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1979, Xilografia, 340×500 mm, Collezione privata) autore].

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Guardiamo l’arte e la natura con gli stessi occhi?

Oggi c’è un gran discutere su natura e cultura e i presupposti di queste discussioni sono spesso ideologici. Per un lungo periodo gli elementi naturali raffigurati nelle opere d’arte di scuola italiana sono stati rappresentati con scopi allegorici o decorativi, più che come soggetto a sé stante avente un’anima propria. Come componente allegorica tali elementi hanno parlato di altro (morale, teologia, politica), mentre come entità decorativa essi sono stati un soggetto accessorio all’elemento antropico. Da questo possiamo facilmente capire che, fin dal medioevo, nella cultura italiana è esistita una generale subordinazione delle scienze naturali a quelle umanistiche. Alcuni critici affermano che predominante è stata l’idea platonico-cristiana, espressa dall’apostolo Paolo, secondo cui «la realtà fenomenica è immagine o simulacro di realtà sovrasensibili e rappresenta la via per la conoscenza del mondo invisibile» (L. Proscio, Il bestiario della cattedrale di Anagni, 2015). Tutto questo è ben visibile negli affreschi della cripta della cattedrale di Anagni (FR), come pure negli arazzi della dimora dei Borromeo sull’Isola Bella (VB) nei quali le scene di vita selvaggia nella natura non rappresentano altro che una raffigurazione della lotta tra il bene e il male.

Anche il paesaggio nell’arte classica italiana viene nella maggior parte dei casi rappresentato come elemento di sfondo rispetto alla presenza umana, se non addirittura come il frutto dell’azione di tale presenza; in questo senso è storicamente vero che l’uomo ha influenzato il paesaggio italico da lungo tempo, in particolare per quanto concerne la formazione dei paesaggi culturali, legati all’attività agricola e attraverso la gestione di prati, castagneti da frutto, colture promiscue, uliveti, pascoli arborati. Tutti questi elementi sono ben rappresentati nell’affresco dell’Allegoria del buono e cattivo governo in campagna di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) a Siena. Pensiamo anche all’idea formale di “giardino all’italiana”, così predominante nel nostro paese, rispetto al “giardino all’inglese”, di origine romantica: nel giardino all’italiana si trattava di dare ordine all’apparente caos della natura, così come la Chiesa romana e le varie famiglie nobiliari davano ordine al mondo e ai territori da loro governati. 

Nel Rinascimento si arricchiscono i significati simbolici ed allegorici degli elementi naturali raffigurati (in particolare quelli legati al mondo vegetale), sempre nascosti o posti sullo sfondo dei personaggi ritratti. Hieronymus Bosch (1450-1516) seguirà  solo in parte questa linea, dando vita ad un immaginario onirico e anti-classico che abbraccia aspetti mostruosi e animalità rimaste confinate per lungo tempo nei vari bestiarii medievali e nei riti neo-pagani; Bosch era fiammingo, ma avrà un seguito importante di seguaci anche in Italia.

Con il Romanticismo verso la metà del XIX secolo, l’uomo non è più al centro del Mundus così come rappresentato nella Cripta di Anagni, ma viene rappresentato spesso in balìa degli elementi così come appare nei dipinti di Caspar David Friedrich oppure in quelli di William Turner: egli diventa piccolo-piccolo tra paesaggi montani, foreste e tempeste, quasi in anticipo rispetto agli attuali cambiamenti climatici. Anche in Italia qualcosa evolve grazie alla circolazione di idee innovative che, seppur siano definite come estranee alla cultura italiana, probabilmente sono solo minoritarie o pionieristiche. Dapprima i Macchiaioli, dipingendo all’aperto ed in opposizione agli ambienti accademici, scoprono nuovi paesaggi e provano a catturare la luce naturale in scene quotidiane ambientate in vari contesti rurali italiani. Lorenzo Delleani (1840-1908), nei suoi paesaggi fluviali, a un certo punto comincerà a mettere in secondo piano le architetture urbane, mentre gli elementi antropici scompariranno poi dalle sue rappresentazioni e rimarrà solo il fiume o il torrente. Giovanni Segantini (1858-1899) nel suo Trittico delle Alpi rappresenterà la vita, la natura e la morte come perfettamente integrate: l’essere umano è in armonia con la natura, fa completamente parte di essa e… i suoi critici lo etichettano come “politeista”.

Per trovare una risposta alla domanda iniziale, che fa da titolo a quest’articolo, formuliamo una nuova domanda lasciando uno spunto: nel film Le otto montagne (tratto dall’omonimo libro diPaolo Cognetti del 2017) il protagonista montanaro dice all’amico cittadino che non esiste la “natura” e che questo termine è stato creato da chi, abitando in città, la cerca; esistono solo i suoi elementi (boschi, torrenti, rocce, pascoli) nei quali si svolge la vita di chi abita la montagna. In un prossimo contributo proveremo ad affrontare la questione dello sguardo sulla natura con un taglio più strettamente antropologico.

 

Paolo Varese e Chiara Bulla
Paolo Varese è laureato in Scienze Naturali all’Università di Nizza – Sophia Antipolis. Ha condotto studi e vita professionale a cavallo tra Italia e Francia. Vive in una valle del Piemonte alpino; attualmente é un  libero professionista e ricercatore freelance nell’ambito delle scienze applicate alla gestione degli ecosistemi e si interessa alle relazioni tra umani e natura, di arti figurative e di musica.
Chiara Bulla nasce a Crespi d’Adda (BG) in una famiglia di medici innamorati d’arte, la cui casa è aperta, come un cenacolo artistico, a musicisti, poeti e pittori. Laureata in Lingue e letterature straniere con una tesi sull’Avanguardia pittorica e letteraria russa, è attualmente docente di tedesco in una scuola secondaria di Bergamo.

 

[Photo credit Maria Teneva via Unsplash]

 

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Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Ecolinguistica e globalizzazione nella prospettiva di Arran Stibbe

L’ecolinguistica, un campo di studi sviluppatosi negli ultimi decenni, analizza le interazioni tra la lingua umana e l’ambiente. Il concetto basilare è che non solo l’ambiente influenza l’evoluzione del linguaggio, ma che anche il linguaggio influisce sul modo in cui noi umani percepiamo e interagiamo con l’ambiente. La disciplina è andata costituendosi duranti gli anni ’90 del secolo scorso ed è ancora in fase di definizione. Non c’è infatti ancora pieno consenso tra gli studiosi rispetto alle caratteristiche, alle metodologie, agli obiettivi principali e ai possibili contributi che essa può fornire alla sostenibilità ambientale.

Il Professor Arran Stibbe è una delle figure più eminenti all’interno dell’ecolinguistica. Nell’articolo Ecolinguistica e Globalizzazione (Ecolinguistics and Globalisation 20121, mia traduzione dei seguenti passi), egli analizza gli impatti della globalizzazione sulla lingua. È interessante notare come con “globalizzazione” Stibbe si riferisca a un fenomeno che ha caratterizzato non solo gli ultimi decenni ma l’intera evoluzione umana. Nel testo, infatti, egli indica tre “ondate” di «globalizzazione significativa dal punto di vista linguistico». La prima è costituita dalle migrazioni delle popolazioni orali dalla loro originale “bioregione” a nuovi territori. Con il termine “bioregione” si intende «una regione che ha un particolare tipo di ambiente e caratteristiche naturali» (Cambridge Dictionary). Quando una popolazione si insedia in una bioregione, afferma Stibbe, essa sviluppa degli specifici strumenti linguistici che le permettono di adattarsi a quel particolare ambiente. È proprio per questo, sostiene l’autore, che la specie umana è stata in grado di spargersi così velocemente sulla superficie della Terra. Non solo: questa caratteristica spiega anche il degrado ambientale causato dalle popolazioni che migrarono repentinamente da una bioregione a un’altra senza così avere il tempo di adattare la propria lingua ai nuovi spazi.

La seconda “ondata” di globalizzazione, da un punto di vista ecolinguistico, è identificata da Stibbe nell’invenzione della scrittura. Questo cambiamento epocale da cultura orale a scritta ebbe due principali conseguenze: in primo luogo, fissò le narrazioni orali in strutture rigide, meno duttili alla mutevolezza degli ambienti; in secondo luogo, permise alle lingue delle popolazioni dominanti di diffondersi nel mondo e prendere il posto di infinte lingue locali. A detta di Stibbe, quando società dominanti conquistano o invadono culture non belligeranti, «le lingue che codificano le relazioni con l’ambiente si estinguono, e culture che avevano vissuto sostenibilmente nello stesso luogo per centinaia di anni vengono perdute». Da questa consapevolezza si è sviluppata tra gli ecolinguisti l’urgenza di occuparsi maggiormente della diversità linguistica e, conseguentemente, della biodiversità culturale.

Giungiamo dunque alla terza “ondata”, quella che poi ci riguarda più da vicino dal momento che prende in considerazione l’attuale globalizzazione, quella di cui sentiamo parlare tutti i giorni. Secondo Stibbe, nei tempi più recenti, abbiamo assistito alla «diffusione translinguistica di larga scala di particolari discorsi» come quello del progresso, del neoliberalismo, della crescita economica e del consumismo. Ciò ha avuto due conseguenze principali: da una parte, le narrazioni egemoniche hanno preso il posto di quelle locali nei media e nei sistemi educativi, minando quella preziosa interconnessione tra la diversità geografica e culturale; dall’altra, come nel caso dell’imperativo della crescita infinita, l’essenza dominante delle narrazioni egemoniche «contribuisce direttamente al comportamento ecologicamente distruttivo». In particolare, Stibbe identifica alcuni dispositivi linguistici che hanno un impatto negativo sul nostro rapporto con l’ambiente. Quello della “cancellazione”, per esempio, è il modo in cui vengono rimossi dal piano del discorso aspetti dell’esistenza che in realtà sono fondamentali. Stibbe sostiene che è l’intero mondo naturale ad essere stato rimosso dalla nostra quotidianità, o, quando non del tutto rimosso, a essere stato distorto. Basti pensare, per esempio, alle confezioni che si trovano al supermercato in cui sono rappresentati maiali, galli o mucche che pubblicizzano prodotti con la loro stessa carne.

Da questo breve assaggio dei temi e dei metodi dell’ecolinguistica emerge in modo chiaro che un approccio meramente tecnologico alla crisi ecologica non è sufficiente: la lingua plasma il nostro modo di interagire con il mondo, le nostre stesse azioni, e perciò non possiamo esimerci dall’analizzarla e metterla in discussione. Un buon esercizio può essere, per esempio, quello di osservare criticamente pubblicità, ma anche film, videoclip, riviste e addirittura libri per bambini (tendiamo infatti a sottovalutare il loro potere!) e cercare di comprendere quali sono i pilastri culturali su cui si sviluppano i loro linguaggi. Cogliere creativamente questa sfida all’interno della nostra società, e al contempo farsi ispirare da quelle culture le cui lingue sono riuscite ad adattarsi ecologicamente, è un buon primo passo per affrontare i complessi problemi che viviamo oggigiorno.

 

Petra Codato

NOTE
1.
 https://eprints.glos.ac.uk/1913/1/Ecolinguistics%20and%20Globalisation.pdf .

 

[Photo credit Esther Tuttle via Unsplash]

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Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

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Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

la chiave di sophia 2022