Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Ecolinguistica e globalizzazione nella prospettiva di Arran Stibbe

L’ecolinguistica, un campo di studi sviluppatosi negli ultimi decenni, analizza le interazioni tra la lingua umana e l’ambiente. Il concetto basilare è che non solo l’ambiente influenza l’evoluzione del linguaggio, ma che anche il linguaggio influisce sul modo in cui noi umani percepiamo e interagiamo con l’ambiente. La disciplina è andata costituendosi duranti gli anni ’90 del secolo scorso ed è ancora in fase di definizione. Non c’è infatti ancora pieno consenso tra gli studiosi rispetto alle caratteristiche, alle metodologie, agli obiettivi principali e ai possibili contributi che essa può fornire alla sostenibilità ambientale.

Il Professor Arran Stibbe è una delle figure più eminenti all’interno dell’ecolinguistica. Nell’articolo Ecolinguistica e Globalizzazione (Ecolinguistics and Globalisation 20121, mia traduzione dei seguenti passi), egli analizza gli impatti della globalizzazione sulla lingua. È interessante notare come con “globalizzazione” Stibbe si riferisca a un fenomeno che ha caratterizzato non solo gli ultimi decenni ma l’intera evoluzione umana. Nel testo, infatti, egli indica tre “ondate” di «globalizzazione significativa dal punto di vista linguistico». La prima è costituita dalle migrazioni delle popolazioni orali dalla loro originale “bioregione” a nuovi territori. Con il termine “bioregione” si intende «una regione che ha un particolare tipo di ambiente e caratteristiche naturali» (Cambridge Dictionary). Quando una popolazione si insedia in una bioregione, afferma Stibbe, essa sviluppa degli specifici strumenti linguistici che le permettono di adattarsi a quel particolare ambiente. È proprio per questo, sostiene l’autore, che la specie umana è stata in grado di spargersi così velocemente sulla superficie della Terra. Non solo: questa caratteristica spiega anche il degrado ambientale causato dalle popolazioni che migrarono repentinamente da una bioregione a un’altra senza così avere il tempo di adattare la propria lingua ai nuovi spazi.

La seconda “ondata” di globalizzazione, da un punto di vista ecolinguistico, è identificata da Stibbe nell’invenzione della scrittura. Questo cambiamento epocale da cultura orale a scritta ebbe due principali conseguenze: in primo luogo, fissò le narrazioni orali in strutture rigide, meno duttili alla mutevolezza degli ambienti; in secondo luogo, permise alle lingue delle popolazioni dominanti di diffondersi nel mondo e prendere il posto di infinte lingue locali. A detta di Stibbe, quando società dominanti conquistano o invadono culture non belligeranti, «le lingue che codificano le relazioni con l’ambiente si estinguono, e culture che avevano vissuto sostenibilmente nello stesso luogo per centinaia di anni vengono perdute». Da questa consapevolezza si è sviluppata tra gli ecolinguisti l’urgenza di occuparsi maggiormente della diversità linguistica e, conseguentemente, della biodiversità culturale.

Giungiamo dunque alla terza “ondata”, quella che poi ci riguarda più da vicino dal momento che prende in considerazione l’attuale globalizzazione, quella di cui sentiamo parlare tutti i giorni. Secondo Stibbe, nei tempi più recenti, abbiamo assistito alla «diffusione translinguistica di larga scala di particolari discorsi» come quello del progresso, del neoliberalismo, della crescita economica e del consumismo. Ciò ha avuto due conseguenze principali: da una parte, le narrazioni egemoniche hanno preso il posto di quelle locali nei media e nei sistemi educativi, minando quella preziosa interconnessione tra la diversità geografica e culturale; dall’altra, come nel caso dell’imperativo della crescita infinita, l’essenza dominante delle narrazioni egemoniche «contribuisce direttamente al comportamento ecologicamente distruttivo». In particolare, Stibbe identifica alcuni dispositivi linguistici che hanno un impatto negativo sul nostro rapporto con l’ambiente. Quello della “cancellazione”, per esempio, è il modo in cui vengono rimossi dal piano del discorso aspetti dell’esistenza che in realtà sono fondamentali. Stibbe sostiene che è l’intero mondo naturale ad essere stato rimosso dalla nostra quotidianità, o, quando non del tutto rimosso, a essere stato distorto. Basti pensare, per esempio, alle confezioni che si trovano al supermercato in cui sono rappresentati maiali, galli o mucche che pubblicizzano prodotti con la loro stessa carne.

Da questo breve assaggio dei temi e dei metodi dell’ecolinguistica emerge in modo chiaro che un approccio meramente tecnologico alla crisi ecologica non è sufficiente: la lingua plasma il nostro modo di interagire con il mondo, le nostre stesse azioni, e perciò non possiamo esimerci dall’analizzarla e metterla in discussione. Un buon esercizio può essere, per esempio, quello di osservare criticamente pubblicità, ma anche film, videoclip, riviste e addirittura libri per bambini (tendiamo infatti a sottovalutare il loro potere!) e cercare di comprendere quali sono i pilastri culturali su cui si sviluppano i loro linguaggi. Cogliere creativamente questa sfida all’interno della nostra società, e al contempo farsi ispirare da quelle culture le cui lingue sono riuscite ad adattarsi ecologicamente, è un buon primo passo per affrontare i complessi problemi che viviamo oggigiorno.

 

Petra Codato

NOTE
1.
 https://eprints.glos.ac.uk/1913/1/Ecolinguistics%20and%20Globalisation.pdf .

 

[Photo credit Esther Tuttle via Unsplash]

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Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

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Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

A caccia di simboli nei libri di Francesco Boer

Per la seconda volta incontro Francesco Boer in una libreria. Un luogo classico in cui incontrare uno scrittore, chiaramente, ma nella mia testa lo colloco più facilmente nella natura mentre osserva l’andirivieni delle formiche o studia le forma delle foglie di un arbusto. In alternativa sepolto da mille libri e totalmente immerso nei suoi studi. Da tutto questo nascono i suoi libri, tra cui gli ultimi per l’editrice Il Saggiatore Troverai più nei boschi (2021) e Il piccolo libro del fuoco (2022).
Ecco che cosa ci ha raccontato.

 

Giorgia Favero – Nella tua biografia ti definisci esploratore, naturalista, scrittore – naturalmente – ma anche simbologo. Che cosa significa essere un simbologo e che chiave di lettura hai trovato nel simbolo, tanto da farne uno dei perni della tua indagine della realtà e della tua ricerca?

Francesco Boer – Ho iniziato a studiare i simboli perché sono un passaggio oltre la superficie delle apparenze, verso un significato ulteriore che attende come un potenziale, in ogni cosa che ci circonda. Il mondo, e la nostra vita, possono apparirci spenti, privi di senso: è una impressione che tutti, prima o poi, abbiamo provato, un pensiero doloroso che ci schiaccia come se fosse un peso sulle spalle. Riscoprire la portata simbolica dell’esistenza è una possibile via d’uscita da questo vicolo apparentemente cieco. Non è la ricezione passiva di una verità eterna, già pronta, ma un lavoro di ricerca e al tempo stesso anche di creatività, per ampliare la percezione con il significato. Il simbologo segue antiche rotte e ne traccia di nuove, e così crea connessioni, una rete di assonanze e affinità che permette di superare alcune divisioni altrimenti insormontabili, permettendo connessioni fra discipline diverse. La storia dell’arte e il mondo della tecnica, la psicologia del profondo e la geopolitica, antiche ritualità religiose e gesti quotidiani: il simbolo è presente in ogni cosa ci riguardi, perché è uno dei pilastri del nostro essere, un modo fondamentale che struttura il nostro pensiero e le nostre azioni. Con i nessi simbolici si possono così ricucire gli strappi di incomunicabilità che si sono aperti nel nostro panorama culturale a causa dell’eccessiva specializzazione. Non verso un appiattimento unitario, né a una raffazzonata confusione fra discipline, ma con un dialogo fra prospettive diverse, capaci di arricchirsi a vicenda nel confronto simbolico.

 

Giorgia Favero – La tua ultima pubblicazione, Il piccolo libro del fuoco, lascia largo spazio anche a un altro tipo di simbolo, quasi un racconto che si fa simbolo: il mito. Il mito, pur essendo molto antico, racconta molto di ciò che siamo oggi come singoli individui e può offrire tutt’ora degli spunti pedagogici validi. Quali miti ti hanno affascinato di più nella scrittura di questo libro?

Francesco Boer – Il mito di Prometeo, intimamente connesso col fuoco, è una narrazione complessa che ha continuato a far parlare di sé attraverso i secoli, cambiando forma attraverso riscritture di nuovi autori, pur mantenendo sempre la stessa carica archetipica. La forza del fuoco, la travolgente potenza del progresso umano: è sia una conquista, che la trasgressione di un volere divino. La fiamma, e tutto ciò che significa, è sì nostra, ma non di diritto. L’abbiamo sottratta con il furto, ci appartiene soltanto grazie all’inganno. Si tratta di un mito, certo, e ai più basterebbe questa definizione per scartare tutto, come se si trattasse di un vaneggiamento privo di conseguenze. Eppure storie come questa esprimono ansie e speranze radicante nel profondo della nostra anima culturale, e che altrimenti troverebbero difficilmente voce. Ignorarle non porta a nulla, perché le spinte sotterranee da cui queste voci hanno origine continuano pur sempre a influenzare attivamente le nostre vite. È necessario dunque imparare nuovamente ad ascoltare il mito: non screditandolo, come una fantasia del passato, né prendendolo troppo alla lettera, quasi fosse una profezia infallibile; ma interpretandolo, interrogando la narrazione e sé stessi, per capire cosa quella storia significhi per noi, oggi, per il mondo in cui viviamo.

 

Giorgia Favero – Nel tuo esaminare in lungo e in largo il fuoco, tra mitologia e cronaca, tra simbolo e letteratura, ti sei mosso non solo nel tempo ma anche nello spazio, dimostrando come in molti casi anche culture molto lontane dimostrano delle radici comuni. Qual è stato per il te il valore del confronto culturale nella stesura del libro?

Francesco Boer – Uscire dal proprio contesto, paradossalmente, è un modo per conoscere più a fondo la propria cultura, a cui pur sempre si appartiene in un certo grado. Nel corso delle mie ricerche, mi capita di passare dall’India all’Oceania, per poi arrivare magari alle popolazioni precolombiane del centro-America: non lo faccio per turismo culturale, per una fascinazione escapista verso l’esotico, ma nell’ottica di un dialogo fra visioni affini a quelle della nostra storia. Affine, va detto, non significa identico, né intercambiabile: troppo spesso la ricerca comparata tende a schiacciare le differenze culturali, banalizzando i singoli dettagli per creare un ipotetico mito “originale”, come se questa fonte unica, ammesso che esista, abbia per forza più valore dei suoi derivati. Al contrario, io sono convinto che sono proprio le diversità di espressione, le varianti culturali, a costituire il materiale sommamente prezioso del confronto e della ricerca simbolica.

 

Giorgia Favero – Cosa ti ha spinto alla scrittura di un libro sul fuoco e quale dei tanti simboli e significati indagati è stato per te quello più significativo, quello al quale ti senti più affascinato?

Francesco Boer – I simboli a volte attraggono con un incanto appena sussurrato, eppure ricco di fascino, irresistibile. Altre volte invece urlano con una voce quasi violenta, e anche lì è impossibile ignorarli. C’è stato un periodo in cui mi trovavo – simbolicamente e letteralmente – circondato da fuochi: l’incendio della cattedrale di Notre-Dame; le fiamme che hanno avvolto Minneapolis, durante le proteste per l’uccisione di George Floyd; gli spaventosi roghi che avvolgevano l’Amazzonia, la Siberia, l’Australia, e poi anche la loro versione ridotta (ma non meno spaventosa) nei boschi nostrani, anche quelli vicini, in cui passeggiavo fin pochi giorni prima, e che ora erano ridotti in cenere e carboni. Capivo che non si trattava soltanto di avvenimenti esterni: a ognuno di questi fuochi corrispondeva un bruciare interiore, fatto di angoscia e disperazione, ma anche di una profonda, spaventosa fascinazione. Scrivere il libro, a questo punto, è stata una necessità, il bisogno di trovare una risposta a una domanda apparentemente insolubile.

È impossibile, per me, ignorare la gravità dell’infuocata situazione in cui siamo. A livello collettivo, però, è proprio ciò che stiamo facendo: spaventati e conturbati, neghiamo la realtà e pure il simbolo. Facciamo di tutto per distrarci con altro, e se il problema ci sfiora la buttiamo sullo scherzo, nascondendoci dietro la misera maschera dell’ironia. In questo scenario, l’immagine più significativa e tremendamente attuale è forse quella – fra storia e leggenda – di Nerone che suona la lira e canta, mentre Roma brucia. 

 

Giorgia Favero – In questo dualismo irrisolto tra il bene e il male del fuoco emerge più volte anche un “grido ambientale”, quello del nostro pianeta che brucia a causa del riscaldamento climatico, una conseguenza della nostra ipertrofia nella padronanza del fuoco attraverso la tecnica. Infatti, come scrivi chiaramente nel libro, «Spegnere le fiamme [innescate dalla tecnica] significa rinunciare alla propria potenza». Considerando la smania umana di potenza, credi che si possa arrivare a un momento in cui si possa rompere l’illusione di crescere senza far bruciare tutto?

Francesco Boer – Il momento della disillusione, in un modo o nell’altro, arriverà. A far la differenza è il modo con cui l’illusione di potenza si infrangerà: può essere come un risveglio, una presa di coscienza, o in modo del tutto traumatico, la dura realtà che si riafferma con uno sconvolgimento di portata disastrosa. A essere realisti, è verso quest’ultimo esito che ci stiamo collettivamente incamminando, e pure a passo spedito. Non farsi illusioni, però, non significa arrendersi a un compiaciuto pessimismo. Questo libro vuole essere anche il tentativo di non abbandonarsi alla disperazione: non basta descrivere il problema, si può e si deve immaginare soluzioni. E magari è proprio il simbolo a poterci suggerire strade nuove, che ci allontanino dall’abisso. Forse, nel caleidoscopio dei miti, possiamo raccogliere un’ispirazione rimasta inespressa, capace di cambiare il nostro deleterio modo di vivere.

 

Giorgia Favero – La ricchezza di questo libro, come anche di altri libri che hai pubblicato, è che il racconto è accompagnato anche da bellissime illustrazioni. Perché questa scelta e chi ha selezionato concretamente le illustrazioni?

Francesco Boer – Ho svolto di persona la ricerca iconografica, di pari passo con la stesura del testo. C’è una circolarità fra i paragrafi e le illustrazioni: a volte l’immagine precedeva il testo, suggerendone lo sviluppo, che a sua volta portava a nuove figure, con un processo che a volte sfociava in una creatività quasi onirica. Navigavo seguendo miraggi, eppure sentivo che non stavo girando intorno, e che anzi quel procedere errabondo era l’unico modo per raggiungere la meta che cercavo.

 

Giorgia Favero – Il libro Troverai più nei boschi invece si propone come un “manuale per decifrare i segni e i misteri della natura”, che quindi viene indagata con occhio preciso e analitico. Ma la relazione tra lo scrutatore e lo scrutato viene ripresa più volte con fare altrettanto indagatore. Per esempio scrivi che «L’uomo di animo sensibile entra nel bosco. Lo fa come se entrasse in un tempio a lui proibito. Cerca un contatto con la natura, ma al tempo stesso porta dentro di sé un senso di colpa, il misfatto di appartenere a quell’umanità che ha devastato e continua a rovinare la natura»: questo senso di colpa secondo te è davvero così diffuso? Ed è un sentimento intrinseco all’essere umano o di origine più contemporanea?

Francesco Boer – Distinguere fra costruzione culturale e tendenza innata è difficile e problematico. Preferisco concentrarmi sul fatto che il sentimento sia molto diffuso, e di radice antica, e che al giorno d’oggi sia più attivo che mai. Il senso di colpa influenza con grande intensità diversi aspetti della nostra vita, e il rapporto con l’ambiente è uno di essi. Una volta riconosciuta la sua esistenza si può iniziare a lavorarci sopra, a interpretarlo simbolicamente: capire quanto e come ci limiti, e chiedersi se possa essere trasmutato, magari persino sublimato in una risorsa per un futuro migliore.

 

Giorgia Favero – La ricerca di un equilibrio umano-naturale è auspicata più volte all’interno del libro, ma come abbiamo già detto l’interesse per il tema ambientale emerge anche da altre tue pubblicazioni. Secondo te in che modo si può concretizzare davvero questo equilibrio?

Francesco Boer – Non è facile, perché comporta una rinuncia: di possesso, di potere, di capacità di controllo. Per secoli, l’essere umano si è comportato come un piccolo despota, comandando sul territorio con pretese assolutiste. In quest’ottica perversa, ogni cosa è o una risorsa, o un ostacolo. Animali e piante, boschi, fiumi, montagne: ciò che non poteva essere usato, andava tolto di mezzo. È un regno miope, perché ben presto si rivela insostenibile; la sua economia lo porta per forza al collasso. Ma prima ancora, è un modo d’essere colmo di bruttezza, perché isola l’uomo in un delirio di onnipotenza, tagliandolo dal resto del mondo e condannandolo a un isolamento che in ultima analisi priva la vita di senso.  Alla fine, è l’uomo stesso a soccombere, avvelenato dalla sua avidità: ben lontano da essere un re, diventa egli stesso merce della propria economia scellerata – anch’esso, o risorsa o scarto di un sistema.

Credo che il simbolo sia anche un vettore di empatia; la riscoperta del valore di ciò che ci circonda, una bellezza che diventa un legame quasi fraterno. Una parentela simbolica con gli elementi del mondo, che sia un albero o il cielo stellato.  Lo sfruttamento e la devastazione, a questo punto, appaiono impensabili: non li si rifugge per dovere, o per senso di colpa, ma spontaneamente, così come si porta cura e rispetto verso coloro a cui vogliamo bene.

 

Giorgia Favero – Il titolo del libro, che ci lascia una sorta di sospensione, deriva da una antica citazione di Bernardino da Chiaravalle che ci apre anche spunti di riflessione sul senso, ma anche sulle nostre modalità pedagogiche. Vuoi spiegarci il senso di questo riferimento e in che modo pensi sia attualizzabile nel mondo odierno?

Francesco Boer – Si tratta di un’apertura verso il mondo, un ascolto attivo che passa anche attraverso il dialogo simbolico. “Troverai più nei boschi che nei libri”, dice la frase completa, quasi a sottolineare il pericolo di un’istruzione impositiva. Se imparo la mia verità, per quanto parziale, poi finirò per imporla sulla realtà complessa che mi circonda. È meglio mantenere una ricettiva umiltà, osservare e interagire, anche lasciarsi spiazzare da esperienze che contrastano con quello che credevamo di sapere. Certo, non è affatto facile, e qui sta appunto il ricorso al libro , apparentemente negato dalla massima: si tratta di re-imparare un modo di porsi, di raccogliere, di farsi trascinare. Anche il bosco più vivo, altrimenti, resterebbe muto di fronte a un’anima chiusa.

 

Giorgia Favero – Questa indagine attenta della realtà, questa ricerca di significato profonda tocca alcuni punti in comune con il pensare filosofico. Del resto ci sono anche molti filosofi che dal loro passeggiare nella natura e dalla ricerca di simboli hanno trovato spunti per la propria filosofia (ad esempio Nietzsche). Ce ne sono poi anche altri (come Hegel) che non si sono invece lasciati incantare dall’immersione nella natura, trovandola distante dall’esercizio del pensiero. Tu come vedi questo rapporto tra filosofia e natura (in senso lato)? Che cosa significa per te fare filosofia?

Francesco Boer – Non sono mai stato attratto dal pensiero più rarefatto, quasi astratto dalla realtà concreta: tutto sommato, mi pare che la servetta trace avesse le sue ragioni. D’altro canto, anche il materialismo più superficiale mi riesce di difficile sopportazione, e porta a trappole ben più insidiose di un pozzo. Il fascino che la simbologia esercita su di me sta proprio di essere nel mezzo, un rapporto che lega idee e immagini, sensazioni e oggetti concreti. Permette di camminare con un occhio puntato verso le stelle, e uno attento alla terra; e magari di scoprire i rapporti sottili che collegano queste due metà dell’essere. In questo senso, non credo che l’esperienza della natura sia in conflitto col pensiero, e anzi il concetto stesso di “natura” è una complessa amalgama di entità viventi e idee umane, un ecosistema in cui possono trovare posto e nutrimento anche le nostre riflessioni.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit nikita velikanin]

la chiave di sophia 2022

Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

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