A lezione di globalizzazione da un presepista napoletano

Le strade del centro di Napoli riservano sempre un tesoro tutto da scoprire di voci, odori, sapori, ma soprattutto di incontri, un ambiente unico in cui il caos apparentemente anarchico che si osserva guardando la città dall’alto svela il suo ordine intrinseco, il suo flow, e lo apre a chi si avventura tra i suoi dedali e le sue piazze ritagliate tra i palazzi proiettati vertiginosamente in verticale.

È stato proprio muovendomi tra queste strade che mi è capitato di avviare uno dei dialoghi più gustosi e memorabili delle mie vacanze, affacciandomi alla finestra di una cantina che dava sulla strada per ammirare il lavoro di un artigiano, intento a lavorare su un presepe che avrebbe finito con ogni probabilità giusto in tempo per il prossimo Natale. Affatto disturbato dall’improvviso pubblico, il presepista (“per hobby”, ci ha tenuto a sottolineare, “non lo faccio per mestiere”) ha esposto volentieri il proprio lavoro, mostrandomi giganteschi presepi montati su cardini che ruotano a 360 gradi, personaggi finemente intagliati, e soprattutto la sua ultima opera, del quale era pronto solo lo scheletro della struttura portante, modellato sulla Tour Eiffel, e la “capannuccia”, una barchetta rovesciata su un fianco, simile a quelle che affollano da anni il Mediterraneo colme fino allo stremo di disperati in cerca di un nuovo inizio, con scritto sulla fiancata “Io sono la Speranza”.

“Questa è un’opera contro la globalizzazione”, mi dice, e nella descrizione che segue appare chiaro come si tratti in realtà di un’opera contro l’attuale modello di globalizzazione, più che contro il principio in sé. Indicando la base della Tour Eiffel, vi posiziona la barchetta, che andrà a fare da riparo alla Sacra Famiglia, nella sua versione non solo esule ma anche naufraga; attorno, dice, metterà “figure di politici da tutta Europa”, ognuno riconoscibile come solo le figure del presepe napoletano sanno essere. Al piano superiore, bandiere da ogni parte del mondo, mentre sulla cima della torre, il globo terrestre, “probabilmente in mano a Nostro Signore, che se non rimescola Lui gli animi, non ci si capisce proprio…”

Con tutta la semplicità del mondo, con immediatezza e chiarezza, il falegname indica le storture di un sistema di globalizzazione guasto, probabilmente in partenza, focalizzando l’attenzione sulle sue conseguenze più tragiche, riassunte in una barchetta rovesciata di fronte ai potenti del mondo; in quel “rimescolare gli animi”, poi, sta tutta la saggezza di chi sa che sentirsi parte di un tutto deve venire prima dei trattati commerciali, degli accordi doganieri, delle revisioni dei confini, accordi sacrosanti ma distanti da una sensibilità comune lasciata sola davanti a un cambiamento epocale, senza gli strumenti per coglierlo né i necessari elementi di contatto umano che avrebbero davvero potuto rendere il mondo “uno”.

In quel presepe in fieri, c’è tutto quel che è sbagliato nella globalizzazione, e tutto quel che c’è di giusto nel mondialismo: a una Theresa May che dichiarava che «se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla»1, l’artigiano risponde con un mondo piccolo, in bilico su una torre, riunito attorno alla stessa scena, come tante volte durante quest’anno ci è capitato di vedere, con eventi che riguardano sempre di più il pianeta in quanto tale; dall’altro lato, a chi rimarca ottimisticamente che “siamo tutti sulla stessa barca”, la nuova capannuccia ricorda che siamo tutti sullo stesso mare, ma non necessariamente sulla stessa barca, e che si può navigare su uno yacht sicuro e lussuoso o su una barchetta sgangherata e destinata spesso e volentieri al naufragio.

Si è fatto tanto parlare, scrivere e dibattere sulla più o meno teorica “identità globalizzata”, quella della “generazione Erasmus”, quella dei social network, delle chat e dei forum intercontinentali, dei soft power e delle contaminazioni culturali, ma nel concreto si stenta a sentirsi parte di un unico mondo, ancora tutti immersi nel “piccolo” del nostro paese e degli immediati dintorni. L’entusiasmo e l’ospitalità dell’artigiano, però, erano tali che, se il nostro dialogo fosse andato avanti anche solo qualche altro minuto, mi avrebbe probabilmente invitato a cena per continuare lo scambio. Chissà, forse bastano questi piccoli momenti di amicizia spontanea e di smisurata accoglienza per “rimescolare un po’ gli animi” in modo che, persino nel naufragio, le nostre barche possano comunque chiamarsi Speranza.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1.Se ne parla in questo articolo.

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Tragedie e inquietudini vissute dagli artisti: le conseguenze si vedono

La morte di una persona cara, un serio problema di salute, l’avanzamento della vecchiaia e grossi dissesti finanziari sono tragedie personali tra le più critiche che un individuo possa attraversare nella sua vita, tutte in grado di scuotere dalle fondamenta il complesso insieme di convinzioni e sicurezze costruite in anni e anni di esperienze, abitudini e rapporti sociali. 

Di fronte a un’opera d’arte spesso capita di dimenticarsi che dietro a quella creazione si nasconde la personalità di un artista, con pensieri, credenze, sentimenti e influenze culturali che giocano un ruolo non certo secondario nelle scelte da lui portate avanti nel suo lavoro. Ed ecco allora che quelle vicende, così potenti e deleterie a livello psicologico, possono provocare nell’artista un irreversibile cambio di rotta nel suo operato, sia a livello stilistico che tematico e interpretativo. 

Con l’invecchiamento e l’indebolirsi della salute, alcuni grandi artisti del passato hanno fortemente rafforzato la loro fede religiosa, spesso spinti anche dal contesto culturale in cui vivevano. Due casi esemplari, in questo senso, sono quelli di Sandro Botticelli e Lorenzo Lotto. 

Il primo, celebre per capolavori come la Primavera e la Nascita di Venere, restò particolarmente colpito, negli anni della sua piena maturità, dalle prediche di stampo pauperista di Girolamo Savonarola, che lo condussero nell’ultimo decennio di vita a dedicarsi quasi esclusivamente alla produzione sacra: a cambiare non fu lo stile pittorico e nemmeno l’impostazione colta e fortemente simbolica della sua arte, ma piuttosto i temi trattati e i soggetti raffigurati, appartenenti essenzialmente alla sfera cristiana. 

Lorenzo Lotto visse invece la sua vecchiaia nel clima teso degli anni del Concilio di Trento, dopo aver dimostrato, qualche decennio prima, alcune timide simpatie per le tesi luterane. Nei suoi ultimi anni, trascorsi nel convento del Santuario di Loreto, ripensò alle sue posizioni religiose e queste sue riflessioni si fecero evidenti anche nel modo di dipingere, divenuto pacato, semplice e molto più riflessivo rispetto allo stile dai colori sgargianti della sua giovinezza. In questo caso fu  l’aspetto stilistico ed estetico a subire un profondo cambiamento, in virtù di una minore ricerca formale e di una visione più intima dell’arte, influenzata dalla consapevolezza dell’avvicinamento alla fine della propria esistenza e accompagnata da una fede indiscutibile che, infine, divenne per Lotto un fatto totalmente personale.

Se la riflessione sulla propria esistenza e la fede religiosa rappresentarono importanti momenti di svolta per alcuni artisti del passato, per altri furono i lutti familiari, le inquietudini o le turbolente vicende della vita a lasciare un profondo segno sulle loro opere, le quali sembrano divenire una sorta di specchio delle loro emozioni e tasselli della loro storia personale. Caravaggio e Rembrandt risultano tra i casi storici più interessanti di queste dinamiche, per gli evidenti cambiamenti ravvisabili nel loro modo di fare arte negli anni più intensi della loro vita.

Per Caravaggio la condanna capitale inflittagli a Roma e gli anni di fuga tra Napoli, Malta e la Sicilia furono profondamente logoranti sia a livello fisico che psicologico. I suoi dipinti divennero sempre più cupi e drammatici, la serenità delle opere giovanili era ormai un ricordo lontano, mentre i toni grandiosi e i forti chiaroscuri delle opere degli anni d’oro lasciarono spazio ad atmosfere più tese e sospese nell’incertezza, a pennellate più sporche e a scene di grandissima forza espressiva.

Nel caso di Rembrandt fu la morte prematura della moglie a contribuire al progressivo cambiamento stilistico ravvisabile nelle sue opere, cui si aggiunsero i gravi problemi finanziari incontrati dal pittore negli anni successivi. I dipinti della sua maturità si allontanano così dalla gioiosa brillantezza delle opere giovanili, assumendo toni spenti, atmosfere più meditative e pennellate sporche e veloci , che a tratti smaterializzano le figure e le rendono di sorprendente modernità. 

Sia Caravaggio che Rembrandt sono vittime di eventi tragici che, non differentemente da quando accaduto con Botticelli e Lotto, lasciano un forte impatto sulla loro personalità artistica: la rottura di fragili equilibri esistenziali e le inquietudini portano a un profondo ripensamento della propria vita, a una riflessione sul senso del proprio essere e a uno sforzo per cercare di riguadagnarsi un ruolo, sia esso nella società o nei complessi schemi della nostra mente. Ciò provoca un cambiamento sostanziale e spesso irreversibile, che conduce a lavorare con presupposti e obiettivi diversi, adeguati alla condizione sociale, culturale e psicologica in cui ci si trova a vivere. E gli esiti, nell’arte, si vedono bene.

 

Luca Sperandio

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Call for papers: il Festival di Filosofia di Ischia lancia il tema ‘Valori: Continuità e cambiamento’

La Filosofia, il Castello e la Torre, Festival Internazionale di Filosofia di Ischia giunto alla sua III edizione lancia la sua Call for papers: Valori continuità e cambiamento è il tema conduttore dell’edizione 2017. Bene, Bellezza, Verità, Giustizia, Uguaglianza, Libertà, Potere, Sicurezza, Dignità, Fratellanza, questi alcuni tra i concetti chiave su cui si vuole incentrare la discussione pubblica.

Chiamati ad intervenire con una relazione dalla lunghezza massima di 500 parole non sono solo i filosofi ma chiunque senta di poter contribuire allo sviluppo del tema con una riflessione appartenenti alle quattro sezioni di intervento proposte: Ti esti? Cos’è il Valore?, Teorie dei Valori, Il valore dei valori: utilità e applicazioni, Arte e Valori. 

Ischia International Festival of Philosophy 2017 riporta la Filosofia alla sua funzione fondamentale e molto più legata alla dimensione pratica: interrogarsi sui valori.

«Affrontando il vasto campo dell’agire umano, e dunque della filosofia pratica e dell’etica, occorre adesso concentrarsi sul nesso – di continuità o discontinuità – tra teoria e prassi. L’emergere di nuove dinamiche sociali, dovuto tra l’altro ai mutamenti demografici e all’alterarsi della composizione sociale, rende necessario mettere a tema la questione della convivenza tra individui e tra popoli, soprattutto alla luce dell’ideale di un’Europa libera, unita e pacifica, in cui purtroppo le differenze culturali fanno fatica a convivere.

In quest’ottica s’intende porre un interrogativo sui valori che metta congiuntamente a tema il tratto storico del loro costituirsi e il richiamo alla trascendenza che essi sembrano costitutivamente incarnare, sia che li si concepisca come universali a priori semplicemente da riconoscere, sia che li si intenda come il segno dell’irriducibilità ultima tra epoche e culture differenti. Alla luce di queste domande potrà forse essere ripensato il senso stesso del “dare valore” tanto nella sua funzione positiva che nella sua portata critica. Allora è proprio nei valori che bisogna “custodire valore”. Nell’alterità il valore si riconosce come tale, nell’alterità di un valore non conosciuto ma riconosciuto. Ogni persona, cultura, nazione rappresenta e presenta un valore di diversità con il quale rapportarsi. Considerare queste diversità e rendere degno lo spazio dell’ascolto e della coesistenza è forse l’unico gesto che ci porterà alla condivisione più armoniosa. L’appartenenza è unica, l’essere umano è unico perché abitante di un unico spazio.»

Come partecipare? Inviando la propria proposta di relazione a ischiafilosofest@gmail.com, con una breve biografia; potrete essere selezionati per intervenire direttamente durante il Festival. 

Per scaricare la Call for Papers integrale clicca qui 

Per scaricare l’approfondimento sul tema Valori, continuità e cambiamento clicca qui

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Chiamati ad intervenire sul tema sono anche i giovani pensatori tra i 16 e i 23 anni: nasce la call Young Thinkers Festival, Become a Philosopher!

Per tutti i giovani con una forte attitudine al pensiero filosofico, quest’anno il Festival di Ischia vuole lanciare delle sessioni intere di intervento ai ragazzi e ai giovanissimi filosofi. È sufficiente presentare una proposta di relazione, da soli o in gruppo, per poi discuterne con i coetanei e adulti durante le giornate del Festival. Un modo nuovo e dinamico per permette a giovani studenti di filosofia e non solo di intervenire con una propria riflessione davanti al pubblico, riportando così la Filosofia alle sue origini: in piazza. 

Per scaricare la Call Young Thinker Festival, Become a Philosopher clicca qui

Per maggiori informazioni visita il sito La Filosofia, il Castello e la Torre

Elena Casagrande

[Immagini di proprietà di Ischia International Festival of Philosophy]

Selezionati per voi: marzo 2017!

Marzo, note floreali che inaspettate si fanno spazio in una giornata di pioggia, cieli azzurri che invitano a fermarsi, a sollevare gli occhi, a scuotersi dal torpore invernale, la luce che in un mattino qualunque ci sorprende più limpida e pulita. Aria che profuma di nuovo, di occasioni ancora in boccio, di quella meravigliosa ostinazione alla vita chiamata primavera.

La selezione di libri di questo mese porta con sé una ventata di rinascita. Il libro Junior è all’insegna del divertimento, vero motore di queste prime giornate soleggiate, durante le quali i nostri bambini riscoprono il piacere di trascorrere dei momenti in compagnia all’aria aperta. I film, invece, ci aiutano ad aprire gli occhi sul mondo che ci circonda, aiutandoci a riflettere sulla dimensione dei rapporti interpersonali e sulla percezione dell’Altro.

 

LIBRI

chiave-di-sophia-isola_di_aliceL’isola di Alice – Daniel Sanchez Arevalo

Alice ha poco più di trent’anni, una bimba di sei anni ed un’altra in arrivo, quando riceve una telefonata nel cuore della notte: Chris, suo marito, ha avuto un brutto incidente e morirà poco dopo in ospedale. Ma questo non è tutto, il luogo in cui Chris si trovava non era quello in cui sarebbe dovuto essere. Il tarlo del dubbio si insinuerà nella mente di Alice, che si aggrapperà morbosamente alla ricerca della verità, percorrendo il suo personale sentiero verso il superamento del dolore. Un romanzo psicologico carico di fascino, in cui l’accettazione del dolore passa attraverso un sentiero dissestato fatto di segreti e bugie. Un finale assolutamente inedito, che sa stupire  ed emozionare.

 

chiave-di-sophia-magari-domani-restoMagari domani resto – Lorenzo Marone

Luce ha trent’anni e vive a Napoli, in un monolocale umido nei Quartieri Spagnoli. Ha un lavoro come avvocato che non la soddisfa pienamente e un carattere duro, caustico, forgiato dall’assenza di un padre andato via troppo presto. Una causa d’affido farà in modo che la sua strada incroci quella di Kevin, un bambino saggio con un padre camorrista. Andare o restare? Questo l’interrogativo che percorre pagine intrise di sentimento, umanità, ironia, sullo sfondo di una Napoli che ci sorprende con il suo volto migliore. 

 

casa-di-tutte-le-guerre-la-chiave-di-sophiaLa casa di tutte le guerre – Simonetta Tassinari

Siamo nel 1967. Silvia ha dieci anni e mezzo, vive a Bologna e, come ogni estate, si appresta a trascorrere i mesi di vacanza a Rocca, a casa dell’adorata nonna Mary Frances. Quei mesi per Silvia significano tante cose: chiacchierate in giardino con la nonna, manicaretti preparati dalla Bea, recite in parrocchia, pomeriggi al parco a pattinare con gli amici del paese, ore trascorse a fantasticare in una soffitta ingombra di ricordi. Proprio in quella soffitta, Silvia scoprirà qualcosa che smuoverà l’aria ferma e stantia che aleggia sulla casa dei nonni. Una storia che si dipana sullo sfondo degli anni settanta, con sentimenti teneri, sofferenze nascoste, amori familiari, vecchi strappi che non è possibile ricucire ma che, forse, possono ancora essere rattoppati.

Stefania Mangiardi

 

LIBRO JUNIOR

Ella_cop_ese.inddElla e i suoi amici – Timo Parvela

Dalla lontana Finlandia arriva questo libro carico di divertimento. Protagonisti un gruppetto di amici scatenati che con la loro simpatia riusciranno a travolgere sia i primi lettori, visto il fatto che il libro è composto da tre racconti brevi, sia i più grandicelli, vista l’ironia con la quale il testo è scritto. Ella e i suoi amici hanno un’immaginazione e una fantasia incredibili, grazie alle quali sanno rendere la loro quotidianità una vera avventura!

Federica Bonisiol

 

FILM

toni-erdmann-la-chiave-di-sophiaVi presento Toni Erdmann – Maren Ade
Con l’inizio del mese di marzo le sale italiane continuano a riempirsi di film che hanno fatto incetta di nomination durante l’ultima notte degli Oscar. Tra questi, uno dei migliori è senza dubbio il nuovo lungometraggio della regista tedesca Maren Ade che, grazie a un mix perfetto di intelligenza ed eccentricità, ha saputo raccontare la storia di un rapporto genitoriale in maniera toccante e, allo stesso tempo, completamente fuori dagli schemi. Strepitosa la recitazione dei due attori protagonisti (Peter Simonischek e Sandra Hüller), indimenticabile la sequenza sulle note della hit di Whitney Houston The greatest love of all. USCITA PREVISTA: 2 MARZO 2017

 

artwork-loving-chiave-di-sophiaLoving – Jeff Nichols
Mildred e Richard Loving si amano e decidono di sposarsi. Niente di più normale se non fosse che lui è bianco e lei e nera e che ci troviamo nell’America segregazionista degli anni ’50. Una storia d’amore travagliata e complessa, raccontata con grande enfasi dal veterano del cinema americano Jeff Nichols. Il film non è nulla di sensazionale, diversamente dalla performance della straordinaria Ruth Negga, candidata all’Oscar grazie a un’interpretazione davvero degna di nota. Da vedere in compagnia della propria dolce metà. USCITA PREVISTA: 16 MARZO 2017

 

notnegro_chiave-di-sophiaI am not your negro – Raoul Peck
Un documentario incredibilmente riuscito ed efficace, raccontato interamente con le parole di James Baldwin, attraverso il testo del suo ultimo progetto letterario rimasto incompiuto. Un affresco schietto e veritiero sull’essere persone di colore in America. Il cinema si trasforma allora in impegno civile e sociale, partendo da fatti storici realmente accaduti e arrivando a farci prendere coscienza di come l’immagine dei Neri in America venga oggi costruita e rafforzata nell’immaginario collettivo statunitense. La voce narrante del film è quella del leggendario Samuel L. Jackson. USCITA PREVISTA: 22 MARZO 2017

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]

Invito al pensiero di Ernesto De Martino

Il concetto di esistenzialismo si accompagna spesso alle immagini della Parigi anni ’30, a mondani personaggi posati e sempre vestiti di nero, ai caffè e alla musica jazz. Eppure anche da questa parte delle Alpi, vari pensatori sono stati raccolti, forse troppo in fretta, sotto questa etichetta per poi essere velocemente messi da parte.

Uno di questi è Ernesto De Martino. Cresciuto nel clima culturale della Napoli di Croce, con un solido retroterra filosofico, voltosi all’antropologia, rappresenta, con le sue analisi sul campo, un eccellente esempio di ibridazione di diverse influenze filosofiche quali l’idealismo, la psicoanalisi, e la fenomenologia. I suoi libri sono per lo più rielaborazioni di indagini svolte sul campo, con la collaborazione di un team variabile di esperti di medicina, storia della musica, psicologi, avvenute per lo più nel sud Italia tra gli anni ’50 e ’60. In questi anni, in questa parte d’Italia, il processo di industrializzazione, analizzato così finemente da Pasolini, che ha coinvolto gran parte del nord e centro Italia, trova le ultime resistenze di forme di ritualità millenarie, destinate presto a sparire lasciando tracce vaghe. De Martino in sintesi procede all’analisi di riti, tra cui la Taranta e il pianto rituale, nel momento del loro tramonto.

Il tempismo di queste ricerche ha permesso di registrare comportamenti umani che appaiono oggi incomprensibili, se non ridicoli, nella loro irrazionalità apparente, ma che contemporaneamente illuminano l’immagine dell’uomo di una ricchezza nuova, da poco scomparsa e già dimenticata.
La domanda che anima le ricerche di De Martino è volta a individuare l’utilità fondamentale, nell’economia della psiche e dell’esistenza umana, dei riti. Il fatto che ogni cultura ne sia ricca così come lo scrupolo con cui essi vengono osservati sono sintomi di un ruolo effettivo da essi svolto.

La chiave di lettura proposta, espressa qui sommariamente, consiste nella tesi secondo cui le diverse forme rituali di ogni civiltà siano tutte in qualche modo un’operazione collettiva di autodifesa psichica. Di fronte ad eventi che l’uomo non può controllare e che mettono in luce tutta la fragilità e inconsistenza del suo essere al mondo, egli troverebbe riparo nella ripetizione di gesti che riportano il passato nel presente, stabilendo una continuità consolatrice. Così facendo egli afferma di esserci ancora, afferma un nesso tra la situazione passata e quella presente, afferma che, in fin dei conti, non tutto è cambiato. Inoltre, nel rito, alle paure e alle difficoltà vissute dall’individuo viene donato un senso, del cui valore e solidità si fa carico tutta la comunità. E attraverso essa la situazione traumatica viene inquadrata, rielaborata e superata. Un esempio di questa mediazione comunitaria è rappresentato dal coro delle lamentatrici che si uniscono alla parente del defunto e attraverso la professionalizzazione dell’atto del piangere liberano la parente dal suo ruolo facendola diventare una lamentatrice tra le altre. L’irrigidimento dell’elaborazione del lutto indirizza in questo modo il dolore per vie sicure attraverso cui sfogarsi senza rischiare che esso prenda il sopravvento.

Come si esprime lo stesso De Martino, i riti sono necessari a far morire (in noi) ciò che è morto. Espressione che ha valore letterale se si pensa al caso di decesso di una persona cara, ma che in generale significa far passare ciò che passa, accettare il divenire, senza rimanere patologicamente aggrappati a fantasmi del passato. De Martino tende a non tematizzare il contenuto della crisi nelle sue analisi più teoriche, nelle osservazioni sul campo essa si presenta però come recesso della presenza dell’uomo a sé stesso, perdita di lucidità, fino ad arrivare a veri e propri disturbi psicotici.

All’alba di un’epoca in cui l’invito a pensarsi privi di ogni limite, capaci di tutto, è ripetuto insistentemente, le ricerche di De Martino ci aiutano a ricordare il senso dell’appartenenza dell’essere umano ad una certa cultura, ad un certo mondo. Quest’appartenenza che viene sempre più spesso vista come una gabbia, è invece, per il nostro autore, il punto di appoggio grazie a cui l’uomo attraversa la vita saldo e solido.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagini tratte da Google Immagini]

Elogio a Partenope

In estate a Venezia si crea quella cappa di umidità che ti si attacca addosso, sui vestiti, sulla pelle, e anche un po’ sui pensieri. Appare e se ne va, poi torna in pieno inverno per qualche attimo fugace, per sconvolgere il freddo a cui aveva involontariamente ceduto il passo. Nella canicola si riconoscevano persone e cose vaganti, si arrampicavano sui ponti al ritmo dettato dagli scalini, molti si facevano le foto con alle spalle il canale più famoso d’Italia. Superato il grande arco di acciaio, cemento e vetro, si entrava sul lato della stazione in quel momento semideserta. 

Treni fermi, allineati in attesa di un annuncio. 

Capitreno: tre, schierati a triangolo equilatero, all’ombra del primo porticato; discutevano del più e del meno, quasi sempre turni, sindacati, ritardi, scioperi.

Turisti: pochi, si facevano aria con ventagli improvvisati, cercavano di estorcere un biglietto alla macchinetta elettronica, quella che non si fa problemi a prendersi le ferie quando vuole mandando sullo schermo un avviso di indisponibilità momentanea, un momento indefinito.

Il tabellone con gli orari e le destinazioni: lui nero, perché il nero fa elegante; gli orari e le destinazioni in arancione, perché l’arancione fa contrasto al nero anche sotto il sole.

Una donna era seduta alla panchina del binario 3 dove arrivava e partiva il lungo serpente rosso per Napoli.

“Aspetti qualcuno?”

 “Il treno per tornare a casa”

“Non hai visto il tabellone? È in ritardo di centosedici minuti, si sono pure scusati per il disagio”

“Accidenti – ma l’imprecazione era un’altra – non ci avevo fatto caso”

“Napoli vero?”

“Sì”

“Il tuo accento sai, un po’ ti ha tradita”

“Anche il treno mi ha tradita”

“Già, ma se posso chiedere, una donna che torna da sola a Napoli, non sarà pericoloso?”

Mi guardò scostandosi leggermente i capelli dal viso.

“Dovevo essere ammogliata?”

“No, lo dicevo per quello che si sente dire in giro”

“E cosa si dice?”

“Che c’è la criminalità, che non si può andare in giro la sera, che ti rubano tutto appena arrivi”

“Ci mancano le sparatorie, gli inseguimenti e la terza guerra mondiale”

Sorridemmo entrambi.

Lei per aver sentito una sciocchezza, io per aver capito di averla detta.

“Ma tu ci mai stato a Napoli?”

“A dire il vero no”

“Quindi basi le tue opinioni sul sentito dire”

“In effetti… però potresti raccontarmela tu”

“Dovresti vederla, le parole non rendono bene l’idea”

Ci andai.

Alla fine misi da parte le dicerie, tappai anche gli occhi per non indovinare il labiale e ci andai. Presi quel treno, qualche tempo dopo s’intende, senza ritardo e senza lunghe attese assieme a strani personaggi annoverabili tra i seccatori di professione. Entrai in quel labirinto, perché la prima figura che mi venne in mente appena vidi Napoli fu un labirinto.

Napoli è un labirinto a ordine sparso su più piani.

Comincia, finisce, ricomincia, si interrompe, riprende altrove, ora si sviluppa verso ovest, poi inclina impercettibilmente il capo e cammina a nord-est. È un mosaico di tante cose; palazzi, case, genti, persino di pavimentazioni.

E le strade?

Le strade sono innumerevoli, molto lunghe e disposte quasi a griglia, sono griglie disegnate a seconda del tempo, dell’umore, dell’urbanista, degli abitanti stessi e dei secoli. Seguono il percorso dei palazzi, si aprono in piazze e piazzette, in alcuni punti formano fazzoletti a trapezio e spuntano panchine, un piccolo quadrato verde con un paio di alberi divenuti ormai d’asfalto. Portano ovunque e non smarriscono nessuno, ci si perde per poi ritrovarsi, ci si allontana con la consapevolezza di tornare ancora più vicini da dove si era partiti. 

Strade e vicoli, dai nomi altisonanti, dai vecchi rettangoli di pietra con la scritta ormai invisibile, con il selciato sconnesso dai crateri, dai sampietrini scomparsi.

La gente si arrangia, la battuta può salvare da una giornata di pioggia interiore. Parlano e impari i loro gesti solo se hai abbastanza curiosità per farlo. L’ Eh napoletano è come il get inglese: lo puoi mettere ovunque. Eh = sì; sono d’accordo; va bene; mi fa piacere vederti; sono a disposizione; è giusto ciò che dici; ti sto ascoltando; finalmente hai capito!

La gente di Napoli è come le sue vie.

I monumenti, le chiese, il silenzio e il frastuono.

Napoli è un contrasto, non va capito perché un contrasto non si può capire, al massimo lo si coglie e non si scarta nulla per non perdere la visione dell’insieme.

È una donna.

Un elogio dedicato a chi non c’è mai stato.

A chi pensava di non andarci mai.

Alessandro Basso

[Immagine di Alessandro Basso]

Giugno in Filosofia!

È finalmente arrivato il caldo, il primo mare, la prima tintarella, eppure la cultura non si ferma e si organizza sotto forma di eventi assolutamente imperdibili!

Scopriamo insieme quali!

  • 1 Giugno – Notte dei filosofi tra arte, sentimenti e filosofia.NAPOLI

 Dalle 19.30 Napoli  presso Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore

Un evento che inizia a piazza San Domenico dove ci si muoverà in corteo per giungere al Cortile dell’ingresso monumentale di San Domenico Maggiore sulle note di Francesca Iavarone e Gabriella Grossi. Poi ci sarà la presentazione del percorso, le voci d’apertura di Giuseppe Ferraro e si parlerà di sentimenti quali l’entusiasmo, la gioia, la malinconia, la tenerezza, la paura, la tristezza, l’amore. Ognuno dei “sentimenti” sarà illustrato da un filosofo o da un personaggio illustre presente.

  • 4 Giugno  – Presesentazione rivista La Chiave di Sophia – FIRENZE

Ore 17.30 presso la Libreria Salvemini di Firenze – Piazza Salvemini 18

Con la partecipazione illustre del prof. Fabrizio Desideri, docente di Estetita presso l’Università di Firenze, presenteremo la nostra rivista e la situazione attuale della Filosofia in Italia e all’estero. Una Filosofia 2.0 attenta non solo al web e al digitale ma alla nuove dinamiche e ai nuovi trend del mercato editoriale italiano e internazionale.
Un nuovo modo di intendere la Filosofia con un approccio giovane, pratico e al servizio di tutti. Una rivista che intende mostrare l’utilità e la praticità della riflessione filosofica a stretto contatto con la quotidianità.

  • 7 Giugno – DIRE LA VERITÀ: In risonanza. Ex auditu dicentes – BOLOGNA

Ore 10.00 Bologna presso Studio Filosofico Domenicano, Aula Magna P.zza San Domenico

10.00-13.00
Maurizio Malaguti (Università degli Studi di Bologna)
In risonanza. Ex auditu dicentes
15.00-18.00
Paolo Pagani (Università Ca’ Foscari Venezia)
La forma dell’elenchos

  • 17 Giugno – Book presentation by Julia Hermann: On Moral Certainty, Justification and Practice – MILANO

14.30, Milano presso Sala Enzo Paci- Direzione del Dipartimento di Filosofia

Taking inspiration from the later Wittgenstein, in her book On Moral CertaintyJustification and Practice Julia Hermann explores the practical basis of human morality.

Eventi un po’ diversi dal solito e che vogliono dimostrare quanto la filosofia si insinui in ogni ambito del nostro vivere!

Valeria Genova

Curzio Malaparte, “La pelle”

Al centro delle opere di Curzio Malaparte (nome d’arte di Kurt Erich Suckert, 1898-1957), troviamo sempre l’ingombrante, forte, contraddittorio personaggio che l’autore vuole volta per volta rappresentare. Il giovanissimo volontario della Grande Guerra che in La rivolta dei santi maledetti (1921) si scaglia contro i comandi militari e vi contrappone il popolo che aveva tentato, con la disfatta di Caporetto, una ribellione contro l’esercito; il fascista della prima ora, spinto da ideali rivoluzionari, che quando il movimento diventa regime diventa critico e subisce il confino (Tecnica del colpo di stato, 1931); il corrispondente di guerra che segue le truppe tedesche sui vari fronti europei (Kaputt, 1944): a ognuna di queste opere sembra corrispondere un autore diverso, tutti di indiscusso talento e pronti alle più diverse avventure ideologiche.

Malaparte, La pelle - La Chiave di Sophia

Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia (10 luglio 1943), Malaparte diventa ufficiale di collegamento fra l’esercito di Badoglio e le truppe angloamericane che si preparano a risalire la penisola. È questo il contesto del suo libro più celebre, La pelle, che nel 1949 ebbe un clamoroso successo di scandalo.

Siamo a Napoli, tra un popolo che ha appena avuto «l’invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori ai vincitori». C’è una forte ambiguità in tutto questo: i soldati americani sono dipinti come ingenui, semplici, pieni di buone intenzioni e convinti di aver portato la libertà; ma per lo stesso fatto di essere una truppa d’occupazione contagiano la collettività di una vera peste.

La rovina portata all’Europa dalla guerra è infatti il vero tema centrale dell’opera. Una rovina soprattutto morale: per sopravvivere, salvarsi la pelle, non c’è orrore, non c’è vergogna da cui si possa arretrare. Tutto è in vendita. Davanti al lettore si spalanca il baratro di una corruzione nera, senza rimedio: la ragazza che espone a pagamento la sua verginità ai soldati; le parrucche bionde che le prostitute si pongono sul sesso per attirare meglio i clienti; la grottesca cerimonia folcloristica “della figliata” celebrata da un gruppo di femminielli; l’incontro con il cane Argo, sparito e ritrovato in un laboratorio di vivisezione. Al culmine di questa sfilata di orrori, l’eruzione del Vesuvio (realmente avvenuta il 18 marzo 1944) segna la partecipazione della stessa natura a questo senso di sfacelo.

Vero simbolo di questo disastro è l’episodio dell’uomo che muore orrendamente schiacciato da un carro armato: «Era un tappeto di pelle umana (…) pareva un vestito inamidato, una pelle di uomo inamidata (…). Quella bandiera è la bandiera della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle».

Tutta l’opera si nutre di un contrasto di fondo: un realismo brutale che attraverso il linguaggio, acceso, sempre sopra le righe, diventa visionario, onirico.

E Malaparte gioca con questi elementi fino alla fine, provoca consapevolmente il lettore, lo sfida a rifiutare tutto questo, a mettere in dubbio la stessa sincerità dell’autore. In uno straordinario passaggio il narratore è a pranzo con un gruppo di ufficiali, e nella conversazione si sostiene che Malaparte sia abituato a inventare molti degli episodi che racconta nei suoi libri. Allora lui dice che no, queste cose gli succedono veramente. Proprio poco fa ha trovato nel suo cuscus la mano di un soldato marocchino saltato su una mina, e l’ha educatamente mangiata per non turbare l’atmosfera; anzi, a prova di questo, mostra le ossa delle falangi ben riordinate nel piatto. Sono solo ossicini di montone, poco dopo il lettore viene a saperlo; ma tutto questo è indicativo dell’atteggiamento teatrale con cui Malaparte rielabora la realtà.

La pelle è un’opera che affascina per lo straordinario talento con cui il mondo è trasformato in parola; e insieme respinge per i suoi eccessi e per quella pesante dose di artificio da cui è segnata; ma sicuramente è un’opera che non lascia indifferenti. E forse era proprio questo che all’autore premeva.

Giuliano Galletti

[Immagini tratte da Google Immagini]

Febbraio in Filosofia!

Eccoci già arrivati a Febbraio, il mese più breve ma pieno di colore e allegria per il Carnevale ed il predecessore della primavera!

Anche per questo mese vi presentiamo gli eventi da noi selezionati per rimanere sempre aggiornati sulle tematiche filosofiche più importanti.

  • Martedì 2 febbraio 2016 – ore 21.00-23.00

“Un’altra idea di cura della vita: l’analisi biografica a orientamento filosofico”

Presso: Philo – Pratiche filosofiche, via Piranesi 12 – Milano – piano I

Intervengono: Andrea Arrighi, Claudia Baracchi, Romano Màdera, Domitilla Melloni, Moreno Montanari, Lia Sacerdote tra i fondatori dell’analisi biografica a orientamento filosofico, che è una pratica e uno stile di vita, incontrano il pubblico per spiegarne caratteristiche e finalità.

  • Giovedì 04 febbraio 2016 – ore 10.00

“Primo Levi di fronte e di profilo”

Presso: Malcanton Marcorà, 2° piano, sala grande, Venezia

Intervengono: Marco Belpoliti, Alessandro Cinquegrani e Simon Levis Sullam

  • Mercoledì 10 Febbraio 2016 – ore 11.15

“Determinisimo, incompatibilismo e van Inwagen”

Presso: Università degli studi di Genova, Aula 6, Via Balbi 2, Genova

Interviene: Chris Hughes del King’s College, London

  • Lunedì 15 – Martedì 16 – Mercoledì 17 febbraio 2016 – ore 16

“Genesi del testo, genesi della libertà”

Lunedì 15: Filologia e genetica della libertà in Montesquieu

Martedì 16: Dal genre humain di Diderot all’art perfectionné di Rousseau

Mercoledì 17: Libertà e storia nei Quaderni di Gramsci

Presso: Istituto Italiano Studi Filosofici, Via Monte di Dio 14 – Palazzo Serra di Cassano, Napoli

Interviene: Alberto Postigliola dell’Università di Napoli “L’Orientale”

Sperando di avervi dato, anche questo mese, appuntamenti da non perdere, ci auguriamo possiate parteciparvi numerosi!

Valeria Genova

“NOI VIVI” – Attraverso la Galleria Borbonica…attraverso la vita!

Solo i morti hanno visto la fine della guerra. Platone

Un parcheggio multipiano. Moderno, nuovo, in una delle zone più belle di Napoli.

Risali in superficie ed entri nella Storia, quella vissuta, quella fatta e sudata da uomini, donne e bambini; la storia della paura, delle corse affannate in cerca di riparo, dell’angoscia di esserci tutti.

Entri nella Galleria Borbonica e, senza nemmeno chiudere gli occhi, ti ritrovi immerso negli anni della seconda guerra mondiale, periodo in cui Napoli fu la città più bombardata, con 200 raid aerei dal 1940 al 1944, di cui 181 soltanto nel 1943.

Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.  Nello Ajello

Se ti concentri vedi le persone che entrano, corrono, con la paura sui loro volti; i bambini ritrovano i giochi lasciati il giorno prima, le mamme si assicurano di aver preso nei 15 minuti a disposizione tutto l’occorrente per stare…quanto? E chi poteva saperlo là sotto. Il tempo diventava una variabile superflua, ciò che contava era vedere che i tuoi cari erano lì accanto a te metri sotto terra.

Percorri la galleria e ti imbatti in resti di brandine, giocattoli, boccette di profumi…già i profumi! E non per farsi belli, ma per poter respirare!

Ciò che cattura più l’attenzione sono però le scritte sui muri: nomi, date e poi la più semplice ma più commovente: “NOI VIVI”. Provo ad immaginare cosa potessero significare quelle due parole per chi le ha scritte…sopravvissuti certo, ma intendeva tutta la famiglia, come a dire “ce l’abbiamo fatta”?, oppure indicava “ehi noi esistiamo! noi siamo sotto terra, ma siamo vivi! Vogliamo vivere e non moriremo per colpa vostra!”, come una specie di sfida a chi lassù, tanto meccanicamente, sganciava bombe sui civili.

Ecco, quella scritta a me ha trasmesso un’appassionata volontà di vita, uno stringere i denti una volta ancora, senza accettare di uscire da quel rifugio come topi che escono dalla tana incerti di non rivedere il nemico.

NOI VIVI.

Una complessità ben celata è nascosta dietro a queste parole, perché vi sono tante, troppe implicazioni emotive, culturali, storiche.

Oggi chi di noi pronuncerebbe questa frase? Potremmo essere scambiati per matti o per scopritori di acqua calda, eppure non possiamo nemmeno immaginare quanto per niente scontata potesse essere dentro quel rifugio.

Proviamo solo ad immaginare il suono della sirena che indica il coprifuoco e in 15 minuti prendere le cose indispensabili per stare “x” tempo sottoterra, magari non solo per te ma anche per i tuoi figli o i tuoi nonni; e alla fine, uscire dal rifugio con quali sensazioni, quali pensieri?

La persona che ha scritto Noi vivi cosa avrà trovato quel giorno, una volta ‘riemersa’? La stessa città? E la sua casa era ancora in piedi?

Tutte queste domande te le poni mentre visiti la Galleria Borbonica, perché hai voglia di capire, di riflettere sul fatto che in quell’epoca, la maggior parte del tempo era trascorsa sottoterra.

Libertà negata, quella di essere Persone libere di camminare per la strada, di andare a lavorare, di andare a scuola! La libertà di agire senza costrizioni e di autodeterminarsi era abolita, perché costretta dentro 4 mura, circondata da centinaia di persone e dominata dalla paura, quella stessa paura che ti faceva però riscoprire il valore della solidarietà e della condivisione, che ti faceva sorridere quando incontravi le persone della volta prima, felice che anche loro fossero ancora vive.

Ecco allora forse una qualche libertà era concessa anche sottoterra: quella della volontà di vivere, di crederci, di sperarci tutti insieme e di attendere la fine di un incubo, urlando “noi siamo vivi qua e saremo vivi lassù”.

Quando la guerra finì, possiamo pensare che quei rifugi vennero abbandonati e le persone che vi trovavano riparo tornarono a casa…invece la fine della guerra portò con sé gli strascichi di una tragedia senza fine, lasciando sfollate migliaia di persone.

La negazione di una casa propria, la dignità di uomini e donne calpestata dalle macerie rimaste al suolo, questo c’era nella confusione del fragore della “liberazione”. Liberazione da cosa? Dal sottosuolo? Dal nemico? Ora non importava più il prima, si pensava solo al futuro, a cosa sarebbe successo da quel momento in poi, la preoccupazione era di sopravvivere anche al senso di impotenza e di perdita materiale e morale.

In quel tunnel, anche se la guerra era finita, continuarono a vivere almeno 500 persone.

La prigionia non era, dunque, finita.

Se vi capiterà di percorrere la galleria, assimilate ogni sensazione, pensate che centinaia di persone vi passarono giornate intere, non solo un’ora come noi visitatori; fatevi avvolgere dall’estrema umidità, ascoltate ogni rimbombo dei vostri passi, guardate con empatia i nomi incisi nella pietra e pensate che tutto questo era ‘banale’ quotidianità.

Potete avere notizie della Galleria seguendo la pagina FB: Galleria Borbonica o visitando il loro sito: Galleria Borbonica

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]