Uomini camaleontici: uno sguardo sul cambiamento

Capita spesso che nelle storie venga usata la fenice come metafora del cambiamento e della rinascita personale: giunta alla fine della propria esistenza, essa muore in un turbinio fiammeggiante lasciando nient’altro che cenere, dalla quale risorge come un piccolo pulcino pronto a nuova vita. In tutto questo, con pronta polemica, voglio spezzare una lancia a favore di un altro esempio assai più realistico; un esempio di rinnovamento continuo, momento dopo momento: il camaleonte.
Questa piccola bestiola, citata dallo stesso Aristotele nella propria Historia animalium, è un animale estremamente filosofico. La sua esistenza, infatti, pare voler rispondere al celebre interrogativo: è possibile cambiare ed essere contemporaneamente se stessi?

La storia di questa domanda è molto lunga, parte da Parmenide e giunge fino ai giorni nostri con le più recenti teorie pedagogiche e formative; il nostro amico Camaleonte tuttavia, rimanendo fuori dal “coro degli umani” e per semplice statuto di esistenza, risponde “Si!”.

Noi sappiamo bene quanto i cambiamenti, piccoli e grandi, possano essere traumatici: richiedono quella che noi solitamente definiamo “mentalità flessibile”, capace di adattarsi al contesto e alle persone. Più riusciamo a combattere la cementificazione del nostro pensiero, più riusciamo ad essere, come precisava Bruce Lee, “acqua che si adegua alle cose, che può fluire o spezzare”. Una delle nostre resistenze più frequenti è imposta dalla paura di snaturalizzarci: ognuno di noi teme di perdere letteralmente pezzi di sé, della propria identità, un prezzo che non si è disposti a pagare per adattarsi alle situazioni e alle persone. Le emozioni giocano palesemente un ruolo fondamentale poiché si manifestano a tutti gli effetti come dei pensieri/giudizi che influenzano (o traducono) il Mondo che viviamo: esse sono capaci di rinchiuderci dentro un autarchico immobilismo o di gettarci in un mondo complesso fatto di relazioni e mutamenti. Il nostro camaleontico amico, famoso per le sue tecniche di variazione cromatica e avvezzo tanto quanto noi all’utilizzo dei colori per rappresentare il proprio stato d’animo, ci ricorda quanto sia perfettamente naturale mettersi in gioco: un diritto che Madre Natura ha dato a lui tanto quanto a noi e che non andrebbe mai tradito.

Aristotele, in fondo, sbagliava nel definirlo un animale timoroso: è vero, lui non ha certo il dono della parola, ma ha un modo fin troppo chiaro di comunicare e relazionarsi. Già, comunicare: è proprio questo il nostro problema. A volte noi scegliamo di non farlo, anzi, nascondiamo alcune nostre emozioni e giudizi dietro veli di forzata nonchalance un po’ come se volessimo “eliminare alcuni nostri colori”. Domandiamoci un attimo: possiamo davvero farlo? Possiamo diventare invisibili? Senza voler entrare nel merito della psicologia, dovremmo ricordarci semplicemente che evitare un problema significa non affrontarlo1. Aspirare a non vivere le emozioni è come cercare di capire quale sia veramente il colore del Camaleonte. Ahimè, non è dato saperlo! Tutto ciò che noi vediamo è il continuo adattamento di questo piccolo animale a ciò che gli sta intorno, grazie alla stimolazione cerebrale dei cromatofori e dell’incidenza dei raggi solari sugli iridofori sottocutanei: cambiamento che, come abbiamo già detto, non è limitato al solo fine della difesa. La cromaticità del camaleonte è rivolta a ciò che viene attenzionato in quel preciso istante, esattamente come noi manifestiamo un flusso costante di emotività che si manifesta come un giudizio (cioè un atto di pensiero) verso il mondo. Noi non siamo una semplice tela bianca dove gettare ogni tanto le nostre secchiate di vernice emotiva: siamo un continuo riflesso del mondo circostante, un filtro emotivo.

Esclusi alcuni casi psicologicamente rilevanti, non possiamo essere privi di emozioni: ricordate che il Camaleonte diventa nero, il “colore che assorbe tutti i colori”, solo con la propria morte. Come lui, accettiamo quindi di essere vivi e “colorati”, impariamo a relazionarci con più naturalezza possibile: ricordiamoci che il mondo dove viviamo non è come la foresta pluviale, dove ogni errore costa caro. Certo, non è facile, ma il guadagno della società civile sta nel fatto che tutto sommato possiamo (e dobbiamo) sbagliare2. Al contrario del nostro Leone Nano3, infatti, a noi sono concesse numerose possibilità di adattamento senza il rischio di essere mangiati, o essere banditi per sempre dal nostro territorio né tantomeno essere privati del cibo. La Ragionevolezza di cui ci facciamo portatori ci consente di percorrere una strada decisamente più ampia rispetto alla semplice Legge della Giungla. Anche se le relazioni umane possono essere estremamente più complesse, se mai ci arrendessimo all’angoscia e alla nostra temporanea incapacità di metterci in gioco ci priveremmo da soli del nostro autentico benessere, il cibo della nostra mente.

Gli uomini camaleontici, quindi, non sono quelli che si adattano solo per paura ma, al contrario, sono piccoli “grandi leoni” che si muovono in una giungla fatta di persone, fatti e avvenimenti che suscitano paura, rabbia, felicità, tristezza, ansia, e quindi si nascondono, litigano, si innamorano e si disperano. Gli uomini camaleontici si guardano perennemente intorno muovendosi tra le foglie con la calma di un guerriero preparato alla battaglia: usano i propri “colori” per ottenere i propri scopi e vivere le proprie esperienze. A volte perdono, a volte vincono, cambiano la propria strada e le proprie strategie.
E godono nel saper cambiare e generare se stessi, rimanendo se stessi.4

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. La pratica e l’esperienza sono il nodo centrale di noi stessi. Nel Libro del fuoco (M. Musashi, Il libro dei cinque anelli, Ubaldini 2004) viene descritta la tecnica nota come “Rinnovarsi”, il modo per uscire da una situazione in cui siamo ingarbugliati senza rimedio. Rinnovarsi significa non modificare le circostanze, bensì il nostro spirito, e vincere adottando una tecnica diversa.

2. «Senza toccare con mano l’acqua e il fuoco, non si può dire di conoscerli davvero. Anche il fatto di spiegare un libro no può fa sì che so venga compreso. Il cibo può essere minuziosamente definito, ma non è così che si sazia la fame. […] Molti studiano, ma non comprendono la mente. Essi non possiedono una buona disposizione d’animo.»  Takuan Soho, La mente senza catene, Edizioni Mediterranee 2010, p. 35.
3. Chamaeleonidae, dal greco χαμαιλέων.
4. «[…] il sistema è un processo generativo continuo; […] l’attenzione va concentrata sugli effetti che il movimento evolutivo produce sulle sue stesse componenti. Il nuovo, cioè, è sempre altro dagli elementi che l’hanno generato, per questo la continuità va ricercata in quella di sistema. […] il processo generativo non coinvolge soltanto i vari elementi e le forze del sistema, ma il sistema stessoche, ad un certo punto, collassando, genera a sua volta una nuova matrice da cui scaturisce un nuovo sistema.» da Luca Toschi, La comunicazione generativa, Apogeo 2011, pp. 133-138.

[Photo credit Gareth Newstead  via Unsplash]

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Diritto e giustizia alla luce dell’antropologia culturale

Una riflessione sull’utilità evolutiva dei sistemi di procedura penale per la mente del giudicante.

L’antropologia culturale studia le mutazioni della conoscenza sul modello di quelle genetiche. Con una differenza fondamentale, che, in quelle culturali, i geni-idee, “viaggiano” assai velocemente e sono così destinate ad essere riformulati ed anche destituiti in poco tempo, mentre le mutazioni genetiche sono rare e intervengono in tempi assai lunghi. Porre l’attenzione ai mutamenti culturali insiti nell’accertamento penale è interessante perché rispecchia pienamente questo approccio antropologico e pone altresì delle questioni spinose relative alla reale utilità di queste mutazioni rispetto alla funzione sociale della giustizia penale. E’ noto come ogni mutazione (prima fra tutte quella genetica) ricombini la struttura su cui interviene e questa “novità”, per essere accettata, debba essere “giudicata” favorevole per l’evoluzione della specie di riferimento, prima di divenire un nuovo patrimonio consolidato. Accade lo stesso per le mutazioni culturali, laddove in luogo dei geni vi sono, appunto, i geni-idee, con la peculiarità precedentemente accennata e cioè che queste sono assai rapide ad entrare a far parte del bagaglio del pensiero ma con altrettanta velocità possono non resistere al principio evolutivo e dunque essere accantonate perché disutili. Valutando le modifiche di paradigma del processo penale ci si rende conto come, nel volgere di pochi secoli, il processo ed in specie la legislazione, che funge da patrimonio genetico del medesimo, siano stati oggetto di mutazioni considerevoli: si è passati rapidamente da una fiducia incontrastata nel giudizio divino (l’ordalia) per arrivare, oggi, al processo “ad armi pari” (il sistema accusatorio moderno) passando per l’Inquisizione, che riponeva la massima fiducia nel giudicante e nella funzione della tortura come naturale via per raggiungere la verità, senza trascurare il sistema della prova legale in cui, a ciascun mezzo probatorio, veniva assegnato un valore numerico di affidabilità predeterminato, togliendo al giudice ogni forma di interpretazione soggettiva ai fatti. Differentemente da ciò che la vulgata sostiene usualmente, il modello processuale penale italiano è certamente, nei suoi connotati normativi, uno dei più evoluti di sempre. Basta infatti pensare che le norme che lo compongono ricalcano tutti i criteri tipici di demarcazione tra metodi scientifici e pseudo-scienze, a favore della soluzione scientifica dell’impianto regolatore del procedimento. Vale ricordare i due principali cardini dell’epistemologia recepiti dal codice: quello neopositivista, già di origine newtoniana, della verificabilità empirica degli assunti e quello falsificazionista di tradizione popperiana. L’accusa infatti deve provare il suo atto d’accusa portando delle prove concrete dei fatti che dimostrino l’accadimento e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto. Tale proposta cognitiva non può essere un postulato ma deve altresì resistere alle confutazioni (e dunque deve poter essere falsificata); in questo modo, nella sua motivazione, il giudice è chiamato a esaminare i dati empirici che riscontrano quanto sostenuto dall’accusa ed anche esplicitare il perché l’ipotesi resiste alle smentite. Alla luce di tutto ciò v’è da chiedersi per quale motivo il giudizio di colpevolezza (oltre ad ogni ragionevole dubbio) possa non risultare sempre manifesto o, addirittura, essere smentito, sulla base dei medesimi elementi, dal giudice di rango superiore. Una risposta può essere offerta proprio dall’antropologia culturale, che, si sa, è uno dei formanti delle scienze cognitive. Durkheim ha ben evidenziato come il delitto crei una ferita nella società e la punizione del colpevole rappresenti, non solamente il ripristino della legalità, ma specialmente la cura contro quella ferita ed il male che essa ha prodotto; in questo modo il giudice si trova ad avere una funzione di garante del tessuto sociale e, in ciò, può trovare, nell’evoluzione culturale del processo (che crea orpelli spesso inestricabili rispetto ad una pronta risposta repressiva) un limite a tale ruolo di “clinico” del male prodotto. Ciò non avviene con pregiudizio o cattiva conoscenza delle regole processuali, ma proprio mediante percorsi cognitivi naturali, principalmente dovuti al ruolo svolto. La disutilità dell’evoluzione (giuridico-culturale) può dunque fare da freno alla rigorosa applicazione del diritto. In quest’operazione mentale il giudicante si trova a sostituire l’epistemologia con l’ermeneutica e ciò nel senso che supera la regola attraverso l’interpretazione. L’epistemologia obbliga infatti ad un ragionamento esclusivamente basato sulla disciplina normativa e non consente di aggirare questa in nessun modo; di contro, l’ermeneutica, metodo tipico dello storico, vuole che chi è chiamato a dare significato ad un fatto utilizzi tutte le conoscenze possibili, tra cui l’interpretazione. Se uno storico vuole decodificare uno scritto antico, magari leggibile solo parzialmente, attingerà ad altre fonti per tentare la migliore interpretazione. L’epistemologo, di contro, dovrebbe dichiarare sconosciuta la parte non manifesta. Per la prova penale e per il principio del ragionevole dubbio, la normativa impone la medesima condotta: il giudice deve fermarsi sui “vuoti probatori”, non può utilizzare né la scienza propria né altre conoscenze per superare il dubbio, magari re-interpretando la prova. Spesso, però, ciò non accade. Dal punto di vista delle scienze cognitive questa può essere una trappola mentale (un’euristica) che scaturisce dal ruolo di “crime controller” del giudice; dal punto di vista dell’antropologia culturale si può affermare che l’evoluzione normativa e dunque culturale (del processo) si frapponga alla soluzione sociale del problema-delitto e dunque assurgere al ruolo di evoluzione disutile (per l’evoluzione stessa) della specie (società). Questo “imbrigliamento” della mente del giudicante nel ruolo svolto, richiama gli esperimenti di Zimbardo (raccolti nel volume “L’effetto Lucifero”) secondo cui l’attribuzione di una determinata funzione ad un essere umano ne “ricabla” i percorsi neurali, anche e ben al di là di quelle che sarebbero le propensioni di costui, al di fuori del ruolo assegnatogli. Queste ragioni danno una illuminante spiegazione alla scollatura che assai spesso si può riscontrare tra il diritto e la giustizia applicata, laddove il primo è il lato dell’evoluzione culturale ed il secondo la sponda della modalità adattiva per l’evoluzione della specie dei geni-idee contenuti nelle regole astratte. Il giudice si trova così sul crinale di un doppio ruolo, quello di custode principale dell’evoluzione antropologico-culturale e quello del controllore del buon andamento sociale e del distributore di decisioni che sappiano rispondere a questa sua proiezione extragiuridica. Ciò porta ad inestricabili problematiche di ordine cognitivo per rendere compatibili tali ruoli, con buona pace per gli assunti dogmatici che vogliono il giudice, sempre e comunque, esente da contraddizioni ed errori mentali, diversi da quelli patologici preveduti dal codice come cause di impossibilità a svolgere la funzione (da cui le quasi insignificanti regole sull’astensione e la ricusazione).

Luca D’Auria