Punti su un cerchio. Il cammino comune di cristianesimo e islam

Negli ultimi decenni, l’area di Gaza, in Palestina, è diventata sinonimo di guerra, miseria, occupazione militare, terrorismo. Ovviamente non è sempre stato così: nei primi secoli dopo Cristo, infatti, la regione era uno dei centri culturali e spirituali più vivi, ferventi e innovativi del mondo, un punto di incontro di tradizioni, lingue e religioni, patria di santi, teologi, mistici e filosofi. Uno di questi, ingiustamente dimenticato, è S. Doroteo di Gaza, monaco a Abba Serid nel VI secolo d.C..

Innovativo sotto molti punti di vista, Doroteo è noto per gli insegnamenti impartiti ai compagni monaci raccolti in buona parte in Indicazioni per la formazione spirituale, testo che racchiude anche intuizioni sorprendenti su temi inaspettati, non ultimo la coabitazione e il reciproco rispetto tra fedi diverse. In una delle sue figure più efficaci, Doroteo immagina tutte le religioni come punti su una ruota, ognuno termine finale di uno dei raggi; il fulcro della ruota è Dio, l’Eterno che tutti cercano. La distanza dal centro della circonferenza è direttamente proporzionale a quella tra i punti sulla stessa: più questi sono distanti dal fulcro, più lontani sono anche l’uno dall’altro, mentre più si avvicinano al centro muovendosi lungo il raggio, maggiore sarà anche la vicinanza reciproca, indicando una ultima coincidenza dell’esperienza dell’Assoluto nella mistica. Il messaggio di Doroteo, però, si preoccupa di essere anche umanistico-sociale: più si tenterà di avvicinarsi ai fratelli di altre religioni (occupanti quindi gli altri punti dell’ideale circonferenza), più ci si farà prossimi, quasi automaticamente, a Dio.

Sono passati millecinquecento anni, ma il messaggio di Doroteo è più attuale che mai. È sotto il segno del dialogo, dell’accoglienza reciproca e dell’impegno comune che lo scorso 4 febbraio si sono incontrati ad Abu Dhabi Papa Francesco, capo della Chiesa cristiana cattolica, e Muhammad Ahmad Al-Tayyib, Grande Imam di al-Azhar e figura di riferimento per l’islam sunnita. Al termine dell’incontro, i due leader religiosi hanno redatto e firmato il Documento per la pace e mondiale e la convivenza comune (o Documento sulla fratellanza umana), un testo semplice e schietto che rifiuta la violenza e lo scontro come facenti parte della rivelazione cristiana e islamica, e che invita le due comunità religiose (che insieme comprendono quasi metà dell’attuale popolazione mondiale) a collaborare nelle sfide di giustizia sociale, di tutela dei deboli e degli ultimi, di difesa dell’ambiente e di costruzione della pace che le accomunano.

Non sono mancate reazioni ostili da esponenti di entrambe le comunità religiose: se i cattolici oltranzisti, che vedono nel confronto col mondo islamico la chiamata a una nuova Crociata in difesa della cristianità occidentale, hanno accusato il Papa di aver tradito la propria fede “arrendendosi” all’islam, musulmani altrettanto oltranzisti hanno invece rimproverato al Grande Imam di essersi “contaminato” stringendo accordi con gli infedeli imperialisti. Entrambe le voci hanno ampio sostegno nelle rispettive comunità, ma rimangono fortunatamente minoritarie, superate da una larga maggioranza di fedeli che non desidera che un percorso di pace – e, possibilmente, di amicizia – e soprattutto dalla Storia stessa che, al netto di corsi e ricorsi vichiani, non tollera di tornare sui propri passi.

Il cammino verso il centro della ruota, in un millennio e mezzo da quando scriveva Doroteo di Gaza, ha fatto molti passi avanti e altrettanti ne ha fatti indietro, in un assurdo balletto che non ha mai deciso fino in fondo quale direzione intraprendere. In anni di recrudescenza di antiche inimicizie, di violenza e di conflitti causati da un divario sempre più ampio tra classi sociali e regioni del mondo, un documento come quello firmato da Francesco e da Ahmad al-Tayyib parrebbe poca cosa, ma forse è proprio attraverso l’intuizione del monaco palestinese che può essere messo nella giusta prospettiva: se camminare insieme verso il centro si è rivelato troppo difficile, proviamo a camminare l’uno verso l’altro, a piccoli passi ma con costanza e fiducia. Il risultato sarà comunque lo stesso.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Averie Woodart via Unsplash]

Compatibilità tra diritti umani e Islam. Possibile?

I diritti sono affermazioni vincolate entro un quadro (pre)costituito. Nel panorama attuale, l’Islam rappresenta un ricco dipinto nelle cui diverse sezioni si registrano posizioni tra loro piuttosto diverse. Un colpo di sonda su di loro ci può spingere a riflettervi in rapporto a ciò che viene visto come “l’altro”: un “diverso” con cui condividiamo spazio e tempo, cioè quegli elementi che ci permettono di situarci nel mondo.

«In un tempo come l’attuale, caratterizzato dalla lotta internazionale contro il terrorismo, è tornato alla ribalta il problema dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda la scarsa conoscenza reciproca: sia dell’Islam da parte degli occidentali, sia del cristianesimo da parte degli islamici1».

Sono almeno tre le tendenze di fondo, le “correnti” che sembrano scorrere, solcandolo, questo universo: l’ultima, la più recente, sarà quella su cui spenderò più parole, anche per le sue implicazioni nel contesto contemporaneo.

Un primo approccio, più ‘conservatore’, ripropone una visione tradizionale dell’islam per cui la Shari’a si erge a torre d’avorio ove il buon musulmano deve avere dimora. Si tratta di una posizione fatta propria da alcuni stati i quali, in antagonismo rispetto ai diritti dell’uomo universalmente condivisi, insistono sulla dipendenza assoluta della dimensione statale alla sfera religiosa.

Una tendenza più ‘pragmatica’ è invece adottata da quegli stati in cui, soprattutto in seguito al conseguimento dell’indipendenza, sono stati elaborati nuovi codici di diritto, per le varie sfere della vita quotidiana, spesso di matrice europea. Qui, l’ambito che più rimane soggetto alla Shari’a è quello del diritto familiare. In questa seconda prospettiva, gli adattamenti pragmatici più forti hanno riguardato le esigenze dei diritti dell’uomo e della vita moderna.

Infine, la terza corrente è quella “dei riformisti contemporanei” − l’Islam dei lumi −, cui aderiscono coloro i quali cercano di applicare nuovi criteri interpretativi a una lettura più generale, “finalista” del Corano, quindi non strettamente letterale. Questo è l’approccio cui anche i non-musulmani possono rapportarsi e confrontarsi in virtù di una possibilità di comunicazione fertile per tutte le parti coinvolte.

Nell’Islam a partire dall’anno mille si è sviluppato solo un approccio letterale delle fonti, e questo in quanto la libera interpretazione dei testi tramite l’applicazione del ragionamento razionale era inconcepibile. Per i riformisti, al contrario, è necessario promuovere una rilettura attualizzata e attualizzante del Corano rispetto alle esigenze di oggi, anche in forza del progresso culturale, morale generale sviluppato e raggiunto fino ai giorni nostri.

Questo può portare anche ad una “diversa” rilettura del Mondo, della sua perenne metamorfosi la quale richiede, come sua naturale conseguenza, un adattamento alle modifiche ed evoluzioni del sistema socio-politico e economico-culturale globale. Si tratta infatti di una Terra in cui ciascuno di noi, pur nella sua individualità, è incessantemente interconnesso all’Altro, poco importa se si tratta del vicino di casa o di un abitante di un continente distante migliaia di chilometri.

La lettura finalista mira a comprendere, nella situazione descritta dal Corano, quale era, appunto, la finalità della prescrizione o dell’atto di Maometto, cioè estrapolare l’intenzione dal dato storico letterale. Quest’ultimo esige oggi di essere applicato cercando di evadere da quel concetto per cui l’Islam si identifica con la religione naturale: è necessario scegliere di essere musulmani, cioè “sentirsi” tali. Questa libertà primigenia viene così posta sempre come base dell’umanità nella sua eterna complessità, con cui anche l’Islam deve rapportarsi.

Una rivalutazione della dimensione della libertà originaria dell’uomo può, così, costituire una base solida per sviluppare l’accettazione dei diritti dell’uomo, a tutto tondo. In virtù di una lettura finalista del Corano, sarebbe così possibile accettare, in maniera costruttiva e creativa, i diritti fondamentali dell’uomo enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

L’Islam è così in grado di percorrere questo sentiero di condivisione di un nucleo di valori fondamentali i quali possono fornire un nucleo di valori condivisi nelle società contemporanee. Questa terza tendenza moderna è attestata in innovazioni legislative e istituzionali introdotte in alcuni Stati che, tuttavia, si muovono sempre in un quadro non pluralista, ma tutt’oggi ancorato alla tradizione.

La sua importanza è comunque indiscussa in quanto apre prospettive innovative di carattere dottrinale, in grado di riverberarsi sui rapporti internazionali, e in grado offrire alle altre correnti più tradizionaliste la possibilità di aprirsi, dialogando, alla contemporaneità internazionale.

Seguendo questa terza corrente è possibile affrontare e scogliere nodi, tanto problematici quanto basilari, che avviluppano i diritti umani, con notevole apertura alla luce di una riflessione critica dei fondamenti della religione. È appunto definita Islam dei lumi per il rilievo riconosciuto alla ragione, in particolare nell’interpretazione del Corano. Questa opzione metodologica consente una revisione della Legge Santa ricettiva dei diritti dell’uomo così come formulati nei documenti internazionali.
In questa prospettiva si garantisce, per iniziare, la libertà religiosa e un’equa distribuzione di responsabilità e doveri, cui, di riflesso, fa capo un riconoscimento di pari diritti.

In ambito islamico, poi, molte donne e minoranze religiose nutrono quella fiamma di innovazione, promotori interni a livello intellettuale e sociale di una lotta politica e sociale affinché i loro diritti siano garantiti. In questo modo, la loro azione funziona anche da spinta evolutiva interna dell’Islam.

Le minoranze religiose, i cui membri sono tradizionalmente ridotti a cittadini di seconda classe, e a cui generalmente è stata riconosciuta dagli stati moderni una parità di cittadinanza formale, continuano tuttavia a subire molte discriminazioni sul piano delle normative concrete. La lotta che anche loro conducono, apertamente, per una parità di cittadinanza reale in nome dei diritti dell’uomo è comunque un importante propulsore di meccanismi di cambiamento all’interno delle società musulmane.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Simone, L’islam e i diritti umani, in “La Civiltà cattolica”, Quaderno 3634, Volume IV, 2001, p. 396

[Photo credits: Junhan Foong on Unsplash]

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Quel muro tra noi e l’Islam: intervista a Francesca Corrao

In questa ultima edizione di Pordenonelegge si è parlato molto, e giustamente, del mondo islamico e del suo rapporto con l’Occidente (e non solo), in termini soprattutto politici ma fortunatamente anche culturali. Anche io nel mio piccolo desidero contribuire alla condivisione di pensieri e storie su questa cultura ricca ed antica, poiché ancora una volta i libri possono costituire un porto sicuro nella tempesta del sensazionalismo e dell’approssimazione.

VENICE, 28.10.2008. BIIENNALE TEATRO 2008. THE SYRIAN POET, PLAYRIGHT AND ESSAYIST ADONIS (ALI AHMAD SAID ISBIR) © MARTABUSO/ARICI/GRAZIANERI TEATRO DRAMMATURGO SAGGISTICA Sono andata dunque ad incontrare Francesca Corrao, docente di Lingua e cultura araba alla LUISS di Roma e che nel contesto del festival friulano ha presentato il suo ultimo libro, Islam: religione e politica (LUISS University Press, 2015). Ha vissuto molti anni al Cairo, dove ha conseguito un master in Arabic Studies presso l’American University ed è stata visiting professor in numerosi atenei internazionali tra cui Beirut, Tunisi, Damasco, Parigi e Cambridge. E’ presidente del comitato scientifico della Fondazione Orestiadi di Gibellina (TP), che promuove attraverso un festival annuale il dialogo tra le diverse culture del Mediterraneo; è anche membro dell’Union of European Arabist and Islamist e dell’Institute of Oriental Philosophy della Soka University di Tokyo.
Ecco dunque quello che mi ha raccontato.

 

Abbiamo da poco ricordato, dopo quindici anni, gli avvenimenti di New York e Washington di martedì 11 settembre 2001: da allora il mondo occidentale si è trovato di fronte ad una realtà improvvisamente scomoda ed allarmante che persiste tutt’oggi, dove si rischia di associare definitivamente l’Islam al terrorismo. Quali erano prima di questa data i rapporti tra l’Islam e l’Occidente?

Per quanto riguarda il bacino del Mediterraneo, tali rapporti erano ad un bivio, nel senso che avevano preso un cammino virtuoso – mi riferisco soprattutto agli Accordi di Barcellona, che prevedevano un intensificarsi della collaborazione economica e culturale tra i paesi della sponda  Nord e Sud del Mediterraneo: si svolgevano numerosi festival e più in generale gli scambi tra docenti, artisti, intellettuali, e quindi sembrava possibile un ulteriore sviluppo di questa collaborazione, che avrebbe portato ad un progresso e una maggiore integrazione tra le due sponde del Mediterraneo. Contro questo tipo di politica d’apertura invece vi erano gruppi di potere conservatori radicali che si sono schierati dietro la figura di Bin Laden, perché contrari ad un cambiamento politico in senso democratico. Il problema è all’interno dell’Islam, dove vi sono quelli che sono favorevoli ad una modernità e ad una occidentalizzazione e altri che sono più conservatori e sono più restii ad accogliere le istanze della modernità, e altri ancora che invece intendono restare arroccati in una concezione della società di tipo clanico-medievale. Ovviamente sono delle forze di minoranza all’interno di Stati conservatori, che però hanno accesso a solide risorse economiche e a strumenti di tecnologia molto avanzati. Noi non possiamo permettere a questi nuovi nazisti di cambiare il corso della nostra storia, quindi dobbiamo migliorare e intensificare i rapporti con le persone di buona volontà musulmani credenti, secolari, liberali, democratici, socialisti – perché ci sono diverse connotazioni politiche nell’ambito della comunità islamica, e dobbiamo appunto rinsaldare tali rapporti se vogliamo contrastare questo oscurantismo.

Dal settembre 2001 e negli anni successivi con le guerre in Iraq ed Afghanistan, la fonte di tutti i mali del mondo pareva essere Osama Bin Laden, leader del gruppo terroristico di al-Qaeda; oggi sembriamo quasi esserci dimenticati quel nome, da tempo sostituito da al-Baghdadi, califfo del gruppo Daesh. Se queste cellule terroristiche sono accomunate dal tentativo di frenare l’occidentalizzazione e di destabilizzare il resto del mondo, quali sono invece i loro punti di contrasto?

Certamente i diversi gruppi sono in una situazione di contrasto reciproco: Daesh (o Isis) è infatti uno dei tanti gruppi, purtroppo ci sono diversi gruppi di radicali intransigenti, una serie di fazioni armate (ahimè), un po’ come in Italia ai tempi delle Brigate Rosse, quando oltre a loro c’erano anche altre cellule e movimenti. Ora non si sente più parlare di al-Qaeda ma di Isis, domani però si parlerà di un altro, perché il progetto di Bin Laden non era quello di creare uno Stato ma di formare tante piccole molecole che sarebbero esplose qua e là dovunque nel mondo (com’è successo purtroppo quest’estate nel nord della Francia e a Nizza). Questo era un tipo di progetto che mirava alla destabilizzazione nell’ambito delle realtà politico-culturali altre – altre, noi siamo sempre eurocentrici ma in realtà gli attentati li fanno in Bangladesh, in Pakistan, in Indonesia, in Marocco… quindi  non si può più parlare in termini di Oriente ed Occidente, dobbiamo piuttosto distinguere tra un progresso rispettoso dei diritti umani e della dignità della vita, contro invece delle forme tribali-dittatoriali della gestione del potere. Perché questo è il problema: non rispettano la dignità della vita.
Con la morte di Bin Laden c’è stata una frattura all’interno di al-Qaeda da cui è nato Daesh, ma anche altri gruppi; Isis ha creato lo Stato e quindi si è differenziata rispetto al progetto di al-Qaeda, perché si è alleata con gli ex sostenitori di Saddam Hussein (ex dittatore iracheno caduto nel 2006), i quali erano al governo dell’Iraq; erano uno Stato dunque, ma avendo perduto la guerra contro gli americani, con le nuove elezioni democratiche sono stati esclusi dal potere. Daesh ha incluso quegli ex funzionari (al-Baghdadi stesso era finanziato dall’ex dittatore) e i militari dell’esercito fedeli a Saddam, poiché volevano ricostruire uno Stato. Quindi il problema non è che il nemico di Isis/Daesh siamo noi, il primo nemico per loro in realtà sono i governi al potere nella zona: loro vogliono destabilizzare tutto per sostituirli al potere.

Di fronte a tutto questo penso a Malala Yousafzai, la coraggiosa ragazzina pakistana che ci insegna a combattere l’odio e l’intolleranza attraverso l’educazione, la cultura: una matita è più forte di un kalashnikov. Continuare a parlare del terrorismo islamico dunque inevitabilmente mette da parte gli affascinanti aspetti di una cultura millenaria diffusa in tutto il mondo, ponendo le basi a tutta la diffidenza occidentale. Lei crede che la conoscenza contribuisca ad abbattere quel muro di paura?

Assolutamente sì. L’arma è la conoscenza, conoscersi e allearsi con i musulmani che sono in Italia e che vengono in Italia perché vogliono prendere le distanze dalle dittature e da tutto ciò di cui ho appena parlato. Sono quelli pericolosi che vanno isolati. Anche perché sappiamo bene dove si può andare a finire, basti pensare a quello che è successo in Bosnia, dove una popolazione pacifica è diventata settaria e si sta diffondendo tra un Islam pacifico anche un proselitismo di religiosi fanatici. Pensiamo invece al Marocco, il cui re ha creato una fondazione per la formazione di religiosi che siano in grado di contrastare questo pensiero deviato dell’Islam. Il fatto è che non è facile contrastarli, bisogna essere preparati, e se i ragazzi sono ignoranti e non conoscono il Cristianesimo, ma nemmeno l’Islam o l’Ebraismo, cadono nella trappola del nazismo mentre noi ricadiamo in quella del silenzio a cui il nazismo ci aveva costretto. Cerchiamo dunque di non diffondere un nuovo antisemitismo, perché non dimentichiamo che gli arabi sono semiti come gli ebrei.

In questo senso è stata molto interessante la sua lettura de Le mille e una notte, raccolta di fiabe che ha per protagonista un re persiano talmente spaventato dalle donne da farle uccidere il giorno successivo alle nozze; questo finché non entra in scena V che con i suoi racconti riesce a rimanere in vita perché sbriciola il muro di paura del re…

Gandhi per esempio diceva qualcosa come “Io non posso convincere tutti, a me basta convincere una persona”. Voglio citare anche Hannah Arendt, per la quale la superficialità e la non conoscenza delle cose per come sono era considerata inammissibile. Noi abbiamo esempi anche in Norberto Bobbio sull’importanza del ruolo degli intellettuali di dare delle informazioni corrette per la difesa dei nostri valori, che sono valori universali, e nell’Islam e nei Paesi arabi c’è tanta gente che ha voglia di difendere i valori universali, e sopra ogni cosa la dignità della persona.

E allora, proprio per avvicinarci alla cultura millenaria e molto sfaccettata dell’Islam, vorrei chiederle qual è l’aspetto più curioso ed interessante della cultura islamica che ha scoperto durante i suoi studi.

A chi si volesse avvicinare a questo mondo consiglierei di leggere il mio Islam: religione e politica, che è organizzato in due capitoli, uno sulle antichità e uno sulla modernità, e dove ci sono riferimenti bibliografici proprio per poter approfondire. Io personalmente sono stata molto colpita dalla mistica islamica, penso al poeta Gialal al-Din Rumi in particolare: questa disciplina è estremamente interessante perché va al di là della conoscenza della religione come un elemento dogmatico ma parla allo spirito, all’essere umano, alla possibilità insita in ogni individuo di poter trasformare se stesso. Noi esseri umani abbiamo il diritto-dovere di migliorarci, di vivere la nostra fede in quanto essere umani, e quindi rispettare noi stessi e gli altri.

Quest’estate la controversissima proposta da parte di alcuni sindaci francesi sulla proibizione del cosiddetto “burkini” nelle spiagge ha diviso l’opinione pubblica internazionale, ma credo abbia anche deviato parte del dibattito dall’intolleranza religiosa alla discriminazione femminile, creando forse una nuova vicinanza tra musulmane e donne di altre fedi (o atee). Considerata la sua vicinanza al mondo islamico, ci spiega qual è la reale visione della donna al suo interno?

In seguito al colonialismo la lotta dei Paesi arabi contro di esso ha trasformato in maniera importante la consapevolezza della società araba e quindi ha portato ad emergere un nuovo ruolo della donna. A partire dal Novecento ci sono state delle donne che hanno tolto il velo, che hanno deciso di andare all’università, per emanciparsi, per andare a lavorare, per poter avere diritto al voto – una storia di emancipazione che non è molto diversa dalla nostra. Ed è una lotta contro la mentalità patriarcale. C’è una famosa sociologa libanese, Fahmia Sharaf al-Din, che ha condotto uno studio in cui dimostrava che l’ingiustizia nei confronti delle donne non è un problema dei musulmani in Medio Oriente ma è anche dei cristiani, degli ebrei, di sunniti, sciiti, alawiti… è insomma un problema di mentalità patriarcale che non vuole accettare la pari dignità alle donne. Quindi per noi donne è importantissimo essere consapevoli del nostro diritto ad essere trattate in egual misura pur mantenendo la nostra differenza. Nel mondo arabo le donne non vogliono che l’Occidente imponga loro la modalità di emanciparsi, e del resto loro hanno il diritto a trovare i loro modi per farlo e stabilire un dialogo, un confronto. Per esempio, per delle ragazze che vengono da famiglie molto conservatrici è utile mettersi il velo, perché con il velo possono andare all’università o trovarsi un lavoro, battaglie queste molto più importanti del velo di per sé perché al momento la vera necessità non è mettere o togliere il velo ma il poter lavorare. Per esempio in Marocco, come in Algeria e in Tunisia, molte donne si sono emancipate a seguito del clima di libertà che si affermò negli anni Cinquanta e Sessanta con la liberazione dal colonialismo; lì però coesistono forze conservatrici con forze innovatrici, ed ecco quindi il problema del dibattito che si sposta sui diritti: il diritto a lavorare, il diritto ad avere il divorzio, il diritto a poter viaggiare senza dover avere per forza il consenso del marito, il diritto ad avere un assegno dopo il divorzio… problemi seri, economici. Perché la società cambi ci vuole tanto tempo, non è che glielo possiamo imporre noi con la bacchetta magica: si cambia attraverso l’educazione e anche l’acquisizione di consapevolezza della propria dignità, della legittimità del proprio pensiero altro di donne.

Quindi lei sostiene che l’inferiorità della donna non è un fatto religioso ma culturale, così come del resto esiste all’interno del mondo cristiano, per cui la donna nascerebbe dalla costola dell’uomo per non essergli né superiore né inferiore ma pari, mentre poi nella realtà la situazione è (ancora) ben diversa. I testi sacri islamici come si rapportano alla donna?

È una questione culturale sì, infatti per esempio ci sono i movimenti delle femministe islamiche che lavorano sulla rilettura dei testi sacri e stanno svelando come questi siano stati letti in maniera patriarcale e maschilista. Nel Corano c’è scritto che l’uomo alla donna è uguale e non c’è nemmeno il problema di Adamo ed Eva e del peccato che la donna avrebbe commesso, il che costituisce in realtà una grande differenza. Dove nel Corano si dice che la donna è più debole dell’uomo e che l’uomo la deve proteggere, s’intende piuttosto la fragilità di una futura madre, non si legittima di certo l’uomo alla violenza domestica perpetrata perché ella non condivide lo stesso pensiero. Cito di nuovo la sociologa libanese Fahmia Sharaf al-Din e il suo studio, in cui dimostra che questo non è un problema del Corano, perché la violenza sulle donne la esercitano anche i cristiani – basti pensare a quale orrore sono in Italia i dati sul femminicidio. Gli uomini lo fanno perché si sentono minacciati da un pensiero diverso, perché noi uomini in generale non siamo educati ad accettare un pensiero diverso, mentre invece è fondamentale trovare il modo di interagire. I genitori, al di là dei generi e omosessuali o meno, rappresentano due modi di pensare diversi e in tal modo costituiscono una pluralità di pensiero importante per i figli, aiutandoli di fatto a vivere nel confronto con l’altro. C’è un grande filosofo giapponese che si chiama Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai International, il quale sostiene spesso l’importanza dello sviluppo del dialogo e dell’empatia e della conoscenza dell’altro, perché è così che si fuga la paura.

A proposito di filosofia, noi pensiamo che il pensiero e la cultura abbiano un peso rilevante nella vita quotidiana, che siano chiavi di lettura di ciò che succede attorno a noi. Lei che valore dà alla filosofia?

Sono assolutamente d’accordo, io adoro la filosofia. Ho citato Daisaku Ikeda, che ha contribuito alla creazione di un sistema di scuole che si chiamano Soka Gakkai (letteralmente “società per la creazione di valore”), dal grande pedagogo giapponese Tsunesaburo Makiguchi, il quale ritiene che bisogna avere una filosofia della vita e della dignità della vita da implementare nel quotidiano vivere, perché altrimenti uno si comporta in maniera barbara senza esserne consapevole. Bisogna allora avere dei valori forti da tenere presenti nel momento in cui si vive, per esempio sicuramente la bellezza, la bontà e l’utilità, ma non uno a scapito dell’altro. A tal proposto, noi in Occidente abbiamo l’uguaglianza, la libertà e la fraternità – ma poi perché la fraternità (la solidarietà) non è mai più presente nel nostro orizzonte esistenziale? Vuol dire doversi mettere in discussione nel proprio agire quotidiano e non farsi dominare da forze esterne perdendo così il nostro baricentro, la nostra convinzione. Anche Martha Nussbaum e John Rawls infatti sottolineano l’importanza di imparare a coesistere, di trovare punti di conoscenza e di valori condivisi da rispettare. Ciò significa che se il cittadino è rispettato in quanto cittadino, il suo diritto è anche quello di avere una sua fede, ma questo uomo di religione deve rispettare anche le regole degli altri in quanto cittadino, lui ma con cittadini altri. Sono queste le regole che dobbiamo tenere presenti: non dobbiamo escludere i musulmani dalla cittadinanza (che è ahimè quello che facciamo), perché sono esseri umani che hanno la dignità pari alla nostra e possono contribuire al nostro arricchimento; se noi ci chiudiamo ci esauriamo, perché la ricchezza e la crescita vengono dall’apporto e contributo di punti di vista altri.

 

Giorgia Favero

 

NOTA:
Intervista rilasciataci dalla docente il 15 settembre 2016 in occasione di Pordenonelegge (Pordenone).

[Immagini tratte da Google Immagini]

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L’Islam intorno a me

I recenti fatti accaduti a Parigi hanno portato in primo piano un unico argomento: l’Islam.

La rete web, i canali social, le testate giornalistiche stesse hanno sottolineato quanto sia “cattivo” l’Islam e quanto sia “buono” tutto ciò che non è Islam.

Nessuna informazione potrebbe essere più sbagliata.

Se il terrorismo è da condannare a prescindere, senza conoscere nemmeno la giustificazione (se mai ne possa esistere una) che sta alla base di questi gesti estremi, l’Islam no. Non si può e non si deve condannare a prescindere.

Ormai sono circa due anni che frequento il mondo arabo. Due anni in cui mi sono resa conto che tutto l’astio che si prova verso l’Islam è assolutamente ingiustificato, ma capibile. Capibile perché le informazioni che arrivano in Italia sono spesso distorte e molto confuse.

L’Islam non è una religione “cattiva”. Anzi. L’Islam è una religione basata su principi che chiedono al fedele di vivere la propria vita in nome della fede, della carità e della pietà.

Nella vita quotidiana di un musulmano dovrebbe esserci molta carità. Le opere di bene dovrebbero essere all’ordine del giorno.

La tolleranza un concetto non sconosciuto.

E così è per la maggior parte dei musulmani. Quel condizionale usato poco fa si riferisce invece a quella ristretta ma purtroppo potente minoranza che invece in nome di Allah uccide.

Non voglio entrare in questioni politiche. Non sono un’esperta di politica e finirei per aggiungere ulteriori informazioni sbagliate alla lunga lista già esistente.

Preferisco scrivere chi è per me il musulmano, dopo questi primi due anni di incontri.

Musulmana è quell’amica che mi ha aiutato ad ambientarmi quando ancora non conoscevo niente e nessuno qui a Doha.

Musulmano è colui che ha aperto le porte della proprio religione e mi ha spiegato tanti perché e per come che io completamente ignoravo.

Musulmano è colui che nel suo piccolo cerca di combattere la povertà. Aiuta il prossimo, poco importa di che religione sia.

Musulmano è chi accetta anche le mie tradizioni. Mi chiede del Natale e mi augura Buona Pasqua.

Musulmani sono le mie amiche, con cui uscire, con cui chiacchierare, con cui divertirmi.

Le differenze tra le culture sono tante. Non posso nasconderlo.

Ma personalmente credo che questi confronti mi arricchiscano invece che pregiudicare la mia libertà.

Musulmani, infine, sono tutti colori che inorridiscono come noi, soffrono come noi, si rattristano come noi, si rammaricano come noi quando, in nome della loro religione, uomini, donne e bambini perdono la vita.

Ecco, è così che io voglio vedere l’Islam. E sono fermamente convinta che tutti coloro che uccidono in nome di una religione sono gli unici a non aver capito nulla della religione stessa.

Chiara Amodeo

[Immagini tratte da Google Immagini]