Musica classica, quale futuro?

Al di là del tema comune della quasi impossibilità di fruizione immediata che la caratterizza, il nostro tempo ha un problema più profondo con la musica classica. Si è detto “quasi” perché solitamente con questo termine s’intende una categoria che tutti saprebbero individuare, ma è sorprendentemente difficile da definire e quindi altrettanto difficile è determinarne le qualità. Molti motivetti hanno superato la barriera dell’intenditore per diventare parte della cultura pop, infestando ad esempio il campo pubblicitario. Così come certe affermazioni filosofiche astratte dallo sfondo in cui si collocano sono diventate mantra contemporanei. Quando però si alza un po’ la mira gli unici a capirne qualcosa sono gli stessi musicisti e pochi intenditori. I più, tra cui si inserisce vergognosamente il sottoscritto, visitano questa forma d’arte come i turisti passano tra le antichità delle nostre città: da lontano e capendoci poco.

Dietro al declino della musica classica sembra esserci come uno sfasamento ontologico tra la dimensione temporale come era vissuta dal compositore nel passato e la dimensione temporale di cui fa esperienza l’uomo nel presente. Tanto il compositore quanto l’ascoltatore medio di ieri e di oggi creano e ascoltano una musica che abbia il ritmo del proprio tempo. Ciò a dire che la composizione e la fruizione della stessa viene inevitabilmente influenzata dal mondo in cui il soggetto vive. Usando la terminologia di una tradizione in disuso si potrebbe intendere la musica classica come una sovrastruttura, alla quale sono venute a mancare le condizioni materiali del proprio sostentamento. Un’ epoca in cui la durata di un paio di scarpe si misura in decadi produrrà inevitabilmente musica di una velocità al limite dell’incomprensibile per chi vive la contemporaneità in questa parte di mondo.

I nuovi compositori rimangono schiacciati quindi tra nuove condizioni dettate da esigenze di mercato: pezzi non più lunghi di qualche minuto, ad una certa velocità etc; l’ ombra magnifica della storia passata con cui dover fare i conti. Al giorno d’oggi compositori degni di nota non mancano anche restando in Italia, la notorietà raggiunta da qualcuno è però l’eccezione, non la regola. la tendenza è di plastificare la musica classica in due o tre autori (Bach, Mozart, Beethoven), banalizzando un’arte ricchissima di storia. La critica per lo più risulta incapace di stabilire canoni, di andare oltre i gusti personali e di ritrovarsi d’accordo a stabilire linee di sviluppo maggioritarie nella recente storia passata, facilita questo processo.
Gli stessi mezzi materiali di trasmissione della musica nella contemporaneità: radio, televisione, uniti alle “nuove” modalità di fruizione sembrano sfavorevoli a questa nobile arte. Una notevole eccezione è rappresentata dal grande schermo: il connubio con il cinema, nel quale immagine e musica si vengono ad intrecciare, ha dato nuova linfa e nuovo potenziale espressivo, ai compositori tra i quali Ennio Morricone e Philipp Glass.
Non si vuole sostenere qui una presunta superiorità aprioristica della musica classica su altri generi, la qualità di un componimento trascende il genere musicale in cui si situa. Si vuole solo indicare un animale bellissimo nel mondo della musica che sembra correre verso l’estinzione e in difesa del quale la sola appassionata dedizione non sembra aiutare.

Resta comunque da chiedersi quale sia il futuro di quest’arte, quando un ritorno ai ritmi e agli stili di vita di una volta sembra poco probabile se non impossibile e quando la tendenza mainstream riguardo la velocità dei bpm punta al rialzo. La musica classica tende non solo ad essere di nicchia questo, pur con significative variazioni, è sempre stata una sua prerogativa, ma anche tra i generi musicali di nicchia sta scomparendo, sostituita dal jazz, dal progressive rock ed altri.
Se la musica è uno degli strumenti con cui l’uomo interpreta il suo tempo e la musica che più viene venduta è di conseguenza quella che più lo rappresenta, lasciamo al lettore trarre le amare conclusioni.

Francesco Fanti Rovetta

Da Nietzsche alla musica: quando la società non sa ascoltare

Qualche sera fa sono stato ad ascoltare un concerto del Duo Symphonia per ricordare Bach. Quello che mi ha più colpito è l’accostamento di due strumenti solisti, una formazione di Organo e Pianoforte che suonano insieme, un mix apparentemente antitetico che però rivela all’ascolto sorprendenti e piacevoli sonorità. La musica trae la propria forza dalle differenze timbriche in una convivenza di “mondi opposti”. Il tutto era poi condito dall’utilizzo di ICT per riprodurre alcune sonorità dell’Organo e spartiti digitali.

Possibile che anche il mondo della musica riesca a dimostrare più innovazione e creatività della società e del mondo della politica? La differenza è percepita sempre come qualcosa di negativo e quasi mai come dialettica positiva ed è così che le persone se ne stanno rinchiuse in piccoli mondi, con le loro etichette, stando sempre a guardare le poche cose che ci dividono rispetto a quelle che ci uniscono.

Tutto questo mi ha riportato alla mente il rapporto sussistente tra musica e innovazione, perché come aveva ben osservato Nietzsche, qualche volta il mondo della musica anticipa quello della storia dell’uomo e della filosofia, una comprensione così profonda da condurlo al rapporto amore-odio con il celebre compositore Richard Wagner.

Tutto questo apre una opportunità di fare una bella riflessione su follia e innovazione: essere pazzi, essere visionari significa anche essere innovativi. Mettere accanto un Organo e un Pianoforte come fanno i Duo Symphonia sarebbe stata ritenuta una vera eresia per la concezione classica degli strumenti, ma allora come mai tale accoppiata risulta vincente? Che cosa non riuscivano a vedere i predecessori di Roberto Scarpa e Giuseppe Iampieri?

Come segnalato da M. Clark1, la definizione dell’uomo come animale razionale è troppo ottimistica: per lo più per ignoranza o per impazienza le persone tendono a trarre conclusioni affrettate e a fraintendere l’evidenza.

Tutti siamo portati a costruire le nostre credenze sulla base di motivazioni e per questo le credenze tendono a generarsi in modo non obiettivo, in modo quasi disonesto, perché spesso dietro alle nostre credenze si cela anche la nostra poca autostima2. In questo senso penso che Nietzsche sia stato indubbiamente un precursore nel denunciare questo genere di fenomeno descritto da Clark e da altri autori successivi.

Prendendo in considerazione gli aspetti più propriamente legati alla salute mentale di Nietzsche nella fase terminale della sua vita, è da rilevare che una diagnosi sul quadro clinico di un paziente dipende anche dallo sguardo degli osservatori, dalle categorie concettuali, dagli strumenti diagnostici e, in ultima analisi, dalla “filosofia” che essi adottano3.

Spesso quelle che vengono definite come patologie sono in realtà “disturbi mentali” dovuti all’incapacità di osservare la realtà da un approccio convenzionale, omologato e supinamente guidato dalle convenzioni sociali.

Purtroppo la psichiatria dei suoi tempi era piuttosto rozza e i medici non riscontrarono in Nietzsche con certezza caratteri psicopatici, né è provato che abbia contratto la lue, ma la diagnosi fu che egli soffrisse di una nevrosi, essenzialmente alimentata da conflitti psicologici; la sua malattia mentale è stata probabilmente una paralisi progressiva4.

La “notte” dell’ottenebramento psichico di Nietzsche calò su di lui tra il 28 dicembre 1888 e il 3 gennaio 1889, senza che nessun testimone potesse poi chiarire cosa avvenne in realtà nel suo appartamento di Torino dove alloggiava5.

Probabilmente Nietzsche nell’ultimo tormentato periodo della sua vita, prima di rassegnarsi al silenzio, si sentì abbandonato, sentì di essere rimasto solo, senza nessuno su cui poter contare veramente:

«noi siamo dalla nascita gli amici giurati e gelosi della solitudine, della nostra più profonda, più notturna e più meridiana solitudine – una tale specie di uomini siamo noi, spiriti liberi!»6.

Forse in un momento che egli stesso giudicava certamente critico comprese che per affrontare quanto ci attende fosse necessario sempre fare i conti con ciò che si è stati e con ciò che non si sarà più, e in questo può essere compresa anche la riflessione sull’Eterno ritorno dell’uguale7.

In un suo aforisma dice:

«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»7.

Forse Nietzsche nell’ultimo periodo di lucidità volse semplicemente lo sguardo caustico che lo caratterizzava non al di fuori, ma verso l’interno, decidendo di scrutare e saggiare il suo stesso animo. Forse riteneva che, sollevate tutte le maschere sotto le quali si celava il vero volto della società, fosse giunto il momento di verificare quanto di quel vecchio mondo che aveva tentato di superare continuasse a vivere nei meandri più reconditi della sua anima. Di addentrarsi cioè in quei «prosceni e quinte che nessun piede riuscirebbe a percorrere sino alla fine»9.

Egli quindi intraprese un cammino di decostruzione della sua stessa identità. Ritenendo la riflessione su ciò che lo circondava ormai esaurita a questo punto iniziò quella verso se stesso e questo è fattibile solo nel raccoglimento dato dalla solitudine.

Zarathustra, il viandante sotto la cui maschera si cela lo stesso Nietzsche, dice:

«Io sono un viandante che sale su pei monti, […] io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. […] adesso mi trovo davanti alla mia ultima vetta, a ciò che più a lungo mi fu risparmiato. Ahimè, ahimè sono obbligato a salire su per il più duro dei sentieri! Ahimè, ho dato inizio alla più solitaria delle mie peregrinazioni! […]. Tu però, Zarathustra, hai voluto vedere il fondo e il sottofondo di tutte le cose: e già questo ti obbliga a salire al di sopra di te stesso – sempre più in alto, finché anche le tue stelle si trovino al di sotto di te! Sì! Guardar giù verso me stesso e persino verso le mie stelle: solo questo può voler dire la mia vetta per me, questo mi è ancora rimasto come la mia ultima vetta! […]. Conosco la mia sorte, disse infine con mestizia. Orsù! Io sono pronto. Or ora è cominciata l’ultima mia solitudine»10.

Nietzsche ben comprese l’importanza di mettersi sempre alla prova e che la stasi equivaleva a una morte prematura, un dissiparsi delle potenzialità creative. Infatti il filosofo, prima professore di straordinario talento a Basilea dove raggiunse una cattedra stimabile in età molto giovane, una volta resosi conto di aver espresso tutto quello che aveva da dire in quell’ambito, decise di dedicarsi completamente alla cura ed elaborazione delle sue Opere attraverso le quali esprimere le proprie idee.

Dove Maurizio Ferraris scorge megalomania e pazzia io scorgo il continuo tentativo di superarsi, di affinare le tecniche in grado di esprimere la complessità di un linguaggio completamente da ricostruire dopo che egli stesso aveva contribuito a decostruirlo, cosa invece colta con grande acume come un nodo tematico fondamentale da K. Galimberti11.

Non è quindi così fuori luogo pensare che Nietzsche comprese che se il potere è controllo allora solo chi è incontrollabile, chi è pazzo, è oltre il potere. Fu forse per questo che si incamminò su quella via dalla quale non fece più ritorno:

«talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice e troppo certo»12.

Come rilevato da R. Escobar il destino di Nietzsche è stato quello di naufragare nella follia a conclusione del suo tentativo di intraprendere un disperato e lucido esperimento esistenziale ed intellettuale13.

La ricerca, la biografia, la creazione di nuovi sensi e la riscrittura di linguaggi che continuano a rigenerarsi in milioni di sfumature diverse, Nietzsche le note di Bach di quella sera e in generale il nostro bisogno di attribuire continuamente nuovi sensi alle cose non è forse la più intima natura del nostro modo di esistere?

Forse la società e il mondo dell’economia dovrebbero mettersi in discussione recuperando in accezione positiva l’elemento della follia come quella capacità di mettere insieme cose apparentemente incongruenti che non si limitino a essere la somma di singole parti, ma nell’interazione e nel mescolamento del tutto si genera qualcosa di nuovo. Non è forse questa la chiave più intima della creatività?

Nella musica i Duo Symphonia ci stanno provando, la società e l’economia staranno a guardare o sapranno trarre una importante lezione?

 

Matteo Montagner

 

NOTE

1. M. CLARK, I paradossi dalla A alla Z, trad. it. di A. Pedeferri, Milano, Cortina, 2004.
2. Ivi, pp. 15 – 18.
3. Cfr. H. WULFF, S. A. PEDERSEN, R. ROSENBERG, Filosofia della medicina, trad. it. di A. Parodi, Milano, Cortina, 1995.
4. Diagnosi del Dott. K. Hildebrandt del 29/08/1900 (Nietzsche era morto il 25/08/1900) in F. NIETZSCHE, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Torino, Einaudi, 1969, p. 345.
5. Cfr. H. ALTHAUS, Nietzsche, op. cit., p. 545.
6. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit., p. 51.
7. Cfr. F.NIETZSCHE, Il nichilismo europeo, trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 2006.
8. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit., p. 79.
9. Ivi, p. 50.
10. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, op. cit., pp. 177 – 179.
11. Cfr. K. GALIMBERTI, Nietzsche una Guida, Milano, Feltrinelli, 2000.
12. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit. p. 194.
13. Cfr. R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia politica del XIX secolo, op. cit, p. 217.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

Follow @GGiordana

[Immagini tratte da Google Immagini]