Per una quarantena culturale: i nostri consigli di lettura

In questi giorni di emergenza sanitaria molti di voi, costretti a cambiare le proprie abitudini, si saranno chiesti come trascorrere le lunghe giornate di quarantena, rendendole produttive e abbattendo la noia. È difficile accettare di non poter uscire, di non vedere gli amici, di non farsi quel week-end in montagna che avevamo desiderato con grande intensità, tanto che qualcuno avrà avuto la percezione di essere oppresso e chiuso tra le quattro pareti domestiche.

Noi di La Chiave di Sophia ci siamo impegnati per aiutarvi a rispettare il motto #iorestoacasa e allo stesso tempo per rendere il vostro tempo significativo e, chissà, magari per scoprire passioni da molto tempo sepolte. Per questo vi proponiamo una selezione di libri da leggere in questo periodo, suddivisi in tre grandi categorie: Il piacere dei classici, Viaggiare con la mente, Un momento di introspezione.

 

Il piacere dei classici

classiciLa classicità, ispirazione del pensiero universale e maestra di vita, può darci il giusto sostegno  in un momento difficile, spingendoci a riscoprire il nostro passato, attraverso personaggi che hanno il sapore dell’uomo contemporaneo. Se amate il filone del fantastico sicuramente fa per voi la trilogia di Italo Calvino I nostri antenati: Il visconte dimezzato, il barone rampante e il cavaliere inesistente, che induce a leggere i difetti e i vizi dell’uomo, attraverso metafore fortemente allegoriche. Dal tema del doppio al conflitto tra istinto e ragione, il tutto condito da immagini che rimandano ad un tempo che fu.

Per chi, invece, predilige i racconti brevi, ma non per questo meno profondi, è consigliata la lettura di La botique del mistero di Dino Buzzati, una selezione dei migliori scritti dell’autore, che rimanda ai nostri comportamenti quotidiani, specchio delle debolezze e delle paure di ognuno di noi.

Infine chi ama affrontare i conflitti tra sentimento e ruolo sociale, tra passione e vita borghese può immergersi in Camera con Vista di Edward Morgan Forster, ambientata nell’epoca vittoriana e incentrata sulla storia di Lucy Honeychurch, giovane ragazza intenta alle convenzioni sociali, costretta ad affrontare la lacerazione tra la propria emotività e il perbenismo borghese.

 

Viaggiare con la mente

viaggioSe in questo periodo non si può viaggiare fisicamente, nessuno ci vieta di farlo con la mente! Vi consigliamo a questo proposito Aleph di Paulo Cohelo, che ci fa camminare attraverso il percorso della Transiberiana, tra Africa, Europa e Asia, per arrivare a scoprire il vero viaggio, che è in fondo quello dentro noi stessi. Una sorta di diario di bordo che può aiutarci ad ampliare i nostri orizzonti, in un percorso a tappe, come è in fondo la vita di ognuno.

Ma sul tema del viaggio, questa volta di stampo onirico, non può mancare l’opera IQ84 di Haruki Murakami, vero e proprio capolavoro dello scrittore giapponese, che intreccia due universi paralleli, abbattendo le barriere fisiche tra la realtà e il sogno. Chi ci assicura che il mondo in cui viviamo è davvero quello reale? E se invece esistesse un luogo altro, in cui le leggi in cui crediamo vengono meno? Non resta che provare a viaggiare oltre la nostra quotidianità e vedere quello che si può scoprire.

 

Un momento di introspezione

introspezioneLa riflessione e l’introspezione in un momento di gravità pubblica e di estrema emergenza gioca una certa importanza, per questo abbiamo pensato di consigliarvi Lettere contro la Guerra di Tiziano Terzani, che a partire da un evento drammatico quale l’11 Settembre 2001, spinge a mettere da parte l’odio, il rancore verso il prossimo e a riflettere sul senso di umanità, sull’uomo e sulla necessità di un equilibrio con sé e con chi gli sta difronte. È inutile accanirsi gli uni contro gli altri, ci insegna Terzani, ma bisogna tentare di comprendere per poter ricostruire una società migliore, di pensare a cause e conseguenze, di aprirci verso il prossimo.

In alternativa, se faticate ad uscire dagli schemi e a cambiare le vostre abitudini in un momento in cui la necessità ve lo impone, non c’è lettura migliore che Per dieci minuti di Chiara Gamberale, un romanzo che spinge a sforzarsi a combattere le proprie rigidezze e a guardare il mondo con altri occhi, passo dopo passo. Provate anche voi a fare per soli dieci minuti alcune attività mai prima sperimentate e riuscirete forse a capire meglio il vostro io e a lasciarvi andare.

Infine, la ricerca delle proprie origini è un sentimento che nasce da un’esigenza di scoperta, legata alla propria identità e all’ esistenza. Una buona lettura a questo proposito può essere Un cappello pieno di ciliege di Oriana Fallaci, un romanzo in cui la scrittrice indaga le proprie radici, ricostruendo la storia e la vita dei suoi nonni e dei suoi antenati.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da unsplash.com]

 

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“L’arte di correre” di Murakami: memorie di uno scrittore-corridore

Haruki Murakami, pilastro della narrativa contemporanea, è stato di recente nuovamente in lizza per il Premio Nobel per la Letteratura. Famoso per una prosa che mescola realismo, gusto per l’assurdo, fantasia, fantascienza ed elementi magico-onirici, ha scritto circa una trentina di opere, tra cui romanzi (Dance Dance Dance, Norwegian wood, 1Q84), raccolte di racconti (I salici ciechi e la donna addormentata, Tutti i figli di Dio danzano) e saggi. Ha anche tradotto diversi autori (Capote, Salinger, Fitzgerald, per citarne alcuni). Nel 2007 ha pubblicato L’arte di correre (Einaudi), una raccolta di nove brani in cui riflette sul suo rapporto con la scrittura e la corsa, sua grande passione. Il libro – da lui annoverato nella categoria “memorie” – offre un ritratto dell’autore giapponese come persona, scrittore e corridore.

Murakami, umile e al contempo testardo e metodico, riconosce i suoi limiti e le sue imperfezioni, ma si impegna al massimo in tutto ciò che fa. La corsa e la scrittura, due attività che potrebbero sembrare molto distanti, hanno a suo avviso in comune tre fondamentali aspetti: richiedono impegno, dedizione e costanza.

Uno scrittore deve possedere un imprescindibile talento, ma anche saper perseverare e avere capacità di concentrazione e queste ultime due caratteristiche vanno esercitate quotidianamente – così come un maratoneta deve allenarsi giorno dopo giorno per migliorare il suo tempo e la sua resistenza.

Scordatevi lo stereotipo dello scrittore dalla vita sregolata: Murakami è sì un outsider, ma in modo diverso. Va a letto presto, si alza prima dell’alba e scrive per qualche ora; fa poca vita sociale, prediligendo l’«invisibile relazione ‘concettuale’» con i suoi lettori. Ma soprattutto, egli corre regolarmente dall’82, partecipando ogni anno ad almeno una maratona – nel libro racconta per esempio del suo allenamento per la maratona newyorkese.

La corsa gli permette di mantenere uno stile di vita sano, secondo lui indispensabile, poiché ciò che fa lo scrittore è qualcosa di malsano. «Quando decidiamo di scrivere un libro […] portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano» afferma il romanziere. Quell’ingrediente nocivo è indispensabile affinché si verifichi un autentico atto creativo, ma è anche pericoloso, e Murakami desidera scrivere a lungo e proficuamente, creando storie sempre più potenti. L’energia per fare questo la ritrova nel rafforzamento del suo fisico, perché la letteratura rappresenta per lui «una forza vitale che tende naturalmente in avanti» e comporta enorme fatica. Scrivere equivale a scalare vette ripidissime, combattendo duramente finché non si giunge in cima, dove si saprà se si ha vinto o perso contro se stessi – questo pensa Murakami quando scrive, scavando nei meandri di se stesso alla ricerca dell’ispirazione. Lo stesso gli accade quando corre: sente «uno stimolo interiore silenzioso e preciso» e l’unico avversario può essere solo il «se stesso del giorno prima».

Murakami è diventato narratore relativamente tardi, a trent’anni. Ricorda il momento preciso in cui ha sentito di voler scrivere: in una bella giornata primaverile del ‘78, sdraiato sull’erba a godersi una birra e una partita di baseball, ha sentito d’un tratto il forte desiderio di buttare giù un romanzo.

«In quel momento dal cielo scese in silenzio qualcosa, e io lo presi» racconta. All’epoca egli gestiva un bar: rincasava tardi la notte e scriveva finché non gli veniva sonno. In queste condizioni scrisse i suoi primi due romanzi: Ascolta la canzone del vento e Il flipper del 1973. Ma creare in quel modo era dura, così fece un salto nel buio: chiuse il bar dedicandosi solamente alla scrittura per un po’, per vedere se avrebbe ottenuto dei risultati. Così produsse il suo terzo lavoro, Nel segno della pecora, diventando uno scrittore professionista apprezzato in tutto il mondo.

Come si dice, il resto è storia.

Proprio in quel periodo Murakami iniziò a correre: fumava troppe sigarette, conduceva una vita sedentaria, tendeva ad ingrassare e capì che di quel passo non sarebbe durato molto – urgeva un cambio di rotta. La corsa gli parve subito l’attività sportiva più congeniale alla sua natura bisognosa di solitudine e silenzio. «Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O […] è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello» dice. A volte affiorano alla sua mente idee per un nuovo libro. Certo è, per lui, che senza la corsa le sue opere sarebbero state diverse – anche se non sa dire in che modo.

Murakami non si definisce uno scrittore straordinario, né pensa che la sua vita sia eccezionale; ciò che gli importa è poter sempre fare le cose a modo suo. Alla fine de L’arte di correre, c’è un suo umile proponimento: continuare a partecipare alle maratone finché non sarà soddisfatto di sé, anche se sarà anziano e malridotto e al di là del tempo o della posizione in graduatoria che otterrà durante la gara. Sulla sua tomba, desidererebbe il seguente epitaffio:

«Murakami Haruki
Scrittore (e maratoneta)
1949-20**
Se non altro, fino alla fine non ha camminato».

Perché, nelle maratone, si corre – ed è così che lui avanza, senza clamore, sfidando se stesso, mettendocela tutta.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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L’aria scolpita_Un pensiero di architettura

“- Potendo, passerei tutto il tempo a riflettere, riflettere, riflettere. Vorrei seguire liberamente i miei pensieri. Ecco cosa vorrei fare. Ma il puro ragionamento, forse è qualcosa che serve soltanto a costruire il vuoto, non trovi?
– Al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto.”

[ dialogo tratto dal libro L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki ]
Non c’è nulla di più difficile da precisare del vuoto, nulla di più ambiguo da rappresentare dell’immateriale, nulla di più utopico da materializzare di un’assenza. A meno che, quella che sembra essere un’immateriale assenza, sia in realtà, materiale presenza.
Il vuoto, contenuto e definito dalla materia costruita, si presenta come un’assenza perché manca di quell’oggettualità che è propria della forma che viene associata all’esperienza dell’architettura. Pensare al vuoto nei termini dell’assenza, ci porta inesorabilmente verso un’unica direzione dove il vuoto viene ridotto ad una mancanza, ad una conseguenza, ad un risultato.
La direzione che potremmo prendere sarebbe diversa se ci trovassimo nel Jardin des Tuileries a Parigi, tra due lame di acciaio corten conficcate nel terreno; modellate, alte e vicine a tal punto da costringere l’occhio a rimbalzare da una all’altra, da spingerlo a scorrere lungo la sinuosità delle loro curve fino a prendere il volo verso l’unica porzione del mondo visibile, il cielo. Percorrendo questo vuoto ne sentiremmo la presenza. La pesantezza della materia si dissolverebbe nella potenza dello spazio da essa generato, e tutto ciò che credevamo immateriale diventa materiale, tutto ciò che fisicamente si presentava come un’assenza arriva ai nostri sensi come una presenza. Il vuoto diventa aria scolpita.
Passo dopo passo, respiro dopo respiro, quel vuoto che stiamo attraversando si fa denso e presente, caricandosi di tensioni e vibrazioni a tal punto da diventare ai nostri occhi la sola e vera materia plasmata dallo scultore: è come se Richard Serra avesse costruito quel vuoto tra le lame prima ancora delle lame stesse.
Percorro quel vuoto compresso, sento la compressione, sento la spinta delle due pareti che mi schiacciano e mi spingono avanti e in alto fino a svelare al mio sguardo ciò che prima era negato. Sento la vibrazione tra le due lame ruvide, brunite, dove la luce si increspa e le ombre si liberano; quella vibrazione che il vuoto accoglie facendo da cassa di risonanza ad una melodia che solo io posso sentire.
Lo sento sulla pelle quel vuoto, e lo sento dentro.

2_INSTALLAZIONE - Richard Serra
Costruire il vuoto significa costruire percezioni. Costruire percezioni significa costruire esperienze. E quando questo accade, i vuoti fisici diventano luoghi mentali, scrigni dove custodiamo le esperienze più profonde e dove nascono i pensieri più preziosi e liberi.
Pensare e costruire il vuoto significa dare forma ad uno spazio che riesca ad entrarci dentro con una forza tale da elevarsi a luogo mentale divenendo il terreno fertile dove coltivare la nostra anima. Perché il vuoto è l’unica condizione fisica e mentale dove tutto è libero, dove tutto accade, dove tutto cambia: “il luogo dove il pensiero può generare parole nuove” 1.
Il mio amore per l’architettura nasce dalla convinzione che essa abbia il potere di fare tutto questo.
Non c’è nulla di più entusiasmante che dare forma ai propri pensieri e alle proprie fantasie progettando qualcosa che le possa contenere: l’architettura.
Se l’architettura trova la sua consistenza e la sua staticità nella forma, essa prende vita nel vuoto che questa forma contiene. Il vuoto immaginato e costruito diventa uno spazio carico, la cui immaterialità si concretizza nelle tensioni, nelle vibrazioni e nelle relazioni che si creano al suo interno.
Il vuoto contenuto dalla materia si fa contenitore di vita: il vuoto si fa presenza. Una presenza che viene percepita in relazione al fluire del tempo accompagnato al fluire del movimento, dello sguardo, del pensiero. Una presenza che viene sentita, misurata, distillata.
L’architettura è vuoto e pieno che si generano l’un l’altro, è contemporaneamente lo spazio e il volume che lo contiene, la distanza tra le cose e le cose stesse. E’ contemporaneamente spazio e tempo, un’unità che il concetto giapponese del ma pone a principio di tutte le cose.
A me piace pensare che l’architettura sia questa unità, e per questo debba sempre incondizionatamente porsi il nobile obiettivo di tendere ad essa.
In Giappone tutte le cose dipendono sempre dal ma. L’arte del combattimento, l’architettura, la musica, l’arte stessa di vivere, l’estetica, il senso delle proporzioni, la disposizione delle piante in un giardino dipendono sempre da un insieme di significati collegati tra loro e risultanti dal ma (…) Dietro ogni cosa esiste il ma, lo spazio indefinibile che è come l’accordo musicale di ogni cosa, l’intervallo giusto e la sua migliore risonanza2.
Se il ma viene definito in termini spaziali come la distanza naturale tra due o più cose che si trovano in continuità, e in termini temporali come la pausa naturale, l’intervallo tra due o più fenomeni che si succedono in continuità, mi è inevitabile pensare alla contaminazione a cui l’architettura e la musica sono soggette nel loro processo espressivo, dal momento che modellano la stessa materia: il vuoto e il pieno la prima, il silenzio e il suono la seconda.
Ho sempre pensato che la contaminazione di queste due discipline potesse dare origine a qualcosa di puro e mistico, e che nessuno meglio di Kengo Kuma potesse raggiungerlo. L’architetto giapponese, nel suo Padiglione del Tè, spingendosi oltre i confini dell’architettura e facendo propri gli strumenti della musica, celebra la sublime unione tra queste due arti in quello che Rothko definisce lo spazio del silenzio: “Lo spazio del silenzio è luogo del pensiero. Lo spazio del silenzio è luogo dell’emozione”.
Se il vuoto in musica è l’intervallo tra due note, il silenzio necessario alla loro esistenza; il vuoto in architettura è la distanza tra due elementi, lo spazio necessario affinchè ogni singola forma viva del proprio respiro e dell’eco dell’altra, il luogo sacro dove ascoltare il nostro respiro e l’eco dei nostri pensieri.
Sì, “al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto”, perché scolpendo il vuoto scolpiamo tutto ciò che al suo interno prende vita: scolpiamo i suoni e i silenzi che lo attraversano, le emozioni che lo investono, le relazioni che lo abitano, i pensieri che lo contemplano.
E’ l’esperienza del vuoto che fa di esso una presenza. Ed è nella costruzione di quel vuoto che l’architettura si fa poesia.
1 Parafrasando Adolf Loos in Il vuoto, riflessioni sullo spazio in architettura, di Fernando Espuelas
2 Michael Random, Giappone, la strategia dell’invisibile

Lisa De Chirico

www.lisadechirico.it

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Maturità artistica presso il Liceo Artistico Statale di Treviso e laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia. In ambito lavorativo mi occupo di progettazione architettonica e grafica, interior design e architettura del paesaggio. La mia trasversale passione per il mondo della creatività nelle sue diverse forme, dall’arte all’architettura, dalla scrittura alla fotografia, risponde ad una necessità di espressione che attinge ai diversi strumenti che questa dimensione mi offre. Un segno tracciato su un foglio, il progetto di uno spazio, l’illustrazione di un concetto, un frammento di realtà rubato da uno scatto, sono l’espressione di una ricerca continua che trova nella filosofia, nella letteratura e nella musica il suo punto di partenza.

Ogni mia espressione è una condensazione di ciò che sono, di ciò che vivo e immagino; dove ciò che viene definito arte, architettura, fotografia e scrittura, perde i propri limiti e si mescola.

[Immagine copertina: Padiglione del tè di Kengo Kuma; Immagine articolo: Installazione di Richard Serra]