Hegel: istruzioni per la lettura

“La filosofia: ma che senso ha la filosofia? Quale servigio rende all’umanità? Sull’arte non ci sono dubbi. Ma dalla filosofia, quella puramente teoretica – la dialettica hegeliana o il criticismo kantiano – che insegnamento dovrei trarne nell’atto di studiarli?”.
Questa “quasi-citazione” proviene da un vecchio post di Facebook di un mio amico e seppur è stata pubblicata molto tempo addietro mi è sempre rimasta impressa con una certa insistenza. Ora, la serie di domande che vengono poste rappresentano un classico della filosofia ed esse possono essere rivolte a qualsiasi sua opera “puramente teoretica”. Oggi, però, vorrei sfruttarle in un altro modo, usandole per introdurvi un’opera in particolare, una delle più difficili ma al tempo stesso delle più affascinanti. Sto parlando della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. I quesiti precedenti possono, infatti, fungere da spunto per spiegare brevemente in che cosa consista il cuore di questo lavoro filosofico – anche se è chiaro che è impossibile esaurirne lo spessore intellettuale in così poche battute. Vi parlerò, allora, della Fenomenologia attraverso queste domande, cercando di mostrarne l’attualità e al contempo l’utilità per l’uomo che la legge con spirito attento.

A cosa serve e che insegnamento può darci un’opera così intrinsecamente teoretica? La domanda è alquanto paradossale e forse Hegel si arrabbierebbe pure se gliela facessimo, dal momento che il suo vero e unico soggetto è la coscienza propria di ognuno, tanto come singoli individui quanto come parte di un popolo. Per l’autore, a dover intraprendere il faticoso cammino in essa descritto, è quindi sia il singolo uomo, ovvero ognuno di noi, sia l’umanità in generale e quindi l’insieme delle coscienze umane che costituisce questo noi (a cui Hegel si riferisce come “Spirito del mondo”).

Nella Fenomenologia si svolge la storia delle diverse manifestazioni della coscienza, le cui tappe fondamentali sono ad esempio la certezza sensibile, la percezione, l’autocoscienza e la ragione. Attraverso tutti questi momenti viene messo in luce il processo tramite cui questa coscienza prede concretamente consapevolezza di sé, perché ogni tappa è un passo più in profondità verso la conoscenza di se stessi. Quest’opera, quindi, articola la totalità dell’esperienza della coscienza in modo tale che essa possa elevarsi allo spirito, ovvero alla coscienza consapevole. Secondo una famosa definizione, la Fenomenologia è la storia romanzata della coscienza; essa è un romanzo di formazione, in cui l’individuo viene accompagnato al suo vero essere. Ma perché l’uomo raggiunga questa consapevolezza, deve compiere un lungo percorso, una scala da salire gradino dopo gradino senza farsi prendere dalla fretta di arrivare in fondo.

Se ora possono essere più chiari il soggetto e l’intento di quest’opera, resta però da capire come l’uomo possa giungere alla sua consapevolezza interiore. Si tratta, cioè, di comprendere come avviene concretamente l’esperienza della coscienza.

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiava della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione»1.

In generale, ciò che caratterizza il divenire nella Fenomenologia dello spirito è il fatto che il conoscersi della coscienza sia un divenire altro da sé. La coscienza, infatti, è movimento e coincide con un atto di riflessione, attraverso cui essa esce da sé, facendosi oggetto, per poi ritornare in se stessa. Ciò vuol dire che per poter ottenere la piena presa di coscienza su di sé, l’uomo deve alienarsi nel mondo esterno. Un esempio di questo movimento ci è offerto dal lavoro. Il singolo uomo produce un oggetto esterno, in cui è rappresentata la sua interiorità e in cui si riconosce come produttore di quello stesso oggetto. L’uomo si è quindi esteriorizzato nel suo oggetto; ma così facendo riesce al tempo stesso a conoscersi più in profondità, a scavare più a fondo dentro di sé. Una formula efficace che può riassume il movimento appena descritto è la seguente: giungere a sé diventando altro da sé, ovvero farsi oggetto di se stesso esteriorizzandosi, senza però venir meno, senza però perdersi.

È chiaro allora che quello in atto nella Fenomenologia è un processo negativo. Invero, «in questo itinerario tale coscienza perde la sua verità. Può quindi essere considerato come la via del dubbio, o più propriamente, la via della disperazione»2. La presa di coscienza su noi stessi non è in alcun modo un cammino felice e spensierato, ma, al contrario, è caratterizzato da scissioni continue, da dubbi ostinati ed è carico di disperazione, perché la nostra coscienza deve continuamente mettere sotto esame la verità che crede di possedere.

È ormai ora di chiudere il cerchio e rispondere in modo secco alle domande sopra poste: quale servigio ci può quindi rendere leggere la Fenomenologia? Non c’è dubbio che essa possa far venir il mal di mare per la sua complessità e tortuosità, ma nella sua ossatura è un brillante romanzo, scritto da un uomo per tutti coloro abbastanza coraggiosi da riuscire a guardare in faccia gli abissi del proprio io, senza indietreggiare dalla paura. La Fenomenologia insegna e parla a quegli uomini desiderosi di procedere più in profondità alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo.

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. G.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, ed. italiana di Enrico De Negri, 1807, p. 26.

2. Ivi, pp. 69-70.

[Photo credit Simon Migaj]

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“La Ripetizione” di Kierkegaard: un esperimento psicologico

Le sabbie mobili del tempo, come un vortice perenne che costringe il presente a rivolgersi al passato, continuano a divorare se stesse, nel ricordo. Questa è la dimensione di quest’ultimo: è sempre la stessa proiezione in cui l’adesso, l’ora, viene incatenato a ciò che è stato, al prima. Il rimpianto che ci lega al ricordo (luminoso o oscuro che sia) è per lui imprescindibile: è la sua anima gemella, perché entrambi vivono in questo sistema, un circolo vizioso che si nutre di passività.

C’è però un movimento, apparentemente identico, che invece può offrirci qualcosa di ben diverso: Kierkegaard l’ha chiamato Gjentagelsen, ovvero ripetizione.

«Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo, infatti, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici»1.

Gjentagelsen è quel costante rinnovamento della vita: il suo momento più peculiare ha luogo quando il vecchio si rivela nel nuovo, quando il movimento stesso si rivela in avanti, e non permane confinato al passato.

È proprio attraverso la ripresa che la libertà dell’individuo spinge se stessa dal piano del non essere (ovvero da ciò che non c’è più) a quello dell’essere, dalla non verità alla verità: di accedere cioè alla dimensione della trascendenza, che per Kierkegaard avviene attraverso la sfera religiosa. Solo quest’ultima rende possibile la rinascita dell’uomo, giunto a confrontarsi con l’impossibilità di realizzare la ripresa sul piano del finito.

Ma andiamo con ordine: siamo nel 1843 e Kierkegaard, con lo pseudonimo di Costantin Costantius (maschera che il filosofo indosserà molte altre volte, devoto com’era alla pseudonimia) pubblica l’opera La ripetizione. Lui vuole sottolineare che se il ricordo comporta un sentimento votato irrimediabilmente al rimpianto, vivendo nella sola dimensione del passato, la ripetizione, invece, vive il presente in vista del futuro, come un’onda che riversandosi nel bacino d’acqua da cui ha ricavato forza e vita, cavalca se stessa in vista dell’orizzonte.

«Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso. […]. Il vecchio non annoia mai, e la presenza sua rende felici, e felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità, perché allora verrebbe a noia. C’è bisogno di giovinezza per sperare, di giovinezza per ricordare, ma c’è bisogno di coraggio per volere la ripetizione»2.

Se il ricordo ripete il suo movimento all’indietro, la ripetizione ricorda il suo oggetto in avanti. Nella ripetizione c’è l’irrompere di un nuovo che spezza il piano immanente del ricordo, per aprire al passato una dimensione altra che si traduce nella continuità della vita. Nel ricordo, il passato è privo di consistenza in quanto risulta slegato dal flusso vibrante dell’esistenza che è, invece, fulcro e seme di coraggio, scelta e dunque scommessa: a tal «riguardo l’indagine greca sul concetto di κινεσις [kinesis], il quale corrisponde alla categoria moderna di ‘passaggio’, e da tenere in gran conto»3, ricorda Kierkegaard.

Quando si dice che la vita è una Gjentagelsen si intende affermare che l’esistenza, così com’è esistita, viene a esistere ora, dà sfoggio di tutta la sua pienezza adesso.

«La dialettica della ripetizione è semplice: ciò che infatti è ripetuto è stato, altrimenti non potrebbe venire ripetuto; ma proprio il fatto che ciò è stato determina la novità della ripetizione. […] Dicendo che la vita è una ripetizione, si dice: “L’esistenza passata viene a esistere ora”. Senza la categoria di reminescenza o di ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente. Reminescenza è la visione pagana della vita, ripetizione la moderna […]»4.

Molto probabilmente, non a caso, la regia di Kierkegaard ha stabilito che il co-protagonista, insieme a Costantius, de La ripetizione, sia un giovane innamorato. Colto dal desiderio d’amore verso una giovane ragazza, egli è condannato a soffrire nel vivere la morte del suo amore prima ancora di averlo vissuto. Il sentimento infelice che lo lega all’amata non ha alcuna aderenza alla realtà perché, di fatto, la fanciulla non era la sua amata, (ma) […] «l’occasione che risvegliava il suo fondo poetico e faceva di lui un poeta. […] Era penetrata in tutto il suo essere, avrebbe vissuto in eterno nella sua memoria»5. Questo giovane frusta se stesso per un difetto d’astrazione, una continua idealizzazione. Lui persevera a poetare il reale che, anziché essere vissuto, precipita nell’abisso dell’inconsistenza perché il poeta incaglia nel ricordo, dal momento che l’errore, l’equivoco di fondo proprio del poeta risiede nel porsi alla fine del proprio “salto” (tra passato e presente), nonostante lui non l’abbia ancora compiuto, intrappolato com’è nel ricordare ciò che non è più.

La prima parte dell’opera, redatta da Kierkegaard a Berlino, presenta come filo conduttore della narrazione l’intimo legame filantropico che viene ad instaurarsi tra Constantius, autore del testo, e questo giovane ragazzo.

La fanciulla apparentemente desiderata, di cui il giovane era innamorato, rappresentava semplicemente l’occasione che risvegliava la sua ars poetica, rendendolo così compositore. Il suo amarla, il suo poterla amare, risiedeva nel solo desiderio di doverla rimpiangere. Nel giovane prende piede, però, un senso di colpa, in quanto percepisce chiaramente che più il tempo scorrerà inesorabile e più la renderà infelice. Tuttavia non vede, in sé, alcun torto. Constantin lo esorta “ad osare l’estremo”, ad ingannare la ragazza con delicatezza. Il giovane dovrà, cioè, lasciare gradualmente scemare l’interesse nei suoi confronti, palesando anzi un certo fastidio per i suoi riguardi. Constantin intanto provvederà a far girare la voce che attribuirà al ragazzo la fama di fedifrago. Tuttavia, c’è un problema sul quale, a detta di Constantin, il giovane si è bloccato quasi a un passo dal risolverlo, o quanto meno dal tentativo di sperimentarlo:

«[…] Il problema su cui si e bloccato è, né più né meno, la ripetizione. Non cerca lumi nella filosofia greca, né tampoco nella moderna, e giustamente […]. Per fortuna non cerca spiegazioni da me, che io ho mollato la mia teoria, e vado alla deriva. La ripetizione è troppo trascendente anche per me»6.

Quello del giovane appare sempre più come un tentativo orientato al fallimento e dunque ad un lacerante dolersi. Il ragazzo così, deciderà di troncare il rapporto epistolare con Constantius. Quest’ultimo analizza con toni perentori l’evoluzione nel comportamento del giovane innamorato:

«Già da una prima scorsa alla lettera mi risultò chiaro che la sua storia d’amore aveva lasciato un’impronta assai più profonda di quanto avessi ipotizzato […] Era un giovane straordinariamente spirituale, ricco soprattutto di fantasia […]. Dall’altro lato il giovane era di natura assai malinconica […]. A catturarlo non è affatto il fascino della ragazza, bensì il rimorso d’averle fatto torto scompaginandole la vita»7.

Riguardo la lettera ultima che il giovane scrive a Costantius, il principio non lascia dubbio alcuno: “si è sposata”, facendo presagire la più cupa delle disperazioni. Egli informa il confidente di aver lasciato cadere il giornale da cui ha letto l’annuncio del fidanzamento, fulminato dalla notizia. Eppure, proprio questo dolore, alla fine di questa storia, diede vita al dispiegarsi di una Gjentagelsen realizzata compiutamente: “sono di nuovo me stesso”, scrive il giovane poeta. Perché? Perché questo essere ritornato a sé, e dunque in sé, costituisce per il giovane, ricostruendo e attualizzando il suo dolore, la sua Gjentagelsen.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE

1. S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, BUR, Milano 1996, pp. 11-12, tit. or. Gjentagelsen. Et Forsog i den experimenterende Psychologi, Copenaghen 1843.
2. Ivi, pp. 12-13.
3. Ivi, p. 35.
4. Ibidem.
5. Ivi, pp. 20-21.
6. Ivi, pp. 83-84.
7. Ivi, pp. 79- 81.

 

[Photo credit Daryan Shamkhali via Unsplash.com]

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Plotino e l’immortalità dell’anima

Quando parlava di sé, Plotino, un grande filosofo del III secolo d.C., era molto modesto: si definiva un semplice discepolo di Platone. Si presentava quindi agli altri come un pensatore non originale, che si limitava a riproporre teorie già formulate in passato. «Le nostre teorie» – egli scrive – «non sono nuove né di oggi, ma sono state pensate da molto tempo anche se non in maniera esplicita e i nostri ragionamenti sono l’inter­pre­ta­zio­ne di quelli antichi, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone». Sant’Agostino stesso affermerà che Plotino è un «Platone tornato nuovamente in vita» (Contra Academicos, III, § 18). Tuttavia, come scrive Francesco Chiossone, gli studiosi di Plotino sanno bene che egli «fu molto più che un emulatore»; il filosofo greco, infatti, «seppe concepire un sistema speculativo mirabile per coerenza e profondità, ristabilendo il primato della metafisica e contribuendo così in maniera decisiva alla rinascita del Platonismo».

Per avere un piccolo assaggio della capacità di Plotino di trasmettere e rielaborare la grande tradizione filosofica che lo precede, è possibile leggere il suo trattato su L’immortalità dell’anima, recentemente pubblicato dall’editore Il melangolo. Il testo è un breve estratto delle Enneadi e lo scopo delle sue pagine, come si evince chiaramente dal titolo, è quello di «dimostrare l’immortalità dell’anima deducendola dalla sua incorporeità». La potenza concettuale che Plotino esibisce è indubbia; si tenga tra l’altro presente che «il repertorio di argomenti di cui si serve qui Plotino continuerà a essere utilizzato da filosofi e teologi dei secoli futuri».

Ma quali sono esattamente le prove che Plotino adduce in favore della tesi dell’immortalità del­l’anima? Innanzitutto egli esclude che l’anima sia un corpo o un aggregato di corpi. «La vita appartiene necessariamente all’anima», nota infatti Plotino; «ora, quale potrebbe essere un corpo di per sé dotato di vita? Il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra sono di per sé inanimati», e «non esistono altri corpi oltre a questi. […] Ma se nessuno di essi possiede la vita, è assurdo dire che la loro unione crea la vita», così come è assurdo identificare l’anima a uno di essi. Se è impossibile che «un ammasso di corpi generi la vita», «ancora più impossibile», per Plotino, è che «cose senza intelligenza diano origine all’intelligenza». In sintesi: «il corpo non genererà mai l’anima».

Non essendo un elemento, un corpo o un aggregato di elementi o di corpi, l’anima è necessariamente semplice, incorporea, immateriale: «quest’essere», scrive Plotino, «non ha a che fare né con la quantità né con la massa, e la sua essenza è di tutt’altra natura». Ma questo implica che l’anima non possa essere annientata in alcun modo. Spiega infatti Plotino: «tutto ciò che, venendo all’esistenza, implica una composizione, si dissolve poi naturalmente negli elementi di cui è composto; ma l’a­ni­ma non finirà così, perché è una, semplice, e la sua natura consiste nel vivere in atto. Forse potrebbe morire se fosse divisa e frantumata, ma, come si è già dimostrato, l’anima non è una massa né una quantità. Potrebbe allora andare distrutta se subisse una qualche alterazione; l’alterazione, però, quando è causa di distruzione, sopprime la forma ma lascia intatta la materia e questo accade solo a un essere composto. Se dunque l’a­ni­ma non può essere intaccata in nessuno di questi modi, sarà necessariamente incorruttibile».

Plotino fornisce anche altre prove dell’immortalità dell’anima. Una di esse è basata sul principio per cui “il simile conosce il simile”. L’anima – argomenta Plotino – non conosce solo cose finite, materiali e divenienti: essa, col proprio pensiero, può concepire e contemplare anche gli «esseri celesti e […] quelli ultracelesti, cercando di ogni cosa l’essenza e risalendo fino al primo principio». L’anima, cioè, è in grado di oltrepassare col pensiero le cose temporali e di affacciarsi sulle realtà eterne. Questa sua capacità «fa sì che l’anima, partecipando di conoscenze eterne, sia anch’essa eterna». Infatti, – si chiede Plotino – come potrebbe ciò che è corporeo pensare l’incorporeo? Come potrebbe ciò che è mortale avere notizia di ciò che è eterno? Solo il simile può conoscere il simile; sicché, se l’anima conosce non solo cose caduche, ma anche cose atemporali, divine ed eterne, ciò accade perché evidentemente lei stessa è un che di divino e di eterno. «L’a­ni­ma coglie l’eterno con ciò che essa ha di eterno», scrive infatti Plotino.

Un’altra prova si sviluppa a partire dalla considerazione che l’anima è principio di vita, e dunque vita per essenza. Che l’anima sia principio (cioè causa e sorgente) di vita, e in particolare principio della vita dei corpi, è innegabile. Infatti, poiché gli elementi che compongono i corpi sono inanimati, lo saranno anche i corpi che tali elementi vanno a formare. L’animazione, la vita, il movimento e in generale ogni forma di “attività” provengono quindi da qualcosa che, pur “abitando” elementi e corpi, non è un elemento o un corpo. «L’anima», scrive Plotino, «è il principio del movimento, e fornisce il movimento alle altre cose, mentre lei si muove da sé; e inoltre dona la vita al corpo […], mentre lei la possiede da sé, e non la perde proprio perché la possiede da sé». L’anima non può morire appunto perché, essendo principio di vita, «non può certo ricevere il contrario di ciò che apporta», ovverosia la morte.

Se l’anima morisse, infatti, essa accoglierebbe in sé la morte, ne verrebbe invasa, e quindi la vita sarebbe morte, nel senso che la vita, che l’anima è, si identificherebbe alla morte, e quindi al proprio altro. Ma che qualcosa (in questo caso la vita, la non-morte) sia identico al proprio altro (la morte, la non-vita) è, anche per Plotino, un assurdo; anzi, la definizione stessa dell’impossibile, di ciò che non può aver luogo. Ne segue che l’anima, in quanto è principio di vita, è vita inestinguibile e immortale.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA

Plotino, L’immortalità dell’anima, trad. di F. Chiossone, Il melangolo, Genova 2017

[L’immagine è una rielaborazione digitale del quadro di W.A. Bouguereau, Psyche et l’Amour (1889) – immagini tratte da Google immagini]

 

 

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Samurai dello spazio: Jurij Gagarin davanti alla morte

<p>Immagine tratta da Google Immagini</p>

La storia di Jurij Gagarin mi ha sempre commosso nel profondo: iniziare da una realtà agreste, povera e semplice, e col proprio innato entusiasmo giungere ad essere il primo umano della storia ad orbitare attorno al nostro pianeta. E tutto solamente a ventisette anni. Non riesco a immaginare l’euforia folle di sentirsi imminenti cosmonauti, l’ansia estrema e l’inquietudine eterna di vivere solo per quel momento in cui galleggerai sopra la casa della vita; buttarsi a letto elettrizzati, nella notte, contemplando il soffitto, sentendosi destinati alla più toccante esaltazione umana e in cammino lungo la strada che porta oltre ogni orizzonte. Sarebbe come sapere che si sta per nascere, e poterne assaporare ogni istante.

Ma il futuro è sempre incerto, i calcoli prettamente umani, questo paradiso si trova solo a un passo dal fallimento, e quella gloria indicibile diviene all’improvviso la più esigente delle ambizioni. Essa richiede il servigio estremo del conquistatore, e la dea non si mostra se non si è disposti a morire per lei. Il cosmonauta è costretto ad accettare. Si allena e si esercita per far eccellere le proprie prestazioni, studia come un disperato per prevenire qualsiasi situazione, passano i giorni e si avvicina la data del lancio, e il cosmonauta si è in realtà preparato all’eventualità della morte. Col tempo ha scoperto in essa la più magnifica delle mete, e quando passeggia sulla passerella fende l’aria coi pugni stretti come per scaricare l’adrenalina; è entusiasta e onorato di poter verificare la sua fede assurda di potercela fare, e semplicemente non vede l’ora di arrivare là dove nessuno ha mai messo piede.
Ma Gagarin si consumò velocemente e la sua vita s’interruppe con bruschezza solo qualche anno più tardi. Cos’era successo all’intrepido umano dalle ambizioni smisurate? Incidente, fatalità, ma sappiamo che muor giovane colui ch’è caro al cielo, come diceva Menandro, ed è lecito credere che a Gagarin sia toccata la stessa tragica sorte. Gli dei invidiosi, gli dei gelosi, le forze cosmiche troppo potenti e assolute per poter avere anche solo un nome; è a causa degli enti eterni che l’umanità teme la propria limitata corporeità e si prostra fedelissima, perché se non ci ammazzano per sadismo come dittatori paranoici, ci condannano a un servilismo inconcepibile che mortifica la nostra libertà. Nessuno vuole essere l’eletto di Dio, forse neanche Abramo lo voleva davvero. Ma come Gagarin altri innumerevoli grandi spiriti si sono affrettati a compiere il loro destino, hanno percorso la loro strada correndo a perdifiato verso la meta luminosa, ribellandosi agli dei imperativi, e da lì si sono voltati a contemplare il resto del mondo che da lontano arrancava, stremato, mutilato, cencioso come un cane randagio, stupito nel vedere delle anime sfuggire alla sua famelica avidità. “Uccidimi pure, Dio”, dicevano beffardi oltre il traguardo, “Uccidimi pure, che tanto ti ho già dimostrato che sono più grande di te”.

E a noi semplici umani, che destino ci spetta? Uno sciame di sogni ci vortica attorno alla testa e spesso ci abbandoniamo al suo ronzio per voluttuosità e pigrizia. Qualche volta capita che afferriamo uno di questi ideali, di questi angeli, lo prendiamo in ostaggio e lo costringiamo a dirci tutto quel che sa sul conto di Dio; poi lo lasciamo tornare a volteggiare coi suoi compagni e ci riteniamo scioccamente soddisfatti delle informazioni ricavate. Ma è un’ingenuità!, un’illusione!, perché dovremmo invece catturarne subito un altro per verificare la congruenza delle due testimonianze. Quando abbiamo realizzato un movimento dobbiamo poi compierne un altro, come i passi delle gambe, e da lì proseguire in una lunga sequela di movimenti che ci tenga mobili e vivi; fermarsi vuol dire fissarsi su un punto morto, ancorarsi ad esso, e poi accasciarsi a terra quando cedono le ossa stanche e sbrindellate dal tempo. Uno dei nostri errori più comuni è quello di credere che la tappa sia la meta, e piuttosto di guardare oltre il colle per vedere se la strada si snoda per altre distanze, ci inventiamo il mito delle colonne d’Eracle o dei guardiani infernali per non proseguire. Ma la vita come tale non deve incontrare finalità, non deve essere risolta in un’unica azione, ma deve invece ricominciare sempre da capo, eterna, ossessiva, inconcludente, per non esaurirsi prima del tempo. Le anime ferme sono come messaggi mai letti imbottigliati in cadaveri ambulanti, e quelle che corrono sono fiere di andarsene da un mondo che dà loro molto poco. Noi a metà strada dovremmo solamente incamminarci canticchiando, e spingerci fin dove possiamo arrivare in attesa della nostra occasione.

Chi ha buon senso si accontenta dei pochi metri che fa in un paio di passi, e da ciò cerca di ricavarne la miglior soddisfazione. Viaggia, parla, interagisce, ma sempre consapevole dei suoi limiti e in pace con essi. Ma se si parla di spiriti folli, tragici, caotici, troviamo ribelli che dedicano la propria vita alla lotta costante contro se stessi, all’annientamento radicale dell’Io e della propria volontà. Parliamo di spiriti che di fronte all’aut-aut tra la vita e la morte scelgono la seconda per glorificare la magniloquenza della prima, così come farebbe un autentico samurai. Il guerriero giapponese difatti s’impratichisce per affrontare la morte e in nome di essa s’immola per trovare un senso onorevole alla sua esistenza; sa che lì, nella tomba, c’è il compimento estremo di quel che un’anima fu. La fine di ogni fine, la parola ultima, l’atto creativo terminale; in questo essi erano onorati, e in questo consisteva la summa del Bushido. Gagarin lo seguiva, il Bushido, Gagarin padroneggiava la Via seppur inconsciamente. Gagarin era un autentico samurai dello spazio.

Leonardo Albano

Eleonora Nicoletti: la danza dell’architettura

 

L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere.

Le Corbusier

Le sue passioni sono la danza e l’architettura, che ha cercato di unire in un’unica forma d’arte: attraverso l’emozione che possono trasmettere i corpi in movimento, il suo obiettivo è dare vita ad un’architettura innovativa e non statica.

È  una giovane Donna di ventinove anni, italiana in quel di Londra, che ha saputo farsi strada grazie alle proprie capacità e alla propria determinazione.

Intervistiamo oggi, per La Chiave di Sophia, Eleonora Nicoletti.

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La danza come pensiero

La danza è pensiero.

Non è il pensiero standard che conosciamo tutti, è un pensiero ancora più ampio che va a coinvolgere ogni ambito della vita, perchè la danza permette di riflettere su se stessi, sul mondo e su quel rapporto che si instaura tra i due.

La danza è addirittura la capacità di tendere all’oltre, a ciò che supera la congiunzione tra uomo-mondo.

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