La notte dell’anima fra inquietudini e speranza

Conoscere l’uomo e dunque conoscere se stessi implica penetrare i meandri dell’anima, attraversare le salite impervie e le pendenti discese della propria intimità più profonda. Quante volte nel corso della nostra vita ci troviamo immersi nel flusso impetuoso di emozioni e pensieri che come una corrente carsica solca le pareti più profonde della nostra anima? Quante volte questo fluire di pensieri ed emozioni ci fa sprofondare nella notte oscura dell’anima? Un buio al quale, più o meno consapevolmente, ci conduciamo o siamo condotti da contingenze esterne. Da un lato, una condizione di spaesamento intellettuale, che può portarci a sperimentare il vuoto, il nulla dell’esistenza. Dall’altro, uno smarrimento emotivo, che può condurci ad una profonda sofferenza psicologica e spirituale, nei misteri oscuri della tristezza, dell’angoscia e della disperazione.

Accogliere queste pause dell’anima significa accettare la propria finitudine, la propria umana miseria, la propria infinita piccolezza. Convivere momentaneamente con l’inquietudine del pensiero e delle emozioni che spesso si avviluppano in una inspiegabile e angosciante morsa, tuttavia significa riconoscere che la nostra anima non è immobile, ma che essa è in divenire, che il dinamismo che la caratterizza non si è arrestato, ma sta attraversando le faticose paludi dell’esistenza. In questo senso è possibile riconoscere il travaglio dell’anima, la sofferenza psicologica e spirituale dentro la storia del singolo, espressione dell’umanità.

Conoscere se stessi richiede di prendere coscienza della notte oscura dell’anima, di quel vuoto spaesante e talora disturbante, che sembra difficile colmare. È questa la condizione esistenziale che hanno sperimentato i più grandi maestri del pensiero e dello spirito, che sarebbe onesto definire maestri di vita. Pensiamo alla profonda conoscenza dell’animo umano di Socrate, all’esercizio interiore di Seneca e Montaigne, alle inquietudini del cuore di Agostino d’Ippona, al travaglio interiore di Giovanni della Croce, allo strazio esistenziale di Pascal, Leopardi e Kierkegaard, al buio dell’anima conosciuto da Simone Weil e Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. Costoro hanno attraversato la notte oscura dell’anima, ne hanno sperimentato l’abisso e, più di qualsivoglia manuale di psicologia, possono testimoniare ancor oggi, attraverso i loro scritti sgorgati dalla sera della vita, il cammino tortuoso e sfavillante dell’anima alla ricerca di se stessa e del proprio senso.

Coloro i quali abbiano sperimentato le notti senza stelle dell’anima, si sono al contempo resi consapevoli che è proprio il vuoto, il nulla, la via verso il tutto, verso la pienezza. Solo la mancanza infatti induce l’incessante ricerca personale. Non a caso la parola desiderio (dal latino de-sidera) significa assenza delle stelle, brama d’infinito. L’uomo disposto a scendere nell’abisso della propria interiorità è l’uomo disponibile ad oscillare fra il nulla e il tutto, poiché consapevole che l’uno è foriero dell’altro. La contemplazione profonda non s’arresta dunque allo smarrimento interiore, ma riesce a scorgere, proprio nell’acme del travaglio, la luce della speranza che dà significato a pensieri ed emozioni trasfigurandoli positivamente. Cogliere anche solo i riflessi delle stelle nel torrente impetuoso dell’angoscia e della disperazione, implica la fiducia che le doglie del parto siano generatrici della vita e consente di intravedere che il dolore può essere fertile humus per ogni gesto creativo, per ogni atto d’amore e di vita. In questo senso, come non pensare all’inquietudine psicologica e spirituale di Vincent Van Gogh, dalla quale sono affiorate alcune fra le pennellate più intense, struggenti, appassionate e coinvolgenti della storia dell’arte. Come non ricordare la travagliata esistenza di Alda Merini, dalla cui sofferenza interiore sono sgorgate con slancio creativo poesie traboccanti di vita, amore e bellezza.

È questo l’approdo spirituale di ogni essere umano che vive secondo saggezza e che, avendo conosciuto il vuoto interiore e non smettendo di camminare per le praterie della propria anima, non si stacca dal mondo, ma ne prende attivamente parte per far sì che il suo viaggio interiore diventi generativo anche per tutto quanto è altro da lui. Per questo, è importante riconoscere il lavorio dell’anima anche quando calano le ombre della notte nella nostra esistenza, quando tutto sembra precipitare e perdersi in un abisso senza fondo. Quando ogni significato sembra svanire in un nichilismo distruttivo, è lì che possiamo cogliere espressioni veramente umane. L’inquietudine va dunque riconosciuta, accolta e rispettata in noi e in chi ci sta dinanzi come cifra dell’esistere, come punto di partenza ma non come approdo finale. Le trepidazioni dell’anima ci attraversano e ci trasformano positivamente se cogliamo in noi e negli altri barlumi di speranza che possono emergere anche nelle esistenze più disperate e angosciate. È importante spalancare le porte alla speranza che fa capolino proprio nelle notti oscure della vita. Essa è l’espressione della libertà ultima dello spirito, che conduce l’uomo a trascendere l’immediatezza del presente proiettandosi verso il futuro. Educhiamoci dunque ad ascoltare voci e silenzi dell’anima, a coglierne ombre e luci, a scorgere la speranza anche nelle lacrime, nel grido doloroso o talvolta strozzato dell’angoscia esistenziale che lacera l’interiorità. Educhiamoci a comprendere i moti profondi dell’anima che oscillano fra il dicibile e l’indicibile, fra il visibile e l’invisibile. Proprio accogliendo in noi e nell’altro questa tensione dialettica, fra ciò che può essere detto e l’inesprimibile, è possibile intravedere la speranza, che si riverbera luminosa come la luna sul mare della notte. Anche nelle tenebre dell’anima non cessiamo di coltivare in noi la speranza poiché, come affermava il filosofo tedesco Walter Benjamin: “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. La speranza è infatti garanzia di possibilità per lo spirito affinché si determini la libertà del singolo e la sua responsabilità, per il presente e per il futuro, nel tempo della vita e della storia.

Le inquietudini interiori sono la nudità dell’anima di fronte a noi stessi e all’altro, ma in questa fragilità di pensieri ed emozioni è custodita la vera forza umana. Invero, l’aver attraversato il travaglio della propria anima ci permette di avvicinare maggiormente il mondo interiore dell’altro, evitando di divenire monadi senza porte e finestre, immedesimandoci nella sua imperscrutabile essenza e nel suo vissuto con attenzione, sensibilità, rispetto e calore umano, aiutandolo a scorgere la speranza che, seppur leggera e impalpabile come la brezza estiva, è il motore che permette alla vita di non arrestarsi e di proseguire il proprio misterioso cammino.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo Credit: Hisu Lee via Unsplash.com]

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La parola “io”: patologia del nostro tempo

«La parola Io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno…»

Giorgio Gaber

Il culto dell’Io pervade il nostro tempo e le nostre esistenze. Se il XX è stato il secolo della psicoanalisi, il XXI è senza dubbio l’epoca che sta conducendo alle estreme conseguenze la psicologia dell’Io. Riportando l’attenzione sul singolo e sull’esplorazione del proprio inconscio, Freud e seguaci hanno senz’altro aperto un varco all’interno della conoscenza dell’uomo, della sua storia personale e dei propri meandri più remoti e celati, realizzando una vera e propria rivoluzione nel panorama culturale e sociale del Novecento. Il nostro tempo, tuttavia, sembra aver operato una vera e propria stortura rispetto alle iniziali scoperte della psicoanalisi. Se quest’ultima aveva ridestato l’attenzione dell’uomo verso il proprio interno affinché si rivolgesse poi rinnovato verso l’esterno, la società contemporanea, con le sue spinte culturali, economiche e politiche sembra celebrare quotidianamente l’Io e l’affermazione del suo potere come condizione esistenziale par excellence.

«La parola Io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l’ultimo peccato originale»1. Con queste parole Giorgio Gaber canta la crisi dell’uomo contemporaneo, la quale si fonda propriamente sull’esaltazione del narcisismo. L’atteggiamento che tende ad esaurire la personalità nell’esclusiva considerazione di se stessa, è proprio quanto la psicoanalisi aveva individuato come il denominatore comune delle malattie mentali. I messaggi sociali, culturali ed economici veicolati dai social media fanno apparire l’Io come la sola e vera realtà. L’unica, sulla quale le nostre vite si debbano fondare. Tuttavia, sono tragicamente sotto gli occhi di ciascuno le conseguenze di questa finzione chiamata Io. Suicidi, omicidi, femminicidi, infanticidi, criminalità organizzata, attacchi terroristici. In tutti questi casi a dominare è la parola Io. Essa invita ad agire seguendo il proprio interesse egoistico, il proprio godimento personale, senza tenere in alcuna considerazione la presenza e il rispetto per l’altro. A ragione, facendo parlare il narcisista, Gaber scrive: «son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante». Questo è lo specchio di una società seriamente malata, che ha abdicato la dimensione originaria della relazione in favore del narcisismo, che sfocia in egoismo.

Secondo l’epistemologia genetica di Piaget, l’egoismo è una fase dello sviluppo che dovrebbe terminare intorno al terzo, quarto anno d’età. In questo periodo il bambino riconosce di non essere solo al mondo e di dover partecipare alla Vita, condividendola con altri simili, confrontandosi con loro e riconoscendo che la propria libertà è limitata ma proprio per questo preziosa. Il tempo ipermoderno sembra aver disconosciuto questo centrale passaggio dello sviluppo socio-individuale. L’egoismo, che oggi non viene superato nella prima infanzia, si trascina fino all’età adulta e permea tragicamente i nostri comportamenti. Riferendosi a questo Gaber scriveva: «negli adulti, diventa più allarmante e cresce la parola Io». L’esaltazione, che il nostro tempo fa della parola Io, suggerisce un potere esibito dal singolo come espressione di forza. È proprio così che si afferma il dominio dell’uomo sull’altro uomo. È in questo modo che il potere diviene violenza, sopruso, abuso, annientamento. Possibilità senza vincoli. Libertà senza legge. Solo così, infatti, il narcisista può affermare se stesso e il proprio essere. Solo così può provare l’ebbrezza di essere il centro del mondo. Solo così può nutrire la falsa illusione di bastare a se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Salvo poi cadere in un profondo e sterile isolamento, prodromo della depressione, malattia dilagante nella nostra epoca.

È tempo di riconsiderare l’uomo come essere-in-relazione. La storia del pensiero, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Tommaso D’Aquino, da Montainge ad Hegel, ci ricorda come l’uomo è un essere che può vivere solo in relazione con l’altro da sé, in un legame intersoggettivo autentico, in cui si perde parte della propria libertà per ritrovarla, più ampia e completa, nel legame con l’altro, con gli altri. È dunque necessario prendere le distanze dalla pervasività della parola Io in favore del Noi. Far dominare il Noi al posto dell’Io, significa riaffermare l’Umanesimo del quale siamo figli2. Significa stabilire relazioni di qualità, basate su rispetto, attesa, ascolto e comprensione dell’altro. Significa abbandono di parte delle proprie pretese egoistiche, per unirsi all’altro. Affinché questa unione avvenga, come suggerisce lo psichiatra Andreoli, è necessario riconoscere la propria fragilità. A partire da questa presa di coscienza è possibile cercare l’altro, fragile anch’egli ed unirsi a lui, che al contempo ci cerca poiché a sua volta si è riconosciuto fragile.

Nel panorama contemporaneo sembra sempre più difficile abbandonare l’egoismo, accettare le ferite narcisistiche. La società nella quale viviamo prospetta infatti la felicità nell’Io, proprio laddove, come abbiamo mostrato, non può realizzarsi. Essa infatti può compiersi solo quando l’uomo trascende se stesso, in favore di qualcosa che non è se stesso, che sta fuori di sé, che sta oltre. Ecco perché il filosofo danese Kierkegaard ebbe a dire: «la porta della felicità si apre verso l’esterno, cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi».

Alessandro Tonon

NOTE:
1. La presente e le seguenti citazioni son tratte da G. Gaber, La parola Io, nell’album Io non mi sento italiano, 2003.
2. Su questi temi rimando alla mia intervista al professor Vittorino Andreoli.

 

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“Tomàs” siamo Noi. Incontro con Andrea Appetito

Tomàs è ogni persona che si imbatte in questo romanzo.
Invisibile, eppure onnipresente, la sua identità si dispiega grazie ai sette punti di vista che il racconto ci propone. Ciascuno si trasforma nell’artista del suo ritratto finale.
Sette personaggi e sette capitoli. Noi diventiamo l’ottava voce narrante di un racconto complesso, la cui tragicità mette a nudo la complessità dell’esistenza umana. Un’esistenza segnata da uno strappo, una perdita, un bisogno di riconoscimento e di amore.

È un romanzo travolgente quello scritto da Andrea Appetito e pubblicato con Effigie Edizioni. Tomàs ha incontrato la cittadinanza trevigiana venerdì 24 febbraio, presso la libreria Einaudi di Treviso.
Un pubblico caloroso, composto da ex studenti, colleghi, amici e non solo, ha accolto l’autore con una vera e propria festa di benvenuto. Una famiglia ritrovata. E in occasione di questa festa hanno partecipato i numerosi volti di Tomàs, volti disegnati dalla nostra interpretazione, dalle nostre storie di vita e dalle nostre emozioni.

Siamo immersi in un’anonima città sul mare, in cui Luka Stratos, visionario e autocrate ambizioso, vuole realizzare il suo progetto di dominio. Una politica di conquista, la sua, sorda rispetto ai bisogni, alle domande e ai desideri dei dominati. Un programma politico che si trasforma in una fede cui i più acconsentono, quasi inconsapevolmente. Quella che emerge è la stessa banalità del male di cui parla Hannah Arendt nel corso del processo a Eichmann. La stessa banalità che mette in crisi la nostra politica contemporanea.

Il bisogno di liberarsi da una struttura gerarchica subordinante è segnato da uno stile narrativo paratattico, interrotto, caratterizzato pertanto da preposizioni coordinate, sullo stesso piano.

Sullo sfondo, una profonda storia d’amore improvvisamente interrotta.

Leggere Tomàs significa infatti anche fare i conti con le contraddizioni di quell’amore che viviamo e di quell’amore che ricerchiamo.

Le storie d’amore che si intrecciano all’interno del romanzo sembrano essere segnate dall’impossibilità. L’impossibilità di sopravvive e l’impossibilità di un ritorno.

L’amore vissuto dai personaggi è patologico. Talvolta segnato dall’opportunismo. In ogni caso, costantemente vissuto nell’ombra. Il non-detto e l’assenza definiscono i legami della narrazione.

Ed è in ragione di questo non-detto che l’autore ci invita a riflettere. Perché c’è così tanta paura di dare voce al proprio pensiero? Che cosa risiede all’origine del nostro timore di esporci?

Certo, mettersi a nudo significa mettersi anche in gioco. L’esposizione diventa rischiosa nel momento esatto in cui ci opponiamo a un conformismo dominante. Il timore è quello dell’esclusione, dell’emarginazione sociale, del non-riconoscimento.

Come sosteneva Montaigne, infatti, la paura ci può tanto dare delle ali ai talloni, come inchiodarci i piedi al suolo, ostacolando l’espressione della nostra libertà.

Tomàs è anche questo. Un urlo di libertà. Un bisogno di dare liberamente forma alla propria identità ferita. La necessità di liberarsi da sovrastrutture. Una domanda di riconoscimento. Una domanda di riconoscimento che, talvolta, fatica ad avere una risposta.

Con questo libro, Andrea Appetito ci invita ad ascoltarci per ritrovare il Tomàs che ci portiamo dentro. Non un semplice romanzo, quindi. Queste pagine diventano un terreno fertile per l’ascolto, il dialogo e la riscoperta di sé.

Sara Roggi

[Immagine tratta da ilmessaggero.it]

LE MONT(AIGNE) BLANC

Nel suo Le massif du Mont Blanc l’architetto francese Viollet-le-Duc propose un progetto alquanto singolare: riportare il Monte Bianco alla sua grandiosità primordiale, vale a dire “ristrutturarlo”. Immaginate la vastità di un’opera simile: migliaia di operai impegnati tra i ghiacci a rimodellare la natura, a combattere il tempo ripristinando quello che i millenni hanno rimosso.

Il proposito di costruire una montagna, o anche solo di “aggiustarne” una, trova molti corrispettivi nella filosofia. Servono certamente molti meno operai nel caso delle costruzioni filosofiche, ma in quanto a complessità e ambizione (e aggiungiamoci anche fattibilità) molte di queste non hanno nulla da invidiare al progetto di Viollet-le-Duc.

Oggi, tuttavia, ci terremo distanti da ogni impresa pomposa, tanto dagli schemi che vogliono inquadrare il mondo quanto da quelli che lo vogliono determinare. Oggi non faremo della cucina un cantiere di opere immortali e men che meno sfideremo la fisica per raggiungere vette di panna inusitate. Oggi, ciononostante, faticheremo, sia fisicamente che mentalmente, perché una montagna ci attende comunque. Davanti a noi c’è la più impervia delle scalate, ma la meno appariscente. Quella che sale lungo il crinale di noi stessi.

Entriamo in cucina e «presentiamo noi a noi stessi, come argomento e soggetto» (Montaigne, Saggi, Libro II, VIII), perché noi stessi saremo la materia di questo dolce. Non affronteremo sistemi astratti, sillogismi astrusi, complesse guarnizioni o cotture ardite. Ci spetterà, con umiltà e onestà, senza affettazione né artificio, di indagarci.

Ci troveremo stanchi e soli, chini a spellare una catasta di castagne, e non ci sarà nessun metodo a guidarci. Allora dovremo armarci di pazienza ed essere pronti a tornare costantemente «al dubbio e all’incertezza e alla [nostra] forma dominante che è l’ignoranza» (Libro I, L). Ma soprattutto non dovremo preoccuparci di quanto maestoso e impeccabile sarà il risultato finale. Quelli che sforneremo dopo ore di dura fatica saranno piccoli promontori scomposti, non troppo belli, forse brutti, che rappresenteranno, però, sinceri innalzamenti verso la comprensione di noi stessi. Ogni tanto, all’ennesima castagna, subentrerà lo sconforto e ci capiterà di dire: «non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’indagine del mio giudizio» (Libro I, X), ma senza quel desiderio di investigarci, di entrare in colloquio con noi stessi, ci potrà capitare solo di perderci del tutto.

Se infine ci sembrerà, facendo tutto questo, di far tutt’altro che filosofia, se ci diremo che i grandi pensieri coinvolgono ben altri temi, che la filosofia è seria e precisa (e così la pasticceria), allora ricordatevi che la filosofia «si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno e terribile […] Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone. Essa non predica che festa e buon tempo. Una cera triste e sconsolata dimostra che la sua dimora non è qui» (Libro I, XXVI).

La gloria del bel dolce e il complimento per il virtuosismo oggi non fanno per noi. È l’impegno quotidiano – la lenta cura per la nostra virtù – il vero Mont Blanc che oggi cominciamo a cucinare scalare.

montaigne-blanc_aristorteleLE MONT(AIGNE) BLANC

Persone: tutti gli alpinisti interiori
Tempo di preparazione: prendetevelo un pomeriggio

Ingredienti

500 gr castagne o marroni
400 gr latte
80 gr zucchero semolato
3 gr sale
15 gr cacao
40 ml Rum o Whisky
500 gr panna fresca
violette candite e meringhette

PREPARAZIONE (lenta e faticosa)

La montagna che ci attende si costruisce a partire dalla più gran fatica, ma superata questa, ogni passo in salita sarà più semplice del precedente. Mettiamo le castagne lavate ed incise con un coltellino a bollire per circa 20 minuti. Una volta morbide, iniziamo a spellarle una a una, lasciando le altre nell’acqua calda in modo da non rendere la nostra impresa ancora più impervia. Se superiamo questo momento duro, poi possiamo rilassarci per circa 15 minuti: mettiamo le castagne spellate in un pentolino con il latte, lo zucchero e il sale. Lasciamo ammorbidire fino a che il composto non risulterà uniforme. Spostiamo in una boule e aggiungiamo il cacao setacciato e il liquore scelto. Mescoliamo con vigore e facciamo riposare la pasta di castagne in frigorifero coperta da una pellicola fino a che non si sarà raffreddata e rassodata.
Trascorso il tempo di riposo, riprendiamo il cammino alla scoperta di noi stessi: con uno schiacciapatate creiamo degli spaghetti di pasta di marroni e stendiamoli su un piatto. Quando pensiamo di averne fatti abbastanza, riponiamo di nuovo in frigorifero. Nel frattempo montiamo la panna (se vogliamo con 20 gr di zucchero) e con un sac-à-poche creiamo al centro del piattino scelto per il dolce una montagna innevata, alta tanto quanto pensiamo di meritarla. Possiamo anche sbriciolare delle meringhe sotto e sopra la nostra piccola vetta di panna, possiamo anche innalzare la nostra cima su una piccola base di frolla già cotta: ognuno è artefice del proprio destino. Fatto ciò, riprendiamo i nostri spaghetti e ricopriamo la montagna nel modo migliore: sarà sempre e comunque difficile e il risultato decisamente poco attraente. Decoriamo con un ciuffetto di panna e delle violette candite. Non ci facciamo i complimenti, ma affondiamo il cucchiaio nel nostro impegnativo sforzo di comprensione di noi stessi.

Aristortele

Il loro sito qui

All’essere speciale che mi ha fatto conoscere la vulnerabilità

Nonno mi ha fatto esplorare la vita, facendomi sentire speciale ogni giorno.

Nonno mi portava in panificio su un Ciao bianco e voleva che mi tenessi stretta ai suoi fianchi fragili affinché potessi sentirmi protetta, anche se ero io a volerlo proteggere da tutta quella sofferenza che l’avrebbe risucchiato e che stava logorando piano piano il suo fisico, le sue emozioni, così come stava spegnendo la sua voglia di prendersi cura dell’orto di casa e di giocare a carte, raccontarmi une storia e seguirmi da una piscina all’altra, ogni settimana.

Nonno mi ha fatto conoscere e toccare con mano il corpo sterile e freddo della morte, quel respiro sussurrato quando il cuore non ce la faceva davvero più, le mani gelide e giallognole, gli occhi incavati di una persona che, a suo malgrado, ha appeso l’armatura della vita al muro perché era diventato tutto troppo faticoso, troppo doloroso. Come i suoi respiri, quei respiri pesanti che talvolta diventavano sospiri senza più alcuna traccia di speranza, sospiri di non-desiderio, sospiri di un lasciatemi-andare.

È con nonno che ho imparato a conoscere la più profonda delicatezza del corpo umano, quella vulnerabilità che, come sostiene Habermas, costituisce “l’estrema fragilità della condizione umana”. Una fragilità che si descrive attraverso il corpo, ma che si inscrive al contempo nella dimensione più profonda del nostro essere-al-mondo.

La vulnerabilità incrementa in noi il timore rispetto a quei pericoli che potrebbero sconvolgere e mettere in pericolo le nostre vite. Pericoli imprevedibili, eppure così vicini. Talvolta silenziosi.

A tutto ciò è possibile tuttavia contrapporre il sublime, descritto bene dal filosofo Emmanuel Kant[1] come quell’esperienza che proviamo di fronte a degli avvenimenti naturali molto violenti ed intensi ad esempio, “frane, il frantumarsi delle pareti rocciose, la minaccia dei temporali, i vulcani in tutta la loro potenza devastatrice, gli uragani cui segue la desolazione, l’immenso oceano nel suo furore, le cascate di un fiume etc.”, in seguito ai quali dovremmo sentirci perduti, impauriti.

Al contrario, nella nostra piccolezza, fragilità e finitudine, siamo coscienti dell’esistenza di una realtà esperibile unicamente sul piano emotivo, in quanto rivolta ad una realtà altra, superiore.

Una tale descrizione, paradossalmente, invece di far nascere in noi il sentimento di paura e di smarrimento, incrementa una sorta di superiorità, di dominio sulla natura, nonostante la forza inarrestabile di questi episodi[2].Infatti, a tale proposito, Kant sostiene che, rispetto a questi accadimenti, “ci sentiamo protetti”: tale esperienza del sublime, che ha origine dalle diverse manifestazioni dalla natura, contribuisce ad alimentare in noi una sensazione di sicurezza, quasi di controllo rispetto a ciò che è più grande di noi e che potrebbe perfino distruggerci.

La vulnerabilità umana, invece, ci intimorisce poiché ci costituisce profondamente dall’interno. Una vulnerabilità che annienta, se non accettata.

Ed è per proteggersi da essa che usufruiamo della corazza dell’autonomia e dell’iper-controllo, così come quella del distacco emotivo e dell’isolamento, permettendo a ciascuno di sentirsi al sicuro rispetto ai rischi del lasciarsi andare a quelle crepe che, inevitabilmente, ci apparterranno sempre. Una vulnerabilità dunque non sempre accolta, abbracciata. Piuttosto, una vulnerabilità ostile, negata.

Fin tanto che la vulnerabilità continuerà a sembrarci una dimensione a noi lontana, quasi straniera, un orizzonte inesistente, sarà la paura a incrementare e a costituire quella salda barriera tra noi e noi, tra noi e il mondo, separandoci da esso, allontanandoci da quella verità che vogliamo a tutti i costi nascondere e che solo all’interno di noi possiamo far risorgere, trasformandola in un punto di forza.

La pretesa di essere indistruttibili segna il terreno della paura. La paura delle ferite. Delle debolezze. Delle fragilità. Del vuoto e delle perdite.

La paura può paralizzare, bloccare la parola. Ma può anche dare la possibilità di raccogliere le risorse interiori necessarie per reagire, per non subire passivamente la vita.

La paura, dunque, «tantôt elle nous donne des ailes aux talons, tantôt elle nous cloue les pieds et les entrave[3] » (« tanto ci da delle ali ai talloni, tanto inchioda i piedi a terra e li ostacola »), scrisse Michel de Montaigne nei suoi Essais.

Quando il nonno ci lasciò, conobbi al contempo la vulnerabilità e la paura.

Entrambe, tuttavia, liberatrici perché attraverso di esse ho iniziato a capire che cosa significa esplorarsi e conoscersi. Osservare dall’alto quelle contraddizioni che però rendono ognuno speciale e unico. Accompaganta dalla mia vulnerabilità e dalla mia paura.

La vulnerabilità, in quanto manifestazione di quel segreto che mi porto dentro, e la paura, in quanto emozione che mi ha dato quelle ali ai piedi, indispensabili per esprimere ogni giorno la libertà di essere me stessa, abbandonando la corazza, contemplando quel sublime in cui un giorno vorrei trovare una casa.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

 

NOTE

[1] KANT E., Critique de la faculté de juger, trad. fr. A Philonenko, Paris, Virin, 1989.

[2] GALLIE M., “Vulnérabilité”, p. 1440, in M. MARZANO (dir)Dictionnaire de la violence, PUF, 2011, p. 1546.

[3] MONTAIGNE. M., Les essais, “De la Peur”, p. 214,tanto Paris, FOLIO Classique, Editions Gallimard, 2009.