L’impressionismo prima degli impressionisti

Esiste una pur remota possibilità che uno o più artisti abbiano anticipato, nelle forme e nei contenuti, i caratteri fondanti, e spesso inconfondibili, di una corrente artistica di molto successiva? Come già ho avuto modo di dimostrare in un mio vecchio articolo dedicato al pittore genovese Luca Cambiaso, in rarissime occasioni questo può accadere, anche se, di fatto, non si può certo parlare di vera e propria anticipazione, ma, piuttosto, di casuale coincidenza formale, talvolta sorprendente ma comunque destinata a rimanere tale, non potendo essa colmare le abissali distanze concettuali e contestuali che intercorrono tra un dato movimento artistico (o ancor meglio un’Avanguardia) e il suo fantomatico precursore.

Quando si viene a prendere in considerazione la poetica dell’Impressionismo, tuttavia, le cose cambiano radicalmente. Infatti, se da un lato le grandi Avanguardie di inizio Novecento presentano delle caratteristiche ben definite e marcate e, spesso, fanno perno su un manifesto che ne illustra i propositi, l’Impressionismo francese è una corrente dalle basi teoriche meno solide, fondata su assunti semplici e su un’eccezionale immediatezza visiva. L’obiettivo principale dell’arte portata avanti da Monet, Cézanne, Renoir e compagnia è quello di catturare un’immagine della realtà quotidiana così come la si percepisce a un primo e fugace sguardo, e di rielaborarla in pittura con un tocco rapido e brillante. Ciò significa che l’arte di questi maestri presenta un caos di pennellate dense e talvolta grossolane che, una volta viste da lontano, si ricompongono in un magnifico ordine che ci mostra una qualche veduta della Senna o un affollato locale alla moda parigino.

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Ecco che queste caratteristiche generali, e a dire il vero piuttosto generiche, hanno alimentato osservazioni su osservazioni da parte della critica, che presto ha saputo individuare modelli e precursori di questo tipo di pittura. Cosa che, in fin dei conti, non è poi così difficile, visto che la sua qualità fondante è essenzialmente quella pennellata spessa e veloce che si vede soprattutto in Monet e Sisley. È in particolare il cadorino Tiziano Vecellio a essere indicato come il primo grande precursore dell’Impressionismo. Nelle sue opere tarde, vale a dire quelle databili dal 1560 fino all’anno della morte (1576), il grande maestro veneto porta lo sviluppo della pittura tonale a estreme conseguenze, raggiungendo risultati che esteticamente si discostano molto dalla pittura coeva: la Punizione di Marsia di Kromeritz o il Ratto d’Europa di Boston ne sono due ottimi esempi. Questa fase della produzione di Tiziano fu molto apprezzata da numerosi pittori francesi dell’Ottocento, in particolare da Delacroix, artista molto noto agli impressionisti e che in qualche modo può rappresentare il trait d’union tra il maestro veneto e quelli d’oltralpe. Tuttavia, nonostante Tiziano fosse studiato e ampiamente apprezzato nella Parigi di quegli anni, la sua arte è troppo distante sia storicamente sia culturalmente dai risvolti del secondo Ottocento parigino per poter figurare come anticipatrice della corrente impressionista: le basi comuni, che si limitano a una vaga somiglianza stilistica nella stesura del colore, sono davvero troppo deboli.

Tuttavia, alcuni decenni prima, ci fu un altro grande ammiratore della pittura di Tiziano dall’altra parte della Manica, il quale va considerato a mio parere il vero e forse unico grande precursore dell’Impressionismo, l’inglese William Turner. A partire dal 1820 egli adottò un’impronta stilistica sempre più moderna, che giunse progressivamente a quelli che, negli anni ’40 dell’Ottocento, furono dei veri e propri colpi di genio, dipinti al limite dell’astrazione, come dimostra il capolavoro Rain, steam, speed della National Gallery di Londra. Risultati di questo calibro furono raggiunti oltre trent’anni prima rispetto ai capolavori di Monet e Renoir, in un contesto storico, quello contingente alla rivoluzione industriale, del tutto simile: così come in Francia si sentiva il bisogno di un cambiamento, così in Inghilterra Turner lo ha sentito parecchi anni prima, non limitandosi a un approccio di stampo romantico verso i paesaggi inglesi, ben esemplificato dalla pittura di Constable, ma adottando un linguaggio formale che superasse l’immagine oggettiva, pur filtrata da sentimenti personali, e che giungesse alla rappresentazione di una realtà veloce, in continua evoluzione, che l’occhio non fa più in tempo a descrivere con attenzione.

constable-hadleigh-castleQuesto approccio moderno fu adottato in realtà anche dallo stesso John Constable, che in alcuni suoi studi preparatori ha ottenuto delle immagini che, per modernità, non temono il confronto con Turner: basti pensare allo studio a grandezza naturale per Hadleigh Castle, alla Tate Gallery di Londra, per rendersene conto. Tuttavia questi magnifici dipinti, concepiti con grande cura dall’autore (e sicuramente da lui molto amati), non erano destinati ad essere visti pubblicamente nelle esposizioni della Royal Academy, ma restavano un lavoro privato di Constable, che, mosso da impulsi e idee simili a quelli di Turner, non ha però potuto azzardare un passo così audace, che solo qualche anno dopo avrebbe trovato invece terra fertile negli occhi di chi, ormai immerso in un mondo cambiato, avrebbe compreso quell’evoluzione. Ecco quindi che, forse, i primi veri impressionisti non furono francesi, ma britannici, un po’ meno consapevoli del loro essere tali ma certamente altrettanto moderni e innovativi.

 

Luca Sperandio

 

NOTE
Immagine di copertina: opera di William Turner
Immagine 1: Tiziano, Ratto di Europa
Immagine 2: John Constable, Hadleigh Castle

 

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L’impressionismo a Treviso: opinioni sulla grande mostra

Il 29 ottobre scorso è stata inaugurata al Museo di Santa Caterina a Treviso la tanto discussa mostra Storie dell’Impressionismo, importantissima rassegna di pittura impressionista curata da Marco Goldin, storico dell’arte e abile imprenditore che ha fatto dell’organizzazione di importanti mostre d’arte il suo mestiere.

C’è da premettere che la genesi e lo sviluppo di questo progetto, di grande rilevanza per l’immagine del capoluogo della Marca e per il suo turismo, non sono stati per nulla facili: molti influenti personaggi del mondo culturale locale (e non solo) si sono sin dai primi tempi opposti duramente alla possibilità di affidare gli spazi del museo civico trevigiano al famoso curatore, accusato, ritengo ingiustamente, di creare mostre di bassissima qualità e di attirare grandi masse di visitatori con prodotti di basso profilo culturale e dai contenuti pressoché inesistenti. A ciò si lega il fatto che, secondo gli intellettuali di questa cerchia, il Museo di Santa Caterina necessiterebbe di lavori di sistemazione, e quindi di una maggiore promozione che ne permetta l’attuazione, senza però dover far passare la collezione permanente in secondo piano per lasciare posto a mostre come questa, che, come molti invidiosi usano riferirsi agli eventi goldiniani, vengono definite, con un semplice gioco di parole, ‘mostri’, accozzaglie di opere di artisti famosi esposte per attirare le masse. Ma come stanno le cose in realtà?

Ho visitato questa grande mostra un venerdì mattina e la prima cosa che non ho potuto fare a meno di notare è il grande afflusso di visitatori che si apprestano ad affrontare il lunghissimo percorso espositivo. È stata una sensazione piuttosto strana percorrere le sale del museo trevigiano in mezzo a così tanta gente: scolaresche, gruppi vari e soprattutto pensionati, tutti alla scoperta delle opere della grande stagione artistica francese, ma allo stesso tempo di una sede museale che, grazie alla mia esperienza di stagista nella stessa, posso garantire di non aver mai visto così viva. Dunque qui va subito ad infrangersi una delle argomentazioni di coloro che le mostre organizzate da Goldin proprio non possono tollerarle: con questo evento si è riusciti a catalizzare verso il museo una quantità di persone inimmaginabile per gli standard del complesso di Santa Caterina, una massa di visitatori che può scoprire, insieme alla mostra, le collezioni del museo. Infatti, se è vero che molte sale sono state svuotate per esporre i capolavori dei vari Manet, Monet, Renoir, Cézanne e Van Gogh, le opere più importanti del museo sono comunque disposte lungo il grande corridoio dell’ex convento dove esso è ospitato, in modo che il visitatore, spostandosi tra gli ambienti a sinistra e a destra del grande spazio centrale, è ‘obbligato’ ad ammirare anche i maggiori capolavori delle collezioni trevigiane, dipinti di Tiziano, Tiepolo, Lorenzo Lotto, Rosalba Carriera e molti altri. Come si può chiamare questa se non promozione del luogo?

A questo punto resta solo da valutare la mostra vera e propria, indipendentemente dai suoi influssi sul turismo e sulla promozione del territorio. Sinceramente, credo che anche in questo caso chi critica amaramente le mostre firmate Goldin non faccia altro che dimostrare una fortissima e apparentemente ingiustificabile invidia.

Ciò non significa che la grande esibizione sia priva di difetti: ho trovato il percorso di visita poco chiaro, colpa anche del fatto che sia disposto, nella prima parte, lungo due assi longitudinali separati dal grande corridoio del convento, cosa che rende complicata la scelta della sequenza da seguire e imponga una certa attenzione al fine di non saltare alcuni ambienti. Altra piccola critica che posso rivolgere alla mostra è quella di non avere un preciso ordine tematico o stilistico da seguire, o meglio, i temi ci sono ed è su di essi che si fonda il percorso, ma vengono a più riprese abbandonati e ripresi, seguendo essenzialmente un vago ordine cronologico che rischia però di mettere un po’ di confusione nei visitatori meno esperti. Questo è il motivo principale per cui molti puristi ritengono che queste mostre siano inutili e prive di contenuto. Ritengo tuttavia che queste affermazioni siano frutto di pura follia o, meglio, di enorme invidia. Ma poi perché mai ci dovrebbe essere invidia da parte di questi intellettuali?

La risposta è scontata: chi altro in Italia riesce a radunare in un unico evento oltre cento capolavori dei grandi protagonisti dell’impressionismo? Se anche a me è permesso fare un gioco di parole, posso affermare che questa mostra sull’impressionismo è impressionante: non ho mai visto in vita mia una quantità simile di dipinti di questa corrente artistica, una rassegna gigantesca che abbia radunato opere di tutti gli artisti che ne sono stati fautori e che presenti, per ciascun autore, dipinti di soggetti diversi, spesso accostati a quadri di soggetto simile di un altro pittore, così da evidenziarne le differenze. Penso che, nonostante l’ordine espositivo talvolta poco chiaro, visitare questa mostra sia d’obbligo per chiunque studi arte o ne sia molto appassionato, perché l’occasione di poter vedere così tanti capolavori, spesso accostati tra loro in modo geniale, e poterne valutare caratteristiche e differenze possa non capitare una seconda volta. Così come può non capitare più nella vita di vedere le singole opere ora esposte a Treviso, provenienti da musei sparsi in tutto il mondo. Daltronde, quante possibilità ci sono che mi ritrovi un giorno in Ohio a visitare il museo di Columbus? Onestamente, credo poche. Perché non approfittare allora di vedere alcune delle sue opere a Treviso, finché ci sono?

Luca Sperandio