La bellezza salverà il mondo

Oggi il mondo è piccolo davvero: immagino uomini francesi o spagnoli nel Medioevo osservare la distesa apparentemente infinita dell’Atlantico e non avere la più pallida idea di che cosa potesse esserci oltre, chiedersi quanto oltre avrebbero potuto trovare qualcosa. Se c’è una cosa per cui voglio davvero benedire tutto il nostro processo tecnologico del XX-XXI secolo è proprio questo effetto restringente dei confini, questa vicinanza così possibile con gli altri e con le cose.

Fosse per me visiterei ogni angolo della nostra piccola e meravigliosa biglia azzurra. I giornali, i libri, i mass media e i social network mi fanno capire che non c’è limite alla bellezza che l’ingegno divino-naturale e l’ingegno umano (mosso da buone intenzioni) è stato capace di creare; adesso ho solo la voglia di toccare con mano tutta questa bellezza, fisso il planisfero nella mia lavagna di sughero con un misto di frustrazione e determinazione. Condivido il folle sogno romantico di Dostoevskij e credo che la bellezza salverà il mondo, intendendo per “mondo” tutti noi cittadini, persone, entità pensanti e dotate di sentimenti ma forse anche la Terra stessa. O almeno, sono certa che potrebbe farlo.

Sono seduta sul sedile di un tram di Amsterdam, mi lascio trasportare come dalla corrente nell’antico letto artificiale della città, scivolo fluida tra la folla della sera, in mezzo alle luci di Natale, sopra ai canali silenziosi. Penso. La gente attorno a me mi fa pensare alla routine, ad un tram preso un milione di volte, ad un lavoro appena concluso, ad una casa in cui tornare, dei famigliari o amici con cui stare. Proprio come il treno che prendo infinite volte per tornare a casa da Venezia dopo una giornata di università, solo che il panorama al di là del vetro è diverso e per me tutt’altro che ordinario, è pieno di possibilità. Scendo a Muntplein e mi immergo nella Kalverstraat dei negozi, sotto festoni di luci natalizie: la gente compra i regali perché dopodomani sarà san Nicola, ovvero l’originale Santa Claus; due ragazzi mi fermano, mi chiedono informazioni in inglese: pensano che io viva lì.

Non sarò mai grata abbastanza ai miei genitori perché mi danno la possibilità di vivere tutto questo. E’ vero che la conoscenza è il vero antidoto per la maggior parte degli orrori del mondo, credo che sia stato proprio mio padre il primo ad insegnarmelo. Lui è tutt’altro che un professorone classicista, ma la sua citazione preferita è sempre stata dalla Commedia, il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse:

Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza.

Mentre lo diceva a mio fratello (che è più grande di me) io piccolina lo ascoltavo e non capivo il senso. C’è stato un momento mentre ero alle medie in cui una lampadina si è accesa: leggi, scopri, vedi, desideri e (se puoi) parti, perché è quello l’unico modo per salvarti dall’oscurità degli animi umani, dalla cecità, dallo schifo del mondo.

Sono felice perché ho scoperto che cosa si prova a mangiare dei caldi noodles take away seduta a terra sul ciglio di un canale olandese, con il vento gelido che punge la faccia e l’occhio digitale del turista che passando in barca ti nota e pensa “Ah! Due allegre olandesi che mangiano in riva al canale”; so cosa vuole dire trascorrere una serata di un anonimo giorno feriale in un teatro del West End e dopo fare uno spuntino con delle patatine del McDonalds, mescolata alla folla che si riversa nelle strade; a Trapani ho assaggiato la sensazione di andare in spiaggia alle cinque del pomeriggio dopo un acquazzone estivo, solo per osservare un diverso colore del mare, per distendersi sulla sabbia fredda e leggere accerchiata dall’aria salmastra e piacevolmente fresca. Nella città che non dorme mai ho scoperto l’abitudinario alzarsi presto al mattino, fuggire con quel bruco di latta fuori dalla periferia, sbucare fuori dalla bocca infuocata ed entrare in un grattacielo per andare a scuola. Nella Parigi oggi ferita solo tre anni fa ho passato un afoso pomeriggio distesa al Parc Citroen, senza pensieri, a sonnecchiare ed ascoltare musica in mezzo a famiglie, coppie di ragazzi, bambine che si sfidavano a fare la ruota.

Però ce n’è anche un’altra di “classica” tra le citazioni preferite di mio padre: è quel momento nei Promessi Sposi, quando Renzo e Lucia osservano il loro lago di Como, con la sua corona di monti, che si stanno lasciando alle spalle. Recentemente anche questo passo mi sembra perfetto: perché è giusto conoscere il mondo, ma non bisogna dimenticare la propria casa. E’ bello partire quando sai che puoi sempre tornare.

Dunque sono fortunata perché so anche cosa vuol dire vivere in un paese infossato tra le colline senesi, uno di quelli dove non vi si raccolgono più di duecento vite, dove si trova quella pace che può dare il canto degli uccelli, il rumore del vento tra le fronde dei cipressi, ma si prova anche la difficoltà di raggiungere il paese più vicino (che in realtà è lontano) senza possedere un’auto; e al contrario, so cosa significa vivere nel formicaio milanese, 1.300.000 residenti e altri 700.000 pendolari giornalieri, tutti indaffarati, tutti presi, un cuore che pulsa e che ti fa sentire vivo ma dove fatichi a trovare un po’ di silenzio che sia vero silenzio, una solitudine che sia vera solitudine. Ho sperimentato anche l’intermedio: una cittadina veneta di provincia, qualche migliaio di abitanti in una campagna che non è vera campagna, un punto in una rete di strade, cittadine, persone. Non si può amare tutto quanto, ma lo si può apprezzare. Questa è la bellezza del mondo, conoscerla (conoscerci) potrebbe salvarci. Prendere in prestito momenti ordinari delle vite degli altri ci fa capire quanto siamo diversi ma soprattutto quanto infondo siamo armoniosamente simili. E poi certo, la bellezza è anche un’alba nel deserto, la nona sinfonia di Beethoven, la basilica di San Pietro, la vista da Machu Picchu, un dipinto di Renoir, un abito di Elie Saab, veder “cadere” una stella di san Lorenzo…

Chi cerca di possedere un fiore, vede la sua bellezza appassire. Ma chi lo ammira in un campo, lo porterà sempre con sé. Perché il fiore si fonderà con il pomeriggio, con il tramonto, con l’odore di terra bagnata e con le nuvole all’orizzonte.¹

Cercare la bellezza, trovare la bellezza e vivere sulla pelle l’emozione che essa porta con sé, ci fa capire che non vorremmo mai vederla distrutta. L’importante del viaggio, come di ogni esperienza, è il tenersi qualcosa da riportare indietro, a casa. Imparare qualcosa di bello che viene da fuori e portarselo dentro per arricchire noi stessi.

Giorgia Favero

[L’immagine è tratta da Google e ritrae l’artista Yves Klein]

Note:

[1] Tratto da Paulo Coelho, “Brida”, Bompiani 1990

L’esportatore di progresso

Il suo è un mestiere difficile che non prevede la pensione, nessuna indennità o malattia, non gli da diritto a programmare ferie, non si ferma mai, nemmeno il tempo riesce a contenerlo.
Questo lavoro gli piace così tanto che non ha mai firmato un contratto, non ha mai sentito il bisogno di tutelarsi o di mettere per iscritto diritti o doveri che si è imposto da solo.
E’ un libero professionista, il dipendente di se stesso, disfa e costruisce di volta in volta i suoi obiettivi, allarga gli orizzonti oppure ricalca vecchie orme in terre già battute.
Non serve avere un’età, lui per esempio non ha età, si sposta a cavallo dei secoli attraversando mondi paralleli, epoche e società.

E’ cittadino del Mondo, padrone e suddito, comanda e serve gli uomini perché hanno bisogno di lui e lui ha bisogno che essi lo usino solo per poter dire che esiste.
In Occidente lo trattano bene, c’è terreno fertile per qualsiasi sua proposta estrema, e quando ha carta bianca da il meglio di se.
Ma in che cosa consiste il suo lavoro?
Semplice, lui esporta progresso.

Un bel giorno decide che la società a cui appartiene è la migliore in assoluto, e sente il bisogno di comunicarlo a tutti gli altri privandoli della possibilità di replica.
Detta così superficialmente non contribuisce a svelare l’arcano ragionamento; occorre specificare allora quali siano le materie sociali su cui agisce.

Prendiamo la scrittura.
L’esportatore del progresso ha stabilito che i popoli senza scrittura sono primitivi, mentre quelli che la possiedono sono avanzati.
Poco importa se esistono altri metodi per raccontare o tramandare qualcosa perché l’esportatore di progresso ci riferisce che le parole scritte non sono mutabili, ergo non possono essere interpretate a seconda dei tempi, mentre l’oralità – al contrario – è e sarà sempre imperfetta.
Del resto, quando mai abbiamo modificato l’interpretazione dei testi Sacri, o altri scritti realizzati da personalità che, inevitabilmente, hanno intriso pagine e pagine di cronache ‘sporche’ del loro punto di vista?

Esistesse solo questa categoria ad impegnare il nostro progressista nel suo duro lavoro di catalogazione, non avrei detto nulla di stupefacente.
Ad un certo punto decise di esportare un modello di società ben preciso, quello Occidentale appunto e con esso anche la Democrazia.
Se vivi in una società senza strade, scuole, ospedali e altre infrastrutture che all’Occidente hanno portato al contempo benessere e complicazioni, sei automaticamente retrogrado.
All’esportatore di progresso non interessa sapere che la tua cultura ha raggiunto il suo equilibrio adattandosi all’ambiente circostante e alle tradizioni, mutabili, della propria Storia.

Non gli interessa nemmeno sapere che la via intrapresa da questa o da quell’altra società è solo una delle tante possibili, perché la migliore è quella in cui lavora, e l’ha deciso da solo.
Un po’ come autodefinirsi belli perché l’ha detto mamma.

La Democrazia invece pare sia improvvisamente diventata il migliore dei sistemi politici.
A contendersi la supremazia però sono state svariate forme di governo, tutte puntualmente esportate dal progressista e ognuna spacciata come ‘la migliore’: inizialmente fu la Monarchica assoluta retta da un sovrano despota ed illuminato, seduto sul trono per volere di Dio; poi fu il turno del Parlamento e successivamente toccò alla Repubblica borghese che pochi potevano governare…

Infine in Occidente crearono la Democrazia e decisero che tutti potevano partecipare alla Cosa Pubblica, ma non solo gli occidentali, qualsiasi persona compresa nel raggio dei quattro angoli del Mondo, e chi era rimasto ai re, ai sacerdoti e ai rituali arcaici avrebbe dovuto adeguarsi.

L’esportatore di progresso si diede molto da fare, fondò nuovi Stati, tracciò nuovi confini studiati a tavolino unendo sotto la stessa bandiera società in conflitto tra loro e separandone altre di affini; portò l’Occidente in territori non occidentali, anche appoggiando spietati dittatori, decidendo di volta in volta quale fosse ‘buono’ e quale ‘cattivo’.

Nel 2015 l’esportatore di progresso esiste ancora, vive cibandosi delle nostre incomprensioni, di tutto ciò che appare assurdo ai nostri occhi, vive delle aspre critiche che lanciamo a chi mangia cibi diversi dai nostri, a chi tratta la donna in un modo che a noi appare antiquato, a chi segue i dettami di una religione che non è la nostra, a chi abita in capanne fatte di paglia e sterco, a chiunque non indossi giacca e cravatta ma abiti ‘strani’ o ‘bizzarri’.
L’esportatore di progresso respira l’aria della superiorità che ci siamo attribuiti e dell’auto incoronazione di noi stessi.

Ci aiuta, giorno dopo giorno, a trasportare il masso lasciato in eredità da un Sisifo stanco, e questo masso serve a rinfacciare la fatica – non richiesta – spesa per la costruzione di una visione soggettiva non traducibile in altre declinazioni culturali.
Si veste di arroganza e troppo spesso applaudiamo compiacenti la sua eleganza così conforme alla nostra.
Rende assurda persino l’ovvietà fatta di numeri, quei sette miliardi di uomini e le centinaia di culture annesse che sussurrano di non sentirci troppo soli.

Che la vanagloria è un labirinto dal quale si esce solamente mettendosi in discussione.

 Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini]

Sono uno, nessuno e sette miliardi

Martedì mattina sul Frecciabianca 9712 diretto a Torino Porta Nuova. Ho preso questo treno innumerevoli volte, dato che ho vissuto a Milano per tre anni mentre studiavo in quella sfiancante università. Sono passati otto mesi da quella sudata laurea eppure alcune cose non sono cambiate: anche oggi, per esempio, non riesco a resistere al gioco. Quindi cedo, e scrivo. Osservo i passeggeri che mi siedono attorno e scrivo storie con l’inchiostro della mente.
Adoro i treni e adoro viaggiare in treno. E’ un viaggio veloce ma abbastanza lento per poter osservare il mondo scivolare via, lì fuori dal finestrino; un viaggio solitario soltanto all’apparenza, perché in realtà la fauna umana da osservare è della più varia. Su questa carrozza ora ci saranno circa quaranta persone: considerando che in totale i vagoni sono nove, trecentosessanta persone approssimativamente stanno viaggiando su questo treno. Perché verso Torino? Perché di martedì? Perché a quest’ora? Quale la fermata? Quale lo scopo? Sono domande a cui non posso rispondere con la verità, ed è per questo che mi invento delle storie.
Non ditemi che sono l’unica.

 
Mi sono spesso interrogata sul concetto di unicità delle personalità, anzi, delle persone. Oggi sono qui seduta al mio posto, tra ventisei ore comincerò il mio turno di volontariato all’Expo e mi sento un po’ speciale; mi guardo attorno e mi chiedo quanti di loro si stanno sentendo altrettanto speciali. Forse su questo treno ci sono trecentosessanta persone che sentono di avere un buon motivo per credersi speciali.
In Italia ci sono circa sessanta milioni e ottocentomila abitanti; sarebbe anche accettabile da pensare se ci si ferma alla semplice superficie data dal dato numerico puro e semplice, otto cifre messe in fila; possiamo addirittura sembrare estremamente pochi se ci paragoniamo alla popolazione mondiale, sette miliardi di individui. Miliardi. L’Italia in confronto è un pugno di sabbia. Mi capita a volte di sprofondare in queste cifre, sono i momenti in cui penso a quanto io sia insignificante nel quadro generale delle cose.
Eppure…

Sessanta virgola otto milioni di abitanti. Il vero problema è che questo non è un numero astratto: 60.800.000 sono persone, individui, esseri umani, entità pensanti plasmate nella carne e scritte nell’animo da una propria storia. Siamo fatti della nostra storia più che del sangue, e una storia è molto più di un numero che poi nell’insieme fa 60,8 milioni. Se volessimo raccontare la storia di ogni singolo cittadino italiano, supponendo di dare a ciascuno il tempo di un’ora per raccontarsi, a sentirle tutte, come in un infinito “Le mille e una notte”, ci metteremmo circa 6800 anni. 6800 anni! Non sono brava in matematica, ma da simpatizzante delle materie umanistiche in generale so che nel 4000 avanti Cristo circa i Sumeri non usavano ancora la scrittura cuneiforme. Tanto per dire.
Su questo treno ci sono centinaia di quelle sessanta milioni e ottocentomila storie, e questo potrebbe bastare a convincermi che non sono nulla di speciale. Nonostante tutto non sappiamo proprio smettere di sentirci tali, non è vero? Forse perché nonostante tutto per noi 60,8 milioni resterà per sempre e per forza un numero: non siamo fatti per avere un quadro tanto ampio delle cose. Curiamo il nostro giardino, come avrebbe dovuto Candide di Voltaire, e nel nostro giardino ci sentiamo tanto grandi, o tanto piccoli, o ci sembra di essere “qualcosa”, senza nessuna specificazione annessa. Esattamente come la percezione che abbiamo di noi stessi, così vale la percezione che gli altri hanno di noi. Per esempio, le centinaia di persone che ci sono qui sul treno: per me sono tutti delle ombre senza importanza, e io lo sono per loro. L’unica differenza che io posso fare per loro e loro per me, ha principalmente a che fare con la quantità di disturbo che possiamo reciprocamente provocarci in queste ore di convivenza forzata.

 
Tuttavia, secondo me impazziremmo se decidessimo di smettere di sentirci speciali. In questi ultimi anni tramite i social network sto scoprendo sempre più che alcune delle cose che faccio e che penso, anche le più strane ed inaspettate, le fanno e le pensano anche migliaia di altre persone. Ho cominciato seriamente a pensare che il concetto di “speciale” sia stato inventato per edulcorare la pillola ad una generazione che vive in un mondo globalizzato. Come a dire: “tutti nel mondo hanno un paio di jeans nell’armadio, hanno bevuto una Coca-Cola almeno nell’ultimo anno, sanno chi è Angelina Jolie, hanno rivolto un pensiero ai morti della redazione di Charlie Hebdo… sì, però ciascuno è speciale a modo suo”. Mmmm. Non so se crederci.

 
Però se non ci credessi, davvero impazzerei. Invece la verità è che mi pongo la domanda sbagliata: non ha senso che io mi domandi se sono speciale, perché la risposta è certamente “sì”, ma è altrettanto certamente “no”. Non posso certo essere l’unica al mondo ad avere paura dei temporali, ma sono l’unica nella cerchia di persone che conosco ad avere questa specie di fobia; allo stesso modo, quando tutti i miei amici sono bene informati sulla canzone dell’estate io mi ritrovo inaspettatamente a canticchiare il successo del 2009, beccandomi una serie di risate di (simpatico) scherno; allo stesso tempo conosco Harry Potter e Barack Obama come tutti gli altri, ho visto “Titanic” di James Cameron e sono ancora un po’ scossa se penso all’11 settembre. La domanda giusta non è “sono speciale?”: la domanda giusta è “chi sono io in questo immenso mondo?”. E la risposta è semplice: sono uno, nessuno e sette miliardi.

Giorgia Favero

[immagini tratta ga Google Immagini]