Scoprire e ritrarre: il soggetto esposto e problematizzato

Di recente ho letto il romanzo Il ritratto di Ilaria Bernardini, uscito a gennaio di quest’anno per Mondadori. Un’opera notevole, che scava all’interno dei personaggi e trasporta il lettore nei loro mondi, passati e presenti, nelle loro paure e nei loro desideri. Un romanzo che narra soprattutto il desiderio di essere visti, scoperti, riconosciuti – tramite un ritratto, appunto.
La protagonista è Valeria, scrittrice di mezza età legata, da ben venticinque anni, a un uomo sposato, Martìn, ricco imprenditore. Quando la radio informa Valeria che il suo grande amore è finito in coma e si trova a casa sua a Londra, con moglie e figli, la scrittrice fa l’impensabile. Per stargli vicina chiede a sua moglie, Isla, famosa pittrice, di farle un ritratto. Un’occasione pericolosa, piena di tensione, che le permette di incontrare la donna con la quale ha segretamente condiviso un uomo per tutti quegli anni. Isla sa di lei? Come si comporterà? Il romanzo, però, non è incentrato solo su questo torbido intrigo.
Il ritratto che la moglie fa all’amante porta a galla la vera Valeria, piena di contraddizioni, rea d’aver commesso atti vergognosi ma anche pieni d’amore.

Valeria ha un passato lastricato di dolore, lutto, abbandono. A cinquantacinque anni avverte e assiste al cambiamento del suo corpo, che cerca di curare con l’esercizio fisico e che fatica a vedere riflesso nello specchio. La sua vita l’ha data quasi tutta a Martìn e alla scrittura. E adesso, tesa nella paura di perdere per sempre quell’amore, Valeria esplora inconsapevolmente il suo bisogno d’essere guardata.
Isla la ritrae su tela osservandola attentamente e scrupolosamente durante alcune intense sessioni giornaliere. Guardandola, ella dà corpo e consistenza a Valeria, convalida in qualche modo la sua presenza nella sua vita e in quella dei suoi figli, persino in quella del marito, in stato comatoso al piano di sopra. Isla si accorge che Valeria, immobile e seduta, nell’atto di posare, si mostra per quella che è, mostra le sue tante sfaccettature pur restando ferma e credendo (più che altro sperando) di essere imperscrutabile. Ma l’artista coglie sempre il vero nocciolo della personalità di chi ritrae, la svela, per trasferirla sulla tela. È un processo non solo artistico, ma anche psicologico, persino spirituale. Un processo totalizzante, sfinente sia per chi dipinge che per il soggetto che viene ritratto.

Il filosofo Jean-Luc Nancy, nel suo Ego sum (Bompiani, 2008) parla della scelta di Cartesio di pubblicare anonimamente il suo Discorso sul metodo. Cartesio mostra al pubblico la sua filosofia come fosse un quadro dall’autore sconosciuto e resta dissimulato dietro a esso in ascolto, per capire che ne diranno gli altri. Cartesio si fa voyeur esponendo il suo pensiero e Nancy ci ricorda che il voyeur è sempre un esibizionista. Anche Valeria si esibisce, ne ha bisogno; è lei stessa a pensare che «a vent’anni voleva essere invisibile. Ora voleva essere vista». Giunta alla mezza età, arriva il momento per lei di mettersi in mostra: a Isla, per farsi ritrarre, ma anche e soprattutto a se stessa, per scoprirsi e (ri)darsi un senso, proprio attraverso gli occhi della sua antagonista. In questo caso Isla non è solo la ritrattista ma è anche la sua spettatrice più importante. Anche se potrebbe sembrare che la pericolosa scelta di Valeria di recarsi in quella casa sia legata solo al suo desiderio di stare vicina a Martìn, in realtà leggendo il romanzo emerge potentemente la sua volontà di esporsi per concretizzarsi e rispondere a tante domande che, nella sua vita, sono sempre rimaste senza risposta, almeno fino a quel momento.

«Il soggetto esposto» scrive Nancy in Ego sum «mette contemporaneamente in gioco il guadagno della sua sostanza e la perdita della sua identità». Posando per quel ritratto Valeria perde la sua identità di amante, non solo a livello fittizio in quanto non può e non deve confessare a Isla chi in realtà è, ma anche a un livello personale e profondo. Valeria è sempre e solo stata un’amante e una scrittrice di successo? No, è stata ed è tante altre persone, tanti altri volti che si susseguono uno dopo l’altro mentre posa immobile, acquistando, forse per la prima volta, la sua vera sostanza.
Ma pure Isla è lì per scoprire qualcosa: come afferma Nancy, «l’autore nascosto dietro il quadro […] è lì per vedere». Vedere Valeria, l’altra donna, e attraverso lei vedere anche Martìn, la loro vita insieme e quella di lui con la sua amante. E, in ultima analisi, vedere più chiaramente anche se stessa.
Il ritratto è un romanzo estremamente filosofico e labirintico, strutturato come un puzzle capace di allenare non solo la mente ma anche e soprattutto il cuore, problematizzando il concetto stesso di identità e di accettazione di sé. Un po’ come una seduta psicoanalitica, anche per lo stesso lettore.

 

Francesca Plesnizer

 

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Paesaggi sonori, paesaggi emotivi

Il paesaggio riguarda la vista, si dice. Lo si vede, lo si ammira, lo si ricorda, cercando di ricreare con la mente la sua immagine, appunto. Invece l’evento del ‘vedere un paesaggio’ è un’occasione conoscitiva peculiare perché per quanto possa sembrare, non riguarda affatto la vista, se non in minima parte, ma uno stato emotivo e conoscitivo ben più profondo ed eloquente.

Nella nostra modalità contemplativa interagiscono una serie di fattori in cui quello visivo non è che una parte: osservare un paesaggio ci riporta a un insieme di stimoli visivi, sonori ed emotivi, intendendo questi ultimi come una tensione tra noi stessi, la situazione, il materiale visivo che ci sta di fronte, la nostra biografia, ciò che la trascende. ‘Tensione’ non ha qui la valenza negativa di stress, di logoramento, ma di semplice attrito, reazione tra elementi distinti che si sintetizzano in una unità che ci comunica qualcosa. L’elemento che cuce insieme vista, suono e stato emotivo è proprio quello della tensione intesa in questo modo.

Non è un caso che parte della musica contemporanea si concentri nella creazione di composizioni chiamate proprio Soundscapes (che unendo le parole sound, suono, e landscape, paesaggio, formano l’espressione ‘paesaggio sonoro’). Il paesaggio sonoro non solo dà la possibilità di porre vari elementi (diversi suoni più o meno saltuari ed eterogenei) unificati in uno sfondo costante (la tonica), nello stesso modo in cui case, alberi, oggetti vari si stagliano sul terreno o sul cielo, che sono rispettivamente gli elementi e lo sfondo; ma cerca di offrire una sensazione, uno stato emotivo finale dato appunto dalla disposizione delle cose in quel modo o in quel momento, attraverso il rapporto musicale che intercorre tra gli elementi e lo sfondo tonale, che crea appunto tensione[1]. In questo modo si potrà provare e quasi vedere ciò che sperimentiamo con l’udito.

Questo stato del ‘vedere’ in cui vista, suono e coscienza si mostrano come un intreccio unico, è la totalità di ciò che si intende anche quando ed esempio vediamo un panorama e ci sentiamo compresi in esso.

Gli input da cui è possibile giungere a quello stato sono tre: una nostra disposizione, la vista di qualcosa di bello, un suono particolarmente evocativo. Ma queste non sono appunto che tre facce di un unico stato. Per questo di fronte a un panorama ci viene allo stesso tempo da restare in silenzio, o siamo in grado di pensare a una ‘musica giusta’; oppure sperimentiamo momenti particolarmente importanti a seguito di un’esperienza sonora particolare. Ricordate l’epifania pirandelliana al fischiare del treno? Il protagonista sperimenta uno stato di coscienza nuovo al suono del fischio («Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai», vista e suono, ancora in uno perché avvenga «lo spettacolo della vita»). Allo stesso modo, curiosamente, Steven Wilson nella sua Trains raccontava di rendersi conto di «morire d’amore» al passare del treno in lontananza. Il fischio lontano di un treno non è un suono casuale nel discorso che qui si tenta di fare. Il suono è altamente riverberato e la sua diffusione sottile ma ampia, rimanda subito all’apertura degli spazi esterni come quando li si ricomprende in un unico movimento dello sguardo: la mente tende subito a quel suono e così si astrae, sperimentando quasi di perdersi nello spazio enorme e vuoto in cui è cullata. Questo nuovo luogo può evocare una disposizione mentale più originaria che dà luogo a un rinnovato spazio conoscitivo lontano dagli affanni quotidiani (nel caso di Pirandello) o all’epifania nell’oppiacea perdita di senso dello stato amoroso (Wilson).

Quel senso di apertura  e di ripetizione dato al suono è una costante di celebri brani che sono particolarmente intensi nei loro risultati ‘visivi’. Si pensi ai Soundscapes di Robert Fripp, a The Sheltering Sky dei King Crimson, a molto materiale dei Pink Floyd, a A Warm Place dei Nine Inch Nails, a Lost Keys o Disposition (!) dei Tool: riverbero, delay e lunghe code riescono a creare la giusta tensione e la giusta disposizione per direzionare tutta la mente verso una «tonalità del mondo»[2], come la chiamava Heidegger, che simula il mostrarsi e l’andirivieni delle cose nel nostro spazio mentale, il loro svanire, il loro avvicinarsi e allontanarsi, il loro insistere.

Un aneddoto particolarmente interessante può fare da simbolo a tutto questo. Il re Ludwig II di Baviera, personaggio sensibile alle bellezze naturali e artistiche (di sua ideazione è il celebre castello di Neuschwanstein), fu anche grande ammiratore di Wagner e della sua musica. Dopo aver assistito a una sua opera a Bayreuth, ritornando verso il castello il re fece inaspettatamente fermare il treno nel bel mezzo delle buie campagne tedesche, in piena notte. Prese uno dei suoi cavalli e commosso e irrequieto, con ancora il rimbombo della grandiosa opera wagneriana nella testa, cavalcò per i boschi tutta la notte, fino al mattino, solo.

In questo caso vediamo come la tensione provocata dalla musica ha evocato quello stato emotivo che di gran lunga supera il semplice piacere dell’ascolto, come quello della semplice vista. Tale tensione può trovare equilibrio nel contesto giusto, in cui tensione sonora ed emotiva si congiungono e sintetizzano: nell’atmosfera misteriosa e spaesante di un bosco notturno e disabitato, al chiaro di luna. Lo spazio fisico naturale, accoglie al meglio lo spazio dischiuso dalla tensione sonora. Solo ritrovando questa unità è possibile comprendere ciò che si è provato.

Ogni suono è anche un vero e proprio luogo e ogni luogo è un sentimento. Questa strana e rara unità del percepire è ciò che in diversi modi la quotidianità ci mette di fronte a partire dal nostro semplice vedere o ascoltare. Saper cogliere in questo modo le situazioni e gli oggetti può sicuramente ben disporci verso il superamento di quel primato della vista di cui parlava Aristotele riguardo la conoscenza[3], che viene in questo modo facilmente semplificata e ci fa separare in modo troppo approssimativo il modo di cogliere le esperienze mondane. E può anche farci apprezzare di più ciò che ci sta intorno e gli stimoli che riceviamo, farci assaggiare le cose per come di mostrano, compito al quale sicuramente non siamo pienamente educati e che forse solo una mente al limite come quella del re Ludwig o del protagonista pirandelliano, può tentare di comprendere e raccontare.

Luca Mauceri

NOTE

[1] ‘Disposizione’ è in generale un’ottima parola, perché indica sia la posizione delle cose su un piano, sia l’umore, aspetti che in questo discorso stanno insieme.

[2] M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2011, pp. 195-203.

[3] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2013, p. 3.

Aritmie, Bertolucci

Capita talvolta all’artista, per il concomitare di fattori eterogenei, di trovarsi sulla soglia di fama e onori meritatissimi senza potervi del tutto accedere e senza esserne completamente escluso. Questo è il caso di Attilio Bertolucci, poeta, critico e traduttore prolifico, che pur avendo rappresentato uno snodo fondamentale per un certo modo di pensare e fare poesia in Italia, è stato facilmente oscurato nel tempo.

Ha avuto in ciò un ruolo l’ideale esistenziale del poeta secondo la formula del larvatus prodest, avanza nascosto. O forse il grande successo dei figli, soprattutto di Bernardo, come registi – ricordo a proposito di quando, andato a cercare in libreria un libro di questo poeta, ricevetti dal personale sguardi obliqui al limite dello scherno, confondevo forse un regista con un poeta? Determinante per adesso è anche lo scarso interesse ministeriale per la poesia del secondo novecento, che s’attarda ad inserire nel piano di studi liceali.
La poetica di A. Bertolucci è fatta di un linguaggio semplice, al limite del fanciullesco, tesa a dire la realtà agreste in quel di Parma che, pur inchiodata a riferimenti topografici precisi, li travalica verso un’universalità prepotente; Baccanelli diventa paradigma del piccolo centro extraurbano alla meta del ‘900. Realtà questa che di li a pochi anni era destinata a ritrarsi tra i grigi fumi del “miracolo economico”.

Un unico manifesto esplicito e concreto della propria poesia si trova all’inizio della raccolta di prose Aritmie, con il nome di Poetica dell’Extrasistole. Qui Bertolucci gioca a miscelare elementi biografici e stilistici: così il cuore che già nella fanciullezza inizia a perdere dei battiti diventa sintomo, segno in carne ed ossa della poetica dal ritmo asimmetrico e irregolare, nelle stesse parole del poeta:

“Penso che il cardiopalmo che accompagnava il mio passo precipitoso e furtivo mentre andavo così pubblicando, puerilmente, i primi versi, non m’abbia più lasciato, che abbia anzi allora avuto origine, appunto gemello fastidioso e dolce del poetare: e l’un male forse non potrei cavarmi di dosso senza uccidere anche l’altro, che non ho deciso ancora se debba chiamar male, o no.”1

In questo senso la poesia non è solo la voce del poeta, ma la voce della vita del poeta, le tracce sul corpo lasciano profonde tracce sulla carta, e la carta torna ad incidere sul corpo, in circolo. Un bambino registra un ritmo cardiaco anomalo quando, solo con la penna in mano, tenta una poesia, la poesia assorbe la musicalità “malata” del cuore del poeta e la fa suonare, confermandola sulla carta. Un cardiogramma di parole.

“Lo dimostra la benedetta sospensione dell’extrasistole, nel verso come nel cuore: salutare avvertimento sul fatto che morte e perfezione sono una cosa.”2

Francesco Fanti Rovetta

[Immagini tratte da Google Images]

NOTE

1 La descrizione fu tanto precisa, che venne, curiosamente, ripresa anche dalla rivista “Federazione medica”, Bertolucci, Opere, Ed. Mondadori, Meridiani, pag 954.

2 Bertolucci, Opere, Ed. Mondadori, Meridiani, pag 957.

Uomo innocente, uomo di pena

La preghiera[1]

1928

Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiù quell’ale di ape morta
Alla formicola che la trascina.

Oh! rasserena questi figli.
Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate

Le anime si uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

Dinanzi ad una quotidianità grondante sangue – che ha tutto un solo colore, un solo nome, pulsa vivo in un solo corpo- è inevitabile domandarsi se sia possibile l’innocenza: se lo sia mai stata, se lo sia ancora. È inevitabile domandarsi donde venga la brutalità dell’uomo, se sia innata e inevadibile oppure accorsa, posticcia: la perversione d’una strada dapprima diritta. E ancora: cosa ne è delle persone che sono vittime di brutalità, alle quali è data una morte che appare violentemente contro natura, una morte che si rifiuta, che ferisce nel profondo, con la sottigliezza d’una terribile nota stonata, tutta l’umanità?

È forse nei versi d’un “uomo di pena” e poeta dell’oblio che si possono trovare risposte almeno preliminari, un greto di parole da raspare per trovarne di più adeguate. Innanzitutto, perché sono versi scaturiti dal cuore d’un uomo che ha vissuto in prima persona la brutalità umana, che ha veduto i propri compagni cadere riversi nel nulla, ha sentito il peso insostenibile della vacuità che la guerra si lascia dietro, ha constatato quanto sia labile la misura tra l’estremo dolore e il radicale attaccamento alla vita. [2] I versi riportati in apertura sono quelli ai quali si vuol fare direttamente riferimento per tentare di iniziare a rispondere alle urgenti domande poco sopra formulate ( per se alla spicciolata e senza la compiutezza che richiederebbero). La Preghiera è una poesia del 1928 e compare nella sezione Inni de Il Sentimento del Tempo, raccolta pubblicata per la prima volta nel 1933.

Sin dalla primissima lettura di questi versi, si mostra un afflato, una vocazione spirituale incarnata in un poetare salmodiante: il poeta genuflesso dinanzi al Divino, riconosce la colpa dell’uomo che ha voluto allontanarsi dalla misura originaria, cioè dall’equilibrio in cui viveva tutta l’Eterna umanità, come raccolta in un solo corpo.

Rotto l’equilibrio originario, distrutta la pace dell’uomo con se stesso, questi ha potuto pervertire il corso del mondo; infranto il legame con se stesso, l’uomo ha potuto illudersi d’essere creatore del mondo, adorare i più oscuri frutti della propria perversione nella pietra pesante di idoli muti; volle tendere le mani a conquistare il tempo e farsi come Dio.

Avendo tradito il patto originario tra sé e il Divino, tra sé e l’armonia, l’uomo ha creduto di potersi creare da sé, di poter determinare le condizioni della propria vita: ha assunto su i sé il peso dei suoi giorni desiderandone il dominio, tollerandone a malapena il peso; ritrovandosi, come una formicola affamata d’una vittima, il peso insostenibile d’una ala d’ape: cioè il peso insostenibile di vacue illusioni.

Il poeta veste gli abiti del salmista e, al cospetto di Dio, canta i peccati dell’uomo per poi chiederne la remissione, per poi invocare la restaurazione misericordiosa d’un tempo prima del tempo, d’un uomo prima dell’uomo corrotto.

Oh! rasserena questi figli/Fa’ che l’uomo torni a sentire/ Che, uomo, fino a te salisti/Per l’infinita sofferenza.

Schiacciato sotto il peso del tradimento, l’uomo non può evadere dal proprio dolore e si ritrova a vivere una mezza esistenza essenzialmente da esso segnata: è rinchiuso in un circolo di dolore, che subisce e che procura, perché ne ha dimenticato il senso autentico. Del dolore, nella sua forma originaria, anche il Divino fa esperienza: la figura del Cristo rappresenta l’umanità del Divino sublimata per mezzo della sofferenza.

Sofferenza deriva dal verbo latino suffero che, accanto al significato di tollerare, sopportare un dolore e quindi soffrire, presenta anche quello di offrire, porgere, presentare: la sofferenza autentica, di cui anche Dio fa esperienza – e che l’uomo ha dimenticato-, è un dolore che dice già il proprio senso, la propria destinazione. È dolore che trova posto nella vita della totalità, che si colloca sin da subito in modo tale da non turbare l’armonia originaria, la misura.

Tramite la sofferenza si giunge al Divino, alla misura: «Sii la misura, sii il mistero».

Si è accolti in una dimensione che non è tanto semplicemente altra, assoluta rispetto all’umano: è piuttosto un abisso d’umanità, un oblio d’umanità in cui, smarrite le individuazioni determinate, cioè i patimenti singolari che affliggono e disegnano la persona umana, l’Umanità sia eternamente se stessa, una, armonica.

Ed è in questa dimensione che l’innocenza è di nuovo possibile come una rinnovata freschezza esistenziale. Ma si è detto che questa dimensione non è un piano assoluto, un livello ulteriore rispetto all’uomo; piuttosto – si è detto poco sopra- è la profondità dell’essere umano in cui si trova la sua più intima essenza.

Dunque, affinché l’uomo sia innocente, non è necessario che l’uomo vada oltre se stesso [3]; anzi, al contrario: è necessario, indispensabile che scavi dentro se stesso per ritrovare il proprio ἔθος (èthos), la propria configurazione essenziale, cioè la propria inviolabile identità con sé e con l’armonia cui è intimamente destinato; cioè che si vada finalmente al cuore dell’umano, dando il giusto valore alle sacrosante differenze che ci caratterizzano: impedendo, cioè, che la miniera della differenza sia campo di battaglia, che la vita sia trincea, che l’uomo sia disumano.

 Emanuele Lepore

NOTE

[1]GIUSEPPE UNGARETTI, La Preghiera, in Tutte le poesie, Sentimento del Tempo, Inni, Mondadori, Milano, 1986 (I ed. 1969).

[2]Giuseppe Ungaretti ( Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888- Milano, 1°giugno 1970) combattè nel XIX Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”, arruolatosi volontario quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio 1915. Altre informazioni bibliografiche – che pure sarebbero necessarie per una comprensione piena del poeta Ungaretti- vengono qui tralasciate, poiché non essenziali ai fini della prospettiva che si vuol proporre.

[3] Che sia fin troppo breve il confine tra oltre-uomano e dis-umano è riscontrabile nelle pagine più buie della storia dell’uomo.

La macchina dell’alienazione: i Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Luigi Pirandello

Il Manifesto del futurismo (1911) provoca la cultura italiana a una nuova attenzione nei confronti delle macchine e del progresso tecnologico. Poco dopo (1915) Luigi Pirandello dà un’originale lettura di questi temi nel suo sesto romanzo, pubblicato nella “Nuova antologia” col titolo Si gira…, che diventa nell’edizione definitiva del 1925 Quaderni di Serafino Gubbio operatore.

Il personaggio che dà il titolo al romanzo è un operatore presso la Kosmograph di Roma, un’immaginaria casa di produzione cinematografica. Lui stesso si definisce “una mano che gira la manovella”: il suo lavoro impone di mettersi al servizio di una macchina e registrare impassibilmente le scene che gli si svolgono davanti. Non ha un ruolo attivo nella vicenda: è un testimone che annota nei suoi quaderni le vicende dei personaggi costruendole in scene chiuse, quasi spezzoni di pellicola descritti dal suo sguardo lucido e spesso critico.

Al centro della storia la diva russa Varia Nestoroff, una femme fatale abituata a giocare a suo piacimento con gli uomini che le cadono ai piedi, pronta a distruggerli per un capriccio ma senza mai ricavarne un vero piacere. Alcuni anni prima, la Nestoroff era fidanzata del giovane pittore Giorgio Mirelli, che si suicida quando la donna cede facilmente a Aldo Nuti, un amico di Giorgio che voleva rivelargli la vera natura della donna. La Nestoroff è adesso legata al rozzo, geloso e violento attore Carlo Ferro, ma Nuti ritorna nella sua vita cercando di ottenere un ruolo nel film di ambientazione esotica La donna e la tigre. Approfittando dei timori di Ferro, Nuti prende il suo posto in una drammatica scena nella quale deve uccidere una vera tigre; ma davanti a un atterrito Serafino Gubbio che riprende con la cinepresa tutti i suoi gesti, punta l’arma verso Varia Nestoroff e la uccide, lasciandosi poi sbranare dalla belva.QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO - COPERTINA

Una storia con molti caratteri melodrammatici ispirati alle enfatiche storie del muto, ma che conferma alcuni temi tipici di Pirandello. La vera essenza dei personaggi appare sfuggente, ma non per il continuo gioco delle maschere con cui ognuno si adatta alle varie richieste della società. Qui sono gli stessi personaggi a sembrare incapaci di render conto di sé stessi: dello stesso Serafino Gubbio non sappiamo quasi nulla, a parte gli elementi del suo passato che giustificano il suo ruolo di testimone; gli attori recitano in storie senza capo né coda, senza nemmeno rendersi conto del ruolo della loro scena all’interno del film. E quando il lavoro è finito non si riconoscono nelle loro ombre proiettate sullo schermo, prive di ogni rapporto autentico con il pubblico.

Il fatto è che la macchina, per Pirandello, ha invaso l’ambito umano, costringendo gli uomini a sottostare alle sue leggi e alienarsi da sé stessi. L’unico “personaggio” che ancora appartiene a una dimensione vitale è la tigre, la cui potenza è destinata a essere sacrificata per un modesto spettacolo, per un gioco di inganni. E la tigre – vera immagine della vita alla quale nessuno dei personaggi è degno di accostarsi – riceve il più alto degli omaggi quando un violinista, come un novello Orfeo, suona davanti alla gabbia per ammansirla (è lo stesso violinista che, all’inizio del romanzo, abbandona la sua arte e si dà all’alcool dopo essere stato costretto a accompagnare un pianoforte meccanico).

E anche Serafino Gubbio, sconvolto dalla scena che ha ripreso, nel finale del romanzo perde la parola e si riduce al suo lavoro di alienato che muove la manovella: se pochi decenni prima la letteratura realistica credeva che fosse possibile una rappresentazione oggettiva della realtà, ora una storia viene raccontata per frammenti, in forma di appunto o di diario; l’unica oggettività è quella imposta da una macchina. Il dramma dei protagonisti diventa un film, uno spettacolo che sarà distrattamente consumato, e che farà discutere per il crudo realismo di due morti rappresentate in presa diretta.

Nel mutismo di Serafino Gubbio si scorge la fine di una letteratura convinta che le azioni umane siano dotate di un senso. La macchina da presa si limita a riprendere le cose senza cercare di spiegarle. Come dice Gubbio a un certo momento:

“Ah, se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è. Di questa vita senza requie, che non conclude”.

 

Giuliano Galletti

 

LUIGI PIRANDELLO, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Milano, Mondadori, 2000 (nella collana “Oscar tutte le opere di Luigi Pirandello”).

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Il romanzo giallo: intervista a Giuliano Pasini

Per scrivere bene, in versi come in prosa, niente eguaglia l’avere davvero qualcosa da dire.

Paul Brulat

Giuliano Pasini, nato a Zocca, nel cuore dell’Appennino emiliano, da quasi quindici anni vive a Treviso, dove si occupa di comunicazione e scrive.

Il suo primo romanzo è Venti corpi nella neve, ambientato a Case Rosse, un minuscolo borgo nell’Appennino tosco-emiliano e sede del commissariato più piccolo d’Italia, diretto da Roberto Serra. Non succede mai nulla fino alla notte del Capodanno del 1995, quando una telefonata sveglia l’agente Manzini in piena notte: ci sono tre cadaveri al Prà grand, uccisi senza pietà. Per il commissario comincerà un’indagine che lo porterà a rivivere il passato del luogo in cui si è rifugiato e ad affrontare i demoni che albergano in lui.

Nel 2013 torna Roberto Serra con Io sono lo straniero. Il commissario ha lasciato Case Rosse per rifugiarsi sulle colline del prosecco, a Termine: quattro case, tre strade, una chiesa, un cimitero e intorno solo vigneti. La vita di Roberto scorre lenta fino a quando, un giorno d’inverno dove incontra Francesca, una ragazza eccentrica e disperata che vuole convincerlo ad indagare su una giovane sparita nel nulla. Inizialmente il commissario non ne vuole sapere, godendosi la serenità ritrovata fra i vigneti, ma davanti a lui si delinea una scia di scomparse misteriose: tutte donne, tutte giovanissime, tutte straniere. Invisibili per la procura, per la polizia, per la gente. Roberto non può più scappare ed è costretto ad affrontare un’indagine che lo porterà a scrutare le acque nere dei laghi nascosti tra i vigneti, a scoprire che un passato irrisolto può allungare le sue dita fatali fino al nostro presente…

Il prossimo romanzo di Giuliano Pasini, terza avventura di Roberto Serra, vedrà la luce nel 2015.

Dal 2013 Pasini è presidente della giuria del Premio Letterario Massarosa, sommelier AIS per giustificare il suo amore per il vino ed ex maratoneta.

copertine

Il suo lavoro principale non è quello dello scrittore, giusto? Come ha iniziato a dedicarsi alla scrittura?

A me scrivere è sempre piaciuto moltissimo, ero uno di quei ragazzini che se dovevano dichiararsi ad una ragazza mandava una lettera, con esiti disastrosi. Nonostante quello ho continuato a scrivere, senza però trovare mai la costanza di mettere in fila le cose che scrivevo. Ho assistito qualche anno fa ad una presentazione di Loriano Macchiavelli, il padre di tutti noi che proviamo a fare i giallisti in Italia. Lui diceva che lo scrittore è un lavoro di ufficio: ci alza, alle 9 ci si siede alla scrivania fino alle 13, pausa pranzo e poi scrive di nuovo. Quando mi sono trasferito a Treviso, che per me è stata decisiva, avevo più tempo, non ero nella mia città di origine, non avevo il mio gruppo di amici. Allora mi sono chiesto come investo il tempo? Finalmente mi sono messo a scrivere una storia in fila. Dopo parecchio tempo sono arrivato a quello che poi è diventato Venti corpi nella neve, l’ho fatto leggere alla donna che nel frattempo è diventata mia moglie, mi ha detto che faceva schifo, io me la sono presa ma non ho divorziato perché mi sono reso conto che aveva ragione lei e c’ho lavorato ancora per molto tempo, fino a quando ho trovato il concorso IoScrittore del Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Un concorso interessante perché si poteva inviare il proprio dattiloscritto con uno pseudonimo: gli altri concorrenti leggevano il tuo scritto e ricevevi giudizi senza che nessuno sapesse chi eri veramente. Io mi sono iscritto appunto per questo, ma sono arrivato alla fine del concorso e mi hanno pubblicato il libro in e-book con il titolo Giustizia dei martiri. La vendita, per quanto nel 2010 si parlasse ancora di numeri piccolissimi per gli e-book, è andata bene ma nessuna delle case editrici del Gruppo ha voluto pubblicare il cartaceo. Ho cercato io stesso un editore trovando Fanucci Editore che, nonostante abbia molto fiuto nel trovare talenti, nel gennaio 2012 mi ha pubblicato Venti corpi nella neve. Il libro è entrato in classifica la prima settimana ed è andato benissimo. Da questo punto c’è stata un’accelerazione enorme: Mondadori ha letto il libro, gli è piaciuto e mi ha chiesto di lavorare ad un progetto su due romanzi con lo stesso protagonista. A marzo del 2013 è uscito Io sono lo straniero e a marzo 2015 uscirà quello nuovo.

Si aspettava così tanto successo?

No, assolutamente. Soprattutto nel periodo in cui è uscito Venti corpi nella neve quando era stata pubblicata una recensione molto positiva sul Corriere della Sera, avevo preso il quotidiano e leggendo l’articolo pensavo parlasse di un mio omonimo. Amo moltissimo la lettura, quindi dall’altra parte mi sentivo completamente spaesato. È anche difficile pensarlo perché non faccio lo scrittore di mestiere: dal lunedì al venerdì svolgo il lavoro di ufficio e negli altri momenti cerco di immedesimarmi nel mio mondo. Per riuscire a completare gli altri romanzi dovevo scrivere tutti i giorni alle 5 del mattino e a volte è veramente difficile, quando sono le 7, uscire dal mondo finto dei personaggi (in particolare lo è stato per il terzo romanzo perché è un mondo che non ho mai vissuto, al contrario del primo e del secondo ambientati in luoghi in cui sono nato e vivo) per mettermi giacca e cravatta e andare in ufficio.

Le piacerebbe che la scrittura diventasse il suo unico lavoro?

Allo stesso modo in cui mi piacerebbe fare sei al SuperEnalotto!

Vuole parlare dei suoi romanzi?

Sono tutti gialli con un forte radicamento nella storia. A me piace moltissimo il giallo perché è un genere contenitore, ci puoi mettere qualsiasi cosa. L’importante è che si costruisca questo contenitore nel modo giusto, con tutti gli elementi, perché il lettore si deve ritrovare e se manca un elemento. O sei bravissimo, ma ne conosco pochi di autori in grado di togliere ad esempio la scoperta del colpevole lasciando un finale aperto, o la storia non funziona. Quindi all’interno del giallo si può inserire una storia cupa o leggera, con cattivi o meno, con riscatto o senza riscatto; davvero qualsiasi cosa. Il mio obiettivo è quello di scrivere dei libri che, oltre a far divertire con 200 pagine, dopo averli chiusi facciano pensare alla storia che c’è sotto, anche solo per un minuto. Nel mio primo romanzo parlo della storia della Resistenza, dell’assurdità della guerra, in quello che comporta e delle ferite che lascia aperte dopo cinquant’anni; nel secondo, invece, di quanto sia pericoloso instillare nella gente l’idea che ci siano delle persone superiori ad altre per puro diritto di nascita, perché nella storia dalle parole poi si passa ai fatti, com’è successo davvero e continua a succedere; nel terzo romanzo il tema forte sarà quello della malattia mentale, del chi è matto. In un mondo di matti, c’è qualcuno di sano? I malati mentali sono stati considerati per molti secoli messaggeri degli Dei, perché riuscivano a vedere cose che noi non vedevamo e che l’uomo normale non capiva. Invece successivamente da un certo punto molto recente della storia sono stati rinchiusi in uno spazio ben definito.

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Ha qualche consiglio da dare ai giovani che aspirano a diventare scrittori?

Ho visto cos’è stato utile per me: la costanza. Avevo un’idea della scrittura che fosse la folgorazione sulla via di Damasco: ti viene un’idea e l’impulso irrefrenabile di metterlo sulla carta in quel momento e modo precisi altrimenti scappa, delle volte succede. Invece adesso è metodo, mestiere; avere la costanza ogni giorno di andare avanti. Io ho fatto tutti gli errori che un esordiente poteva fare. Per scrivere il primo romanzo ho impiegato cinque anni, per il secondo e il terzo due, perché inizialmente non avevo metodo, non facevo la scheda dei personaggi e non avevo nemmeno un’idea della trama, convinto che la scrittura fosse qualcosa di molto istintivo quando in realtà coinvolge molto di più la testa. Il mio consiglio è di prepararsi ad usare la testa per fare una cosa che comunque è tanto cuore. Ma testa, metodo e costanza sono essenziali. Il talento, credo, sia solo sudore e fatica.

Nella tradizione antica era l’oralità il mezzo di comunicazione preminente rispetto alla scrittura, oggi sembra che si abbia più ‘coraggio’ con la parola scritta. Secondo lei perché c’è stata questa lenta ma incessante inversione di marcia?

Sinceramente, come direbbe la mia professoressa di matematica delle superiori, è come paragonare mele e pere. Impossibile “pesare” scritto e orale paragonando civiltà in cui la capacità di scrittura era dominio di una ristrettissima élite e civiltà in cui è diventata la più popolare e democratica delle arti. Questo per tacere dell’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo. Siamo sicuri che se gli antichi greci avessero avuto Internet si sarebbero comportati diversamente da noi? Se invece ragioniamo in termini di funzione, mi spingerei a dire che la funzione dell’oralità della tradizione antica non era molto diversa dall’attuale funzione della parola scritta: portare notizie e conoscenze al pubblico più vasto possibile. Cambia solo il mezzo.

Uno dei limiti dello ‘scritto’ è quello che da solo non può scegliere i suoi interlocutori, non può difendersi da chi lo attacca e quindi ha sempre bisogno del soccorso del suo autore: è così anche per gli scrittori di gialli?

Diciamo che nei romanzi c’è abbastanza segmentazione: difficilmente un lettore acquista un giallo senza sapere che è un giallo, a meno che l’editore non abbia giocato sporco con titolo e copertina. Detto questo, l’autore non dovrebbe mai andare in soccorso della sua opera, è come spiegare una barzelletta: se dopo che l’hai raccontata, serve che tu fornisca l’interpretazione, significa che è venuta male. Così le storie che si scrivono.

Cosa pensa della Filosofia oggi? Per lei può essere uno strumento utile di riflessione per le nuove generazioni nel campo lavorativo e nella vita di tutti i giorni?

Ho fatto studi classici, per cui trovo utile tutto ciò che “apre la mente” delle persone. Per la vita di tutti i giorni, quindi, è uno strumento formidabile, ed appassionante per chi lo studia. Per ciò che concerne l’ambito lavorativo, però, la sfida dei laureati in filosofia è particolarmente difficile. Ovviamente oggi sono molto più richieste competenze tecniche e specializzate.

Con molte probabilità la nascita del genere giallo si può far coincidere con la pubblicazione, nel 1841, de I delitti di via Morgue di Edgar Allan Poe, in cui compare Auguste Dupin, la cui deduzione è talmente elevata da riuscire a risolvere i casi leggendo solamente i resoconti giornalistici. È sicuramente questo il personaggio a cui si rifà Arthur Conan Doyle nel creare il ben più famoso Sherlock Holmes, protagonista di Uno studio in rosso (1887), presumibilmente il primo romanzo giallo pubblicato. Da allora il genere ha conosciuto sempre più fortuna, numerosi sono gli autori che con esso hanno raggiunto fama mondiale: Agatha Christie, Georges Simenon, Raymond Chandler e Dashiell Hammett, fino ai giorni nostri e alle opere di James Ellroy, Ken Follett, Andrea Camilleri, per citarne solo alcuni. Ma la definizione giallo si utilizza solamente nella lingua italiana e ciò si deve alla collana Il Giallo Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929. Caratteristica di questa edizione sono, appunto, la copertina di colore giallo, che è diventata simbolo del genere stesso.

Il romanzo poliziesco ha prodotto peggiore letteratura che ogni altro genere di narrativa, salvo il romanzo d’amore, e probabilmente migliore letteratura che qualsiasi altra forma letteraria largamente accettata e apprezzata.

Così una volta scrisse Raymond Chandler e queste sue parole fanno pensare a quelle che spesso Giuliano Pasini si sente dire:

Tu, per essere un autore di gialli, non scrivi male.

Chandler morì nel 1959, ma questa frase fa capire come ancora oggi permangano gli stessi pregiudizi. Non tutta la letteratura ha ancora accettato il fatto che il giallo non sia un genere letterario subalterno, ma un filone più vivo che mai. Come ogni altro genere il poliziesco ha al suo interno opere eccellenti come pessimi esemplari. Ma poche correnti narrative hanno mostrato una vitalità pari a quella del racconto giallo. Un’inesauribile disponibilità a contaminarsi con altri generi, anche i più “alti”. E chi non è convinto di ciò dovrebbe pensare a due esempi del nostro recente passato: Sciascia e Gadda, che scelsero la forma del romanzo poliziesco per partorire dei capolavori della letteratura italiana.

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

Charles Bukowski

La verità profonda per fare qualunque cosa sta nella passione per quella determinata cosa che si intende realizzare: la passione muove la nostra vita e tutto permette di realizzare, come diceva Hegel

Niente nel mondo è stato fatto senza passione;

come ci ha dimostrato in questa intervista Giuliano Pasini che con costanza, determinazione e appunto passione ha realizzato il sogno di una vita.

Grazie Giuliano, è sempre un piacere parlare con lei!

Potete seguire i pensieri dell’autore sul suo blog personale www.giulianopasini.it.

Ilaria Berto

[Immagini a cura di Monica Conserotti]

“L’arte come emozione” Intervista ad Ale Giorgini – Illustratore e fumettista

Ale Giorgini è un giovane  illustratore e fumettista che vanta già decine di collaborazioni prestigiose tra cui: Warner Bros, Sony Pictures, Foot Locker, Emirates, MTV, Mondadori, Gruppo L’Espresso, Virgin Atlantic, e pubblica ogni mese le sue storie a fumetti su Focus Wild e Focus Junior.

Ha partecipato a mostre e performance in tutto il mondo da New York, Sidney, Los Angeles, San Francisco, a Roma, Milano e Firenze. Le sue opere sono esposte alla Hero Complex Gallery di Los Angeles e alla Bottleneck Gallery di New York.  É insegnante alla Scuola Internazionale di Comics. É il curatore di Illustri Festival.

Uno stile minimale il tratto semplice ed i colori nitidi, come se le figure fossero stampate magicamente sul cartone e poi colorate e ritagliate come in un collage infantile e preciso.Giorgini passa dal fumetto mainstream alle strice per il web, dalle illustrazioni geometriche che citano cultura pop, musica e cinema al fumetto politicamente impegnato, conservando sempre leggerezza e ironia. Read more