Consapevolezza e pratica di Mindfulness

Etimologicamente il termine consapevolezza deriva dal latino cum sapere. La sua traduzione potrebbe indicare un sapere insieme ad altri, nel senso di un confronto di prospettive ed esperienze provenienti da più viventi. In verità, credo che la parola denoti un fenomeno più intimo per cui l’essere informati o il semplice sapere non sono sufficienti. Si è lontani anche dalla conoscenza di tipo intellettuale così come da quella emozionale, che porta il conosciuto a livello del vissuto.
La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona. È quel tipo di sapere che dà forma all’etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche. È la costruzione originale del modo con cui ognuno si rapporta al mondo.

Interessante è la mappa della coscienza di Hawkins, nella quale sono indicati diversi livelli strutturali. Per semplificare, si incontra innanzitutto la coscienza della mente e del corpo. In essa rientrano le emozioni più basse: paura, rabbia, preoccupazione, tristezza, rimpianti e senso di colpa. Ad esse si accompagnano, però, anche emozioni legate ad un senso di positività che denota comunque il perdurare dell’attaccamento alla materia: speranza, fiducia, ottimismo e comprensione. Questo stadio è dominato dalla dualità, da binari paralleli che contrappongono piacere e dolore, giusto e sbagliato, buono e cattivo.
Dal dualismo si ascende alla coscienza dell’anima o consapevolezza di sé. L’anima avvolta da consapevolezza osserva senza giudizio. Vive nell’unità, includendo il tutto. Non vi è esclusione, non vi è dualismo. Questo stadio della coscienza è descritto da emozioni quali Amore, Pace, Beatitudine. È un risveglio, un essere testimoni e osservatori partecipi.
Infine, la coscienza del tutto. Tutto è luce, coscienza ed energia.

Ed è proprio sull’osservazione che si costruisce la pratica della Mindfulness: una dimensione esperienziale, scaturita da una pratica personale compiuta con un certo tipo di attenzione, che favorisce lo sviluppo dell’attitudine alla consapevolezza. Nella pratica della Mindfulness, fondamentale è il termine sati, di origine pali, non facilmente traducibile, in quanto non trova posto nell’ordine simbolico. È l’istante in cui si osserva qualcosa prima di collegarlo ad un contenuto simbolico nell’ordine mentale. È lo stato mentale che accompagna il momento dell’analisi delle caratteristiche della cosa osservata.
La consapevolezza è presente nella cosiddetta mente del principiante che guarda per la prima volta e presta attenzione agli stimoli sensoriali senza emettere giudizi. Il fulcro diviene proprio questa osservazione primordiale e senza preconcetti. Una volta riusciti in questo stadio, si è più vicini al passo essenziale che consiste nel “lasciar andare” ogni sensazione percepita senza respingerla, ma lasciandola scorrere per osservarla così com’è. Per fare questo, è necessario accettare la presenza della sensazione, per quanto possa essere positiva o negativa.
L’obiettivo della pratica è uno stato mentale attento, che osserva lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento. Siamo così testimoni primordiali, che guardano alla natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna al sé e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.
Si osserva come tutto è transitorio, nulla è permanente.

Lungi dall’essere una tecnica di rilassamento per svuotare la mente, è un atto che sviluppa la capacità progressiva di maggiore presenza al qui ed ora e che apre a esperienze inaspettate, alla ricchezza del momento presente, alla pienezza del vivere. Dall’altro, la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche il suo lato “negativo”: il disagio, la sofferenza, il dolore. Quest’approccio ci chiede e ci insegna di non respingere e a non negare questa dimensione ma a farne motivo di crescita. Questo è l’aspetto cui si riferisce la parola “accettazione/accoglienza”.

La negatività non può essere evitata e la pratica della Mindfulness offre una possibilità a prima vista contro intuitiva, forse assurda: accettare il disagio e la sofferenza, imparare a rivolgere piena attenzione a quello che non piace, che non vorremmo o che causa dolore. In questa prassi apparentemente incomprensibile di fare spazio, di lasciar essere e quindi di essere meno condizionati, meno oppressi anche dalle condizioni che portano disagio. E, paradossalmente, facendo questo forse ci si può mettere nelle migliori condizioni possibili per trovare, quando ci sono, le vie e i modi più efficaci per gestire o risolvere le cause di sofferenza.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Tiard Schultz via Unsplash]

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Il tempo giusto

Le parole del mito sono patrimonio transculturale dell’umanità. Attraverso una variegata miscela di suggestioni, ciascuna cultura elabora i propri miti che sono, in fondo, modelli di comprensione dell’esistenza umana. La narrazione del mito serve a tener vive queste parole e la ripetizione di schemi e figure fissa nell’ascoltare (o in generale nel fruitore) alcuni specifici insegnamenti. 

Con una certa periodicitá, mi accade di tornare a leggere i versi della storia di Leandro ed Ero, sui quali giá qualcosa avevo provato a dire. Mi hanno sempre suggerito un senso di attesa: divisi da un’infida lingua d’acqua, i due amanti sono costretti alla clandestinità. Nottetempo Leandro sfida i flutti, guidato da una lucerna tenuta viva da Ero. Egli sfida la tempesta una volta di troppo o, forse, nel momento sbagliato e viene condotto dai marosi sulla riva opposta, esanime, tra le braccia della sua amata. L’attesa lascia il passo all’audacia: nonostante il mare sia in burrasca, il giovane tenta l’impresa per amore di Ero. Avrebbe dovuto attendere, essere prudente, attendere un momento più propizio.

La sapienza occidentale sovrabbonda di indicazioni riguardo al tempo opportuno in cui agire, in cui collocare una determinata azione. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento propizio e uno nefasto? É sempre possibile, anzi, è sempre sensato attendere la venuta di un momento migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con la necessità del tentantivo?

Rileggere i versi di Ovidio, questa volta, mi ha suggerito che talvolta bisogna far valere la propria esistenza rispetto alle condizioni spazio-temporali in cui ci si trova: occorre situarsi nel tempo che abbiamo, senza sfiorire nell’attesa di un attimo in cui tutto parrebbe compiersi da sé. Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che occorre avvicinarsi, andargli incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore.

Emanuele Lepore

 

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