La bellezza educherà il mondo

Affermava Dostoevskij che «è la bellezza che salverà il mondo», non il maquillage. Eppure la cultura odierna sostiene il contrario: la cosmesi e i suoi trucchi salveranno il mondo con le mirabili opportunità offerte dalla chimica e dalla tecnica, dall’intelligenza artificiale e dalla chirurgia, dal wellness e dal body care. No problem. C’è una soluzione a tutto. Ma a quale prezzo?
Essere concentrati su vite da copertina, selfie e like, impone l’adozione di modelli convenzionali, codificati e replicabili. La cosmesi costruisce il mondo nel quale viviamo e ne definisce valori, ruoli e appartenenze. È l’inganno dell’effimero, prodigo di giudizi e insoddisfazioni. Crescere e vivere con l’ossessione dell’apparenza, non sentendosi mai adeguati e soddisfatti di sé è però estremamente dannoso e può determinare vissuti di insicurezza e di scarsa autostima.

La bellezza, invece, porta con sé e invoca il riconoscimento dell’alterità, dell’ulteriorità, dell’indicibile e del mistero. Afferma Bruno Forte:

«La bellezza scova, non cattura, suscita, non arresta, invoca, non presume» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007).

Hans Urs Von Balthasar parla perfino di una «bellezza disinteressata» (H.U. Von Balthasar, Gloria, 1. La percezione della forma, 1975) – disinteressata al calcolo, agli apprezzamenti, che non si allinea alle mode – lontana dal mondo dei profitti, dalla sua cupidigia e tristezza. Sì, la bellezza disinteressata alle logiche del mondo salverà il mondo, e lo farà con piccole ma rivoluzionarie azioni di speranza e di costruzione di futuro, educando e offrendo la possibilità di sguardi nuovi sulle cose, sulla storia, sul mondo, soprattutto per i giovani. E lo farà stupendo, provocando o disorientando, indignando o facendo sognare.

Il discorso sulla bellezza pronunciato da Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978, nel film I cento passi, esprime appieno questo concetto, anche nella sua dimensione etica e nelle positive ricadute sociali e politiche: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

La bellezza sembra allora evocare una sintesi inscindibile di vero, bene e bello. In un mondo senza bellezza perdono la loro forza di attrazione anche il vero e il bene, la capacità generativa di gioia e di storie.
Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non rassegnarsi alla disperazione e alla prosaicità, per resistere al logorio del tempo, per dare senso e valore ai giorni che riceviamo dalle generazioni precedenti, che viviamo nel presente e che doniamo alle generazioni future.

Nella storia dell’umanità sono stati diversi i nomi dati alla bellezza: l’ebraico tov che dice inseparabilmente bontà e bellezza; il greco kalós, il bello che attira a sé, amabile, che viene incontro; il latino pulcher, con il quale si indica un soggetto concreto: la bellezza è qualcuno, ma è anche fragile e finita. Sempre dal latino deriviamo un quarto nome della bellezza, formosus: bello è ciò che ha forma, dove la proporzione fra le parti rispecchia l’armonia. Con formosus definiamo la bellezza come ordine, armonia, pace. Dal germanico shön deduciamo l’idea di bellezza come irradiazione di luce, luminosità, splendore; dal termine bello l’immagine di una bellezza che si contrae nella debolezza (bello deriva, infatti, da bonicellum, ovvero “piccolo bene”); infine sublime, che induce alla visione di una bellezza elevata. Secondo Bruno Forte c’è un ulteriore nome della bellezza: «la bellezza oltre ogni bellezza, il silenzio di Dio oltre le tante parole degli uomini che cercano di dire l’indicibile» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007). La bellezza è sempre oltre.

E nel silenzio di Dio troviamo anche il silenzio di uomini e donne che quotidianamente, come buoni artigiani nelle loro botteghe, si fanno costruttori di bellezza, non di maquillage. È la bellezza che vive e si realizza nel cuore, nelle menti e nelle mani di ogni persona giusta e di buona volontà che forse non realizzerà mai un’opera d’arte nella sua vita, ma avrà fatto della sua vita un’opera d’arte.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Element5 Digital via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Dalla moda alla noia: intervista a Lars F. H. Svendsen

Intervistiamo il professor Lars F. H. Svendsen, filosofo norvegese classe 1970 autore di molti libri e docente all’università di Bergen, Norvegia. La sua riflessione filosofica riguarda numerosi aspetti della vita quotidiana di ciascuno, racconta in numerose pubblicazioni arrivate anche in Italia, alcune delle quali hanno riscosso un buon successo. Citiamo tra gli altri Filosofia della moda (Guanda 2006), Filosofia della paura: Come, quando e perché la sicurezza è diventata nemica della libertà (Castelvecchi 2017) e Filosofia per amanti degli animali (Guanda 2020).
Ecco cosa gli abbiamo chiesto.

 

Giorgia Favero – La moda ha come fondamento il nuovo di per sé, senza utilità né volontà estetica: per questo è irrazionale, perché persegue il cambiamento per il cambiamento. Considerando però i danni ambientali e sociali causati soprattutto dalla cosiddetta fast fashion, che rendono l’industria della moda una delle più inquinanti al mondo, ritiene possibile l’esistenza di una moda (sempre nel senso di abbigliamento) che vada di pari passo con l’ecologia?

Lars F. H. Svendsen – I vestiti economici sono prodotti in grandi quantità e non sono fatti per durare a lungo, inoltre sono inevitabilmente molto dannosi per l’ambiente. Tuttavia il fatto che la moda sia stata per così tanto tempo un riciclare la moda precedente significa che c’è un nuovo potenziale di durata pur restando sempre alla moda. Per cui direi che la cosa più utile per l’ambiente che possiamo fare è comprare ai mercatini dell’usato o di seconda mano degli oggetti di vera qualità e che quindi siano duraturi.

 

GF – Nel 1999 ha pubblicato il libro A philosophy of boredom (Guanda), in cui ad un certo punto scrive che «boredom can be like the voice of conscience». 11 anni dopo questa pubblicazione, metà del mondo ha vissuto più o meno lunghi lockdown a causa della pandemia da Covid-19: crede che possa essere stata l’occasione ideale per sperimentare questa “voice of conscience”?

LS – Credo di sì. Questa crisi taglia fuori così tanto della nostra vita quotidiana e ordinaria che abbiamo un’occasione per riorientare e ripensare noi stessi all’interno delle nostre vite. Poiché alcune fonti di significato non sono più disponibili, abbiamo l’opportunità di trovarne di nuove, e forse di più solide – dopo aver guardato tutto quello che Netflix e simili avevano da offrire. Emerge uno spazio nel quale uno può porsi la domanda: cos’è che mi interessa? Mi interessa quello che dovrebbe interessarmi?

 

GF – Il suo ultimo libro edito in Italia è “Understanding Animals: Philosophy for Dog and Cat Lovers” (Guanda 2020) e offre molti spunti interessanti che aiutano ad uscire – almeno per qualche momento – dalla nostra prospettiva antropocentrica. Ma per quale motivo secondo lei dovremmo provare a comprendere gli animali, soprattutto considerando che viviamo in un mondo in cui la stragrande maggioranza degli animali esistenti viene allevata per essere mangiata?

LS – Un punto fondamentale del libro è la dimostrazione che c’è molta più continuità tra la mente umana e quella animale rispetto a quello che i filosofi hanno sempre sostenuto. Perché dovremmo interessarci degli animali? Gli animali hanno dei comportamenti morali, nonostante gli animali ne abbiamo di diversi tra di loro, ma questo perché tra loro differiscono nel livello di qualità morali che posseggono. Gli animali che sperimentano il dolore non dovrebbero essere sottoposti al dolore quando non necessario. Gli animali con un ampio range di preferenze e di gusti dovrebbero veder riconosciute le loro preferenze, soprattutto quando allevati in cattività. Tuttavia, non credo che nessun altro animale che non sia l’essere umano abbia consapevolezza della propria finitudine, coscienza d’essere nati e che moriranno, e quindi non credo che uccidere animali non umani sia necessariamente sbagliato, anche se solo per essere mangiati.

 

Giorgia Favero – Professor Svendsen, qui in Italia siamo in attesa della sua prossima pubblicazione, Filosofia della menzogna (Guanda), prevista per marzo 2022. Vuole darci una piccola anticipazione?

Lars F. H. Svendsen – Il libro è una analisi approfondita sul mentire nella vita quotidiana. Che cos’è esattamente una bugia e in che modo essa si relaziona con fenomeni correlati? Inoltre indago l’etica del mentire, cioè perché mentire è considerato quasi sempre moralmente sbagliato, e perché è particolarmente sbagliato farlo nei confronti degli amici. Il libro si conclude con uno sguardo alla politica, dalla teoria di Platone della “nobile bugia” fino alla “Big Lie” di Donald Trump. Poiché concetti come “fake news” e “fonti alternative” riempiono i nostri feed social, la mia conclusione è qualcosa che forse sorprenderà: anche se occasionalmente mentiamo, noi siamo per la maggior parte delle persone degne di fiducia. Avere fiducia negli altri ci rende vulnerabili e sicuramente verremo ingannati qualche volta, però considerando tutto la fiducia e la vulnerabilità sono preferibili a una vita in un costante clima di sfiducia.

 

GF – Scorrendo i titoli dei suoi libri, è possibile riconoscere un approccio molto pratico alla filosofia, una volontà di parlare a un pubblico ampio ma in chiave filosofica di questioni che riguardano la vita di tutti i giorni. In Italia la filosofia è vista ancora molto come una materia astratta ed elitaria: lei professor Svendsen come definirebbe la filosofia a un pubblico di persone che non la conoscono?

LS – Facciamo tutti della filosofia, anche quando non vogliamo chiamarla filosofia. Non possiamo impedirci di fare speculazioni attorno a delle domande filosofiche e questo è il motivo per il quale Schopenhauer definì gli esseri umani come “animali metafisici”. Inoltre, tutta la filosofia comincia con un qualcosa di pre-filosofico che si trova nell’esperienza su cui fondiamo le basi della nostra riflessione. Considerando ciò, la filosofia può essere vista come l’atto di riflettere su un significato o sull’esperienza che facciamo di qualcosa che esiste. La filosofia trae il suo contenuto e la sua legittimità da qualcosa di cui è già stata fatta esperienza e che è dato per assodato: ciò è metodologicamente significativo perché significa che la filosofia deve mantenere sempre contatto con il pre-filosofico per essere legittima, anche se tendiamo a perderci in grandi astrazioni sempre meno tangibili. Spesso ultimamente perdiamo di vista l’esperienza alla base della nostra riflessione e questo tipo di filosofia manca di un punto cruciale: la sua origine. Secondo me l’origine della filosofia nella nostra vita quotidiana è fondamentale. Come scrisse Wittgenstein: «A cosa serve studiare filosofia se tutto ciò che fa per te è impedirti di parlare in modo plausibile di qualche astrusa questione logica ecc, e se non rafforza il tuo pensiero sulle importanti questioni della vita?». Io credo che il nostro pensiero su queste questioni possa essere rafforzato, e la mia missione è scrivere libri che cerchino di fare proprio questo.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

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Sensualità, frivolezza e modernità. Boldini a palazzo dei Diamanti

«Io sono un animale di lusso, il superfluo m’è necessario come il respiro»: questa la frase scelta per circondare le pareti della Sala 11 “La Diva” – dedicata all’irrinunciabile accessorio del guardaroba femminile, simbolo dell’eleganza appariscente da Belle Époque, il cappello – di Palazzo dei Diamanti a Ferrara che ospita fino al 2 giugno 2019 la mostra Boldini e la moda, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Museo Giovanni Boldini. Una rassegna volta a raccontare l’affascinante legame tra Boldini (Ferrara, 31 dicembre 1842 – Parigi, 11 gennaio 1931) e la sua città natale e a ripercorrere l’evoluzione stilistica del pittore. Ordinata in sezioni tematiche, ciascuna corredata da citazioni di letterati che hanno contribuito a fare della moda un elemento fondante della modernità, da Baudelaire a D’Annunzio, da Proust a Wilde, con oltre centoventi opere – dipinti, disegni, incisioni di Boldini e di suoi colleghi, tra cui Degas, Manet, Sargent, e abiti d’epoca, accessori preziosi, libri – la mostra, un intreccio di arte, moda e letteratura, immerge lo spettatore nelle atmosfere raffinate e nell’elegante edonismo della metropoli parigina.

Nella seconda metà dell’Ottocento Parigi è la quintessenza della vita moderna, punto di riferimento per la letteratura e per l’arte, e il cui correlativo è la moda, cantata da Baudelaire per la sua bellezza transitoria e fuggitiva. «Pittore della donna moderna» ‒ secondo la definizione della rivista di moda «Femina» del 1909 – Boldini sa fissare nelle sue tele lo spirito della sua epoca, catturandone quel fascino passeggero, esuberante e voluttuosamente elegante, segnato anche dalla moda, attributo distintivo della sua ritrattistica. Il pittore ferrarese si distingue infatti per il ritratto di società, conferendo ai suoi modelli un’allure speciale e di sapore mondano a prescindere dal loro censo.

Il talento dell’artista eccelle in particolar modo nella raffigurazione dell’abito nero, simbolo di distinzione e di mistero, protagonista della moda maschile e femminile di quegli anni, come si vede ad esempio nel ritratto di Cecilia de Mandrazo Fortuny, sposa del pittore catalano Mariano Fortuny i Marsal e madre del pittore, scenografo e fotografo, Mariano Fortuny, stilista in voga della Belle Époque. L’abito nero ritorna anche nel ritratto dell’avvenente attrice di teatro Alice Regnault, L’amazzone, immortalata a cavallo al Bois de Boulogne con un trasgressivo vestito da amazzone, unico indumento femminile confezionato da sartorie maschili per permettere alle signore di cavalcare senza scoprire le gambe.

Con le trasformazioni sociali della seconda metà dell’Ottocento, l’eleganza non è più appannaggio esclusivo dell’aristocrazia ma segno distintivo delle classi sociali in ascesa e in cerca di affermazione. Per le donne poi la moda è un mezzo di espressione della propria personalità e simbolo delle convenzioni che scandiscono i vari momenti della vita, come nel caso di Isabel Archer, protagonista del Ritratto di signora (1880-1881) di Henry James, citato per racchiudere lo spirito della Sala 4 “Ritratto di signora” appunto: «So che gran parte di me è nei vestiti che scelgo e che indosso». Spesso molte giovani abbienti parigine, o che si recavano nella capitale francese per rinnovare il guardaroba dai grandi couturier, posavano per un ritratto, e Boldini, come Whistler e Sargent si distingue per i suoi ritratti a figura intera che esaltano la femminilità. È il caso della Signorina Concha de Ossa, esposto in occasione dell’Esposizione Universale del 1889, e il cui successo segnò l’affermazione ufficiale del pittore ferrarese.  

Sensibile ai continui cambiamenti del gusto nella moda femminile, Boldini emerge nella rappresentazione di figure in déshabillé, come nel caso della Signora in rosa sul divano: in un’atmosfera informale e di rilassatezza una signora è assopita tra i cuscini di un divano avvolta in una vestaglia o in un tea-gown, l’abito da tè usato per ricevere gli ospiti più intimi, bordato di pelliccia. Dopo il tramonto della crinolina, capo d’abbigliamento che esalta la silhouette e sollecita l’immaginazione degli artisti è il corsetto, vero oggetto di seduzione, come si vede nella tela di Paul Helleu, Elegante di spalle con corsetto: un’ignota modella è raffigurata di schiena, in un primo piano ravvicinato, nell’atto di sfilarsi il vestito lasciando così intravedere il corsetto, complice strategico dell’abbigliamento femminile del tempo.

Non solo «pittore della donna moderna», Boldini è anche l’artista di alcuni quadri emblematici, come i ritratti di Lady Colin Campbell, seduttiva e emancipata, dell’esteta e dandy Robert de Montesquiou, e dell’amico pittore James Whistler. Artista e modello, in questi casi, si riflettono in un gioco di specchi nel reciproco processo di auto-affermazione della propria immagine pubblica. Gertrud Elizabeth Blood (1857-1911), che con la sua richiesta di divorzio da Lord Colin Campbell denunciò l’ipocrisia e la doppiezza della società vittoriana, in una lettera al pittore ferrarese scrive: «Tutti i pittori a Londra sono sul chi vive per questo ritratto. È opinione generale che Boldini sia il solo che possa farlo. A noi due dunque!». Il committente sceglie quindi il pittore à la page per raggiungere un dato risultato stilistico e veicolare un particolare messaggio e l’artista sceglie determinati soggetti in base alla notorietà per accrescere la propria fama. Quanto al conte Robert de Motesquiou-Fézensac, Boldini lo conobbe nel 1890 nel momento in cui il dandy si apprestava a posare per Whistler, per due ritratti, uno in nero – oggi alla Frick Collection di New York – e uno in grigio, incompiuto. Da qui quindi il quadro di Boldini, che sembra aver realizzato, in una tela emblematica, l’impresa mancata di Whistler. Ed è proprio l’autore di Les hortensias bleus (1896) che nel primo numero della rivista di moda, lusso e high life, «Les Modes» nel 1901, inaugurando la serie dedicata ai Pittori della donna, definisce Boldini il ritrattista della Parisienne della Terza Repubblica, capace di catturare l’essenza della femminilità, come nel caso della tela, riprodotta sulla rivista, Madame R.L., dove un’anonima “professionista della bellezza” dell’alta società è ritratta seduta con tailleur da passeggio, cappello e parasole.

Artista della sofisticata élite cosmopolita che gravitava nei salotti parigini, del raffinato spirito aristocratico, dello snobismo e della mondanità – che qualche anno dopo Marcel Proust avrebbe raccontato in À la recherche du temps perdu – Boldini alla volta del primo decennio del Novecento diventa più audace, valorizzando l’avvenenza dei corpi, con movimenti serpentini, promuovendo un canone femminile slanciato e elegantemente nervoso. È il caso di Miss Bell, tela che incanta la Sala 9 “Il tempo della mondanità” dove campeggia una frase proustiana «La frivolezza di un’epoca, quando le son passati sopra dieci secoli, è degna della più seria erudizione»: identificata con l’attrice Jeanne Marie Bellon, la misteriosa figura è resa in modo vivace e disinvolto colta con un’inquadratura dall’alto verso il basso.

Durante gli anni antecedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, Boldini registra il cambiamento nel gusto del vestire con abiti dalle linee più rigorose e dai tessuti più decorati e preziosi. Con la complicità di alcune personalità fuori dal comune, come la modella inglese Lina Bilitis e l’eccentrica marchesa Casati, vere icone di moda ante litteram, Boldini dà vita a una nuova iconografia muliebre, rappresentando una donna emancipata, fatale, da ammirare. Si pensi al quadro Lina Bilitis con due pechinesi, esposto al Salon du Champ de Mars del 1913, recensito anche da «Vogue America» per la capacità del pittore ferrarese nel rendere la lucentezza delle sete, nere e verdi, dell’abito, o alla tela La marchesa Luisa Casati con piume di pavone, che ritrae Luisa Adele Rosa Maria Amman, sposa del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, da cui ottiene il divorzio, amica e amante di D’Annunzio, musa di Giacomo Balla e Man Ray. Donne dagli occhi grandi e dalle labbra languidamente socchiuse, in pose sensuali, che anticipano il cinema e la fotografia glamour degli anni Venti e Trenta, trovano già in Boldini uno dei maggiori interpreti di quella femminilità che ha caratterizzato un’epoca mitica.

 

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Rossella Farnese

 

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La cucina della verità: intervista a Gualtiero Marchesi

Quando abbiamo cominciato a costruire il numero #4 della nostra rivista cartacea sul tema del cibo e delle tendenze alimentari ed enogastronomiche, abbiamo pensato che la ricerca filosofica non potesse non interfacciarsi con chi rende ogni giorno viva la cucina: gli chef.  Personalità poliedriche, dalle grandi abilità tecniche e dalla profonda attenzione per il mondo circostante, riescono a riprodurre e rappresentare in un piatto il pensiero che gli è più proprio. Filosofi del mondo culinario, interpretano la realtà attraverso i loro piatti e la lavorazione delle materie prime. Proprio perchè la nostra ricerca non poteva prescindere dalla voce degli chef, non poteva prescindere nemmeno dal più grande maestro della storia della cucina italiana: Gualtiero Marchesi.

Il suo curriculum, una sorta di cursus honorum del mondo della gastronomia e della ristorazione, è lungo e sensazionale, così come l’elenco dei premi e dei riconoscimenti ricevuti, sia come chef che come persona e come rappresentante nel mondo della cultura italiana. Possiamo riscontrare l’impronta di Gualtiero Marchesi in moltissime città del mondo, ma noi oggi lo ringraziamo soprattutto per la fondazione di ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, di cui lui è stato un grande promotore e rettore sino a quest’anno: ha aperto i battenti nel 2004 in un bellissimo palazzo vicino Parma e con la guida di Marchesi regala al mondo alcuni tra i migliori professionisti del settore. Nel 2010 nasce la Fondazione Marchesi, «nido d’arte per i bambini e scuola creativa per i cuochi», mentre risale al 2014 la nascita dell’Accademia Marchesi, un progetto complementare ad ALMA e che rappresenta «un luogo di studio, di apprendimento e di sperimentazione dove formare i cuochi e divulgare i principi di una sana alimentazione, dove la cucina e l’arte, in tutte le sue manifestazioni, dalla musica alla scultura, alla pittura, all’architettura, al teatro… possano contribuire alla definizione del buono e del bello, coinvolgendo sia gli adulti sia i bambini».

Gualtiero Marchesi è uno degli esempi in cui cucina e filosofia sono a stretto contatto, in cui non può darsi una vera cucina senza un pensiero forte alle sue spalle. Un pensiero che si fa percorso e quindi esperienza attravero le materie prime, la loro lavorazione e la loro fruizione estetica nel piatto. Abbiamo avuto l’onore di riflettere sullo stato del mondo contemporaneo e di come la cucina debba essere una cucina della verità, in cui aristotelicamente parlando, materia e forma rilevano l’essenza del piatto. Una cucina che diventa specchio della nostra realtà e della necessità di riscoprire un rapporto sincero, vero e genuino con il cibo. Grazie Maestro!

 

La sua esperienza si è sempre intrecciata all’amore, alla passione e curiosità per l’arte: dalla pittura, scultura, alla letteratura sino alla musica. In che modo il Bello e il Buono possono coesistere in modo equilibrato? Evitando così che l’estetica si innalzi a un culto e che i cuochi si trasformino in solo esteti.

Il segreto dell’arte è proprio questo: illuminare in maniera simbolica il rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e la vita, la storia, la morte.  Per questo motivo, l’arte non è distrazione, né capriccio: serve a raccontare grandi e piccoli misteri. Ridurla a qualcosa di decorativo, di futile, è come non usarla o sprecarla. L’espressione artistica si raggiunge quando si governa la tecnica talmente bene da dimenticarsela. Per questo serve studiare, formarsi, in cucina come nelle diverse arti.

La dimensione educativa e formativa è per Lei una parte fondamentale e determinante per il percorso di un cuoco e paragonando la cucina alla musica afferma che prima di tutto bisogna giungere nella condizione di essere ottimi esecutori e poi alla fine aspirare a diventare profondi compositori. Quali sono le caratteristiche che fanno di un cuoco oggi un abile compositore?

Trovo che ci siano delle somiglianze tra cuochi e musicisti, poiché ambedue lavorano sodo e di notte, devono conoscere a fondo la tecnica e saper riprodurre con esattezza una ricetta che è come uno spartito. Io apprezzo i buoni esecutori, i cuochi che sanno cucinare, che non steccano. L’interprete si trova un passo oltre. Un ruolo destinato a pochi, mentre i compositori, in grado di creare, quelli sono veramente rari. I piani di studio dell’Accademia Marchesi si basano su queste premesse.

Lei afferma che «La cucina non è un fine ma un mezzo. È uno dei linguaggi con cui parlare a se stessi e al mondo». Considerando le profonde trasformazioni socio-culturali che hanno attraversato e tutt’ora attraversano la nostra società, possiamo dire che la cucina ha anche il dovere di raccontare i cambiamenti che interessano l’individuo e la società tutta? Può individuarci due momenti storici particolari in cui la cucina ha cambiato sé stessa in funzione dei bisogni dell’uomo e della sua società?

riso-oro-e-zafferano_La chiave di SophiaCon la caduta dell’Ancien Régime, i cuochi di corte si sono ritrovati disoccupati e si sono messi in proprio. La grande ristorazione nasce dalla Rivoluzione francese. In Italia, il cambiamento avviene quando, nel ristorante di via Bonvesin de la Riva, a Milano, nasce la Nuova cucina italiana, non più succube dei ricordi di fame, della guerra, della quantità immediata a discapito della qualità.

Erano ormai cambiati i ritmi e gli stili di vita, l’apporto calorico poteva essere ridimensionato, studiate meglio e applicate le giuste cotture, rendendo il piatto leggibile, curando la composizione, i rapporti tra vuoti e pieni, tra i colori, le forme del cibo e la forma del piatto. Non a caso, ho sempre disegnato piatti e stoviglie per ottenere un’armonia visiva e concettuale. La materia è forma e il contenuto è il suo contenitore. Solo così l’esperienza ri-creativa e sapienziale della cucina diventa totale e quindi anche estetica.

Viviamo in un’epoca in cui ogni informazione è presa e consultata sul web: da un lato proliferano i blog di cucina, siti internet dove trovare ricettari e vademecum culinari, dall’altro ogni nostra esperienza, compresa quella enogastronomica, è mossa e influenzata da siti e realtà come TripAdvisor dove la recensione e il feedback da parte di altri utenti-consumatori diventa la premessa fondamentale dalla quale prendere le nostre scelte. A Suo parere, perché ritiene che l’uomo abbia bisogno innanzitutto del parere soggettivo altrui nel giudicare un luogo, un ristornate o un locale? Non abbiamo dimenticato forse quello spirito di curiosità e scoperta che ci caratterizza?

Pensiamo solo alla fissazione di fotografare tutto quello che mangiamo. Il web è sommerso di foto di piatti. Credo che questa paranoia sia l’effetto di un bisogno estremo, di una paura da esorcizzare, facendo quello che fanno gli altri, unendosi al branco. Muoversi con la massa rassicura, maschera l’angoscia di non essere accettati. La tomba dell’originalità!

Al fine di tutelare, custodire e raccontare una cultura della cucina vera, secondo Lei, verso quale direzione l’informazione, il giornalismo e la comunicazione in generale dovrebbe muoversi?original_raviolo-aperto-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophia

L’informazione è diversa dal consumo di informazioni. Fare cultura richiede una certa preparazione e soprattutto curiosità e sincerità.

Ho sempre sostenuto, anche polemicamente, che al posto dei critici, spesso incapaci di cucinare alcunché, avremmo bisogno di più cronisti, gente che sappia raccontare cosa ha visto, ha sentito e mangiato, magari aggiungendo anche il perché e il per come di un piatto, ciò che pensava in quel momento il cuoco.

Quali sono state le tendenze in grado di affermarsi nel panorama culinario italiano e che hanno sviluppato un loro pensiero, rispondendo ad un reale bisogno e non semplicemente imponendosi e scomparendo come una semplice moda?

Bisogna sempre partire dal passato, dissetarsi alla sorgente per riuscire a capire il futuro. Rileggere le ricette della tradizione, attualizzandole, alleggerendole, senza pasticciare e giocare con le apparenze. Restare legati al clima. Se lavoro al mare non posso proporre una cucina alpina e viceversa. Scegliere sempre il meglio che offre il mercato, seguendo le stagioni, quando i frutti della terra raggiungono la pienezza del gusto.

Il resto è moda, va e viene.

Si può affermare che è cambiata la testa e soprattutto il palato delle persone, non si mangia più per fame ma per appetito e questo sposta sempre più il centro dei comportamenti dal mondo dei bisogni a quello dei desiderio, potremmo dire “dallo stomaco alla mente”, assumendo un nuovo punto di vista sull’oggetto del cibo a quello della cultura. A questo proposito e in risposta alle richieste di un nuovo consumatore sempre più attento, come risponde la ristorazione tradizionale? E quali sono i suoi criteri di scelta?

Non sarei così sicuro che il cambiamento sia concluso, è ancora in atto. Per questo è necessario dedicarsi alla ricerca e alla formazione sia dei consumatori sia dei cuochi. Ricordiamoci, anche, che la globalizzazione comporta e comporterà un sempre maggiore meticciamento della cucina, a partire dagli ingredienti. Non è facile stabilire dei criteri di scelta, validi oggi e tra dieci anni. L’unica cosa che si può ribadire è che la forma è materia e la materia è forma, che il buono è anche il bello.

Quali sono secondo lei i valori fondamentali della cucina italiana e del sistema agroalimentare italiano?

Come dicevo prima, l’estrema varietà. Siamo un Paese lungo e stretto, percorso da microclimi diversi, addirittura opposti, storie di persone e modi di pensare multiformi. Sembra una debolezza ma è una forza. Questo continuo confronto e il peso specifico di una grande civiltà ci hanno regalato il senso della misura, la percezione di cosa sia l’eleganza che non ha nulla a che vedere con lo sfarzo, l’esibizione del lusso. Siamo mediterranei e greco-romani, viviamo in uno spazio dove la prima regola è riconoscere il limite e trasformarlo da ostacolo in opportunità e − perché no? − in bellezza.

È importante anche riflettere intorno al nuovo senso dello stare assieme, trovando un motivo di aggregazione nell’identità del cibo consumato, diventando anche una paradossale sollecitazione etica oltre che intellettuale. Qual è la Sua posizione sulla ritualità dei pasti e sul valore aggregativo del cibo?

original_rosso-e-nero-coimbra-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophiaIn passato, il rito del cibo si svolgeva in casa, perché la casa paterna era il vero, indiscusso, centro del mondo. Oggi, non credo che questo legame sia, fatte le debite eccezioni, più forte. Prevale, secondo me, il desiderio di trasformare i dettagli in rito. Forse, la modernità è afflitta da una vera e propria crisi di nostalgia più che per le cose in sé, per quello che rappresentano. Il consumismo si basa sull’apparenza. Possedere, imitare è più sbrigativo che essere o avere qualcosa, perché ce lo siamo conquistato.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno e anche pratiche quotidiane come la cucina.  Lei che cosa pensa della filosofia?

Mi piace, innanzitutto, che la parola abbia a che vedere con il concetto di amore verso qualcosa. Amore della conoscenza. L’unico modo per onorare la nostra umanità.

 

Martina Basciano e Elena Casagrande

Photo credits ritratto: Luisa Valieri

Sulla nostra rivista #4 articolo speciale di Gualtiero Marchesi, per leggere qui

 

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Arte e fenomenologia delle emozioni: la prospettiva di Andrea Bruciati

In occasione della doppia mostra trevigiana Lost in Arcadia, allestita al Museo Bailo e da TRA – Treviso Ricerca Arte, intervistiamo Andrea Bruciati, curatore, storico dell’arte e nuovo direttore di Villa Adriana e Villa D’Este a Tivoli. Riferimento della scena artistica italiana, Bruciati ci racconta la sua idea di arte come fondamentale strumento di lettura della realtà e macchina di pensiero, ed invita il pubblico a sviluppare un dialogo più soggettivo ed intimo con le opere.

 

Nella sua professione di storico dell’arte e di curatore deve essere capace di trovare i giusti riferimenti nel passato, ma anche di rielaborare e presentare questi stessi stimoli in un’ottica attuale. Come si può dunque costruire il dialogo tra storia e contemporaneità?

L’artista è sempre un pioniere, deve essere in grado di sperimentare e fare ricerca, spingendosi aldilà delle conoscenze prestabilite, mettendosi in discussione e cambiando i canoni del nostro immaginario. Ma questo lavoro sono in grado di compierlo solo i grandi maestri che sanno da dove vengono e chi sono. La storia e la memoria sono i punti di partenza fondamentali perché solo con profonde radici si possono costruire grandi architetture di pensiero. L’importante è che il passato non rimanga un riferimento passivo ma che si faccia vivo ed edificante. L’artista infatti deve compiere una rielaborazione personale della storia, per rispondere ad inquietudini del presente e cercare risposte per il futuro.

Spesso i giovani artisti scelgono la strada del facile consenso, ovvero percorrono istanze già sperimentate per inserirsi nella moda del momento. In questo caso possiamo parlare di contemporaneità derivativa perché manca la parte di ricerca e rielaborazione personale. E non è il tipo di lavoro che personalmente mi interessa.

L’hanno spesso definita difensore e promotore di un fare dell’arte tutto italiano, ma in un mondo globalizzato come quello attuale, può esistere una realtà italiana in grado di confrontarsi come corpus unitario con modelli esteri? D’altronde i grandi movimenti storici che si sono generati in Italia con risonanza internazionale, come l’arte povera o la transavanguardia, fanno ormai parte del passato.

Oggi l’artista ha un linguaggio trasversale e internazionale, poiché viviamo in un mondo dove ovunque possono arrivare le informazioni e nuovi stimoli. Però, riprendendo anche il precedente discorso sull’importanza dei riferimenti storici, dobbiamo sempre sapere chi siamo. Se un artista ha successo all’estero è perché trae in maniera vivificante dei semi, una koinè (lingua comune, n.d.e), dalla sua storia. Prendiamo ad esempio Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, o Vanessa Beecroft. Sono tutti artisti italiani che hanno rielaborato delle specificità attraverso la nostra cultura: tramite l’ironia, nel caso di Cattelan, che si presenta come una specie di Pinocchio del Ventunesimo secolo, o parlando della donna attraverso la moda, come nel caso della Beecroft; o ancora, affrontando un discorso legato ad un vintage del nostro immaginario, ad un passato perduto, come con Vezzoli.

Poi da curatore posso anche fare un altro tipo di discorso. Ci troviamo in un sistema internazionale in cui tutti difendono i loro artisti, quindi è naturale per me cercare di portare avanti i nostri. In questo caso è puramente una questione di politiche culturali: certamente artisti anglosassoni e tedeschi in un panorama internazionale si trovano spesso più avvantaggiati. Poi, aldilà di tutto, credo che la qualità della ricerca sia sempre la cosa più importante, ed è un valore che non ha bandiera.

In una precedente intervista ha affermato che la cultura è il valore etico su cui una comunità sana si costruisce. In che modo si crea un dialogo con il pubblico senza scendere a troppi compromessi con scelte commerciali?

Secondo me la responsabilità è degli organi di formazione della collettività, a partire proprio dalle basi, quindi dalle scuole. Oggi il linguaggio visivo è la nuova forma di analfabetismo. Non riusciamo spesso a distinguere lo stimolo che ci proviene da una bella immagine pubblicitaria da quello di un’espressione artistica, perché non abbiamo dei parametri valutativi. L’educazione è quindi la risposta per conferire all’individuo gli strumenti per capire quando un’espressione è ricerca, che va aldilà di quello che noi vediamo, e quando invece è massificazione dell’immagine. Un’immagine che in questo caso ci deve piacere e sedurre per vendere. L’arte deve essere invece uno strumento che ci aiuti a interpretare la realtà che ci circonda e non estetica fine a se stessa.

Se l’arte deve essere in grado di dirci qualcosa, quali sono i valori che rendono un’opera costruttiva in una prospettiva sociale? Dal suo personale punto di vista, vale di più la partecipazione collettiva, forse oggi la scelta più diffusa o comunque con più risonanza mediatica, o la riflessione autonoma?

Credo che l’arte debba sempre rivolgersi alla fruizione in modo attivo, invitando il pubblico a riflettere. Ma nelle mie scelte come curatore prediligo un pensiero suggerito, a partire dal singolo artista, dalla sua soggettività e intimità. È una forma di comunicazione fortemente diversa da quella del manifesto d’avanguardia, per esempio, ma non per questo meno efficace, penso che il fruitore debba avere la libertà di interpretare ciò che vede. Quando organizzo una mostra mi piace considerarla una piattaforma di pensiero propedeutica alla cittadinanza, quindi funzionale alla riflessione, ma dove ognuno è libero di intraprendere il percorso di ricerca che preferisce e più consono al suo essere.

Che cosa consiglierebbe a quei pochi giovani coraggiosi che scommettono ancora sulle carriere umanistiche e che desiderano inserirsi nel settore dell’arte in qualità di storici, teorici o curatori?

Bisogna avere molto coraggio, tracciare delle nuove strade. È un po’ lo stesso discorso fatto con gli artisti: o ti adegui a quello che il sistema dominante ti impone, oppure sviluppi delle ipotesi di pensiero personali.  Direi di non aver paura di indagare diversi campi di studio e di avere una certa versatilità, il settore va preso da tanti punti di vista.

In una realtà come quella italiana in cui le istituzioni sono le prime che sembrano non credere nel valore e nel potenziale della cultura, c’è ancora spazio per questa sperimentazione di cui parla?

È vero che in Italia la situazione è difficile, il sistema del Paese non aiuta. Andarsene però è una sconfitta, per quanto mi riguarda ho una forma mentis un po’  “Don Chisciottesca”, e credo che anche tra le difficoltà basti un piccolo passo per offrire un po’ di linfa vitale. Noi, che lavoriamo in questo settore, in fondo trattiamo di elaborati culturali ed estetici, oltre che certo dati scientifici e storici, ma dobbiamo soprattutto imparare a muoverci con altri strumenti, forse più legati alla nostra soggettività. Da una parte penso sia sempre arricchente fare un’esperienza di studio o professione all’estero, dall’altra se l’arte contemporanea necessita di problematicità, forse questo è il Paese ideale dove l’arte può svilupparsi. I limiti possono rappresentare uno stimolo.

Oltre ad una ricerca estetica personale che è l’essenza stessa della sua professione, come si relaziona nel quotidiano il suo lavoro con un’indagine di tipo filosofico?

L’arte è conoscenza emotiva e inintelligibile, la mia è una ricerca rivolta alla fenomenologia delle emozioni. Non mi interessa la logica fine a se stessa, ma piuttosto se funzionale al miglioramento della condizione dell’uomo.

 

Claudia Carbonari

[Immagine tratta da Artribune.com]

 

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Il capitalismo veste Prada

Il potere pervasivo della moda porta molti a sentire l’esigenza di prenderne le distanze. Mi riferisco a coloro che sono intenzionalmente “fuori moda” e si considerano al di sopra di quest’attività, che nella migliore delle ipotesi ritengono una frivola perdita di tempo, nel peggiore un’ossessione per la superficialità.

Il filosofo tedesco Simmel nel suo saggio Moda e metropoli dà una lettura poco lusinghiera dei “fuori moda”, spiegando il fenomeno in due modi possibili. Secondo il primo, chi vive intenzionalmente fuori moda lo fa perché ha una personalità debole, che teme di perdere adattandosi ai gusti della collettività e di vedere assorbita dagli oggetti. Infatti Simmel ritiene che nella nostra epoca lo spirito oggettivo rischi spesso di soffocare quello soggettivo. Gli oggetti sono investiti di un potere e di un’importanza superiore a quella degli individui. Spesso sentiamo dire da qualcuno che il modo in cui si veste rispecchia ciò che è, la sua soggettività appunto; un vestito dovrebbe rimanere un veicolo dell’individualità, un modo per metterla in luce. Ma c’è chi, non del tutto a torto, teme che un abito troppo elaborato finisca per strozzare la sua individualità, che sente magari già debole.

L’altra interpretazione che Simmel dà è meno originale, ma forse più veritiera. Essere fuori moda non è che una forma di moda. «Chi vuole essere fuori moda accetta il contenuto sociale esattamente come il fanatico della moda, dandogli però la forma della negazione anziché dell’intensificazione»1 . Come l’ateismo più radicale spesso si rovescia in una fanatismo simile a quello religioso, così chi evita i gusti della collettività cerca in realtà un modo diverso per affermare la propria personalità attraverso i vestiti.

Lars Svendsen in Filosofia della moda nota che molti movimenti contro-culturali, nati per rivendicare spazi di trasgressione e anticonvenzionalità, finiscono per essere assorbiti dal sistema. Per esempio lo stile punk ha conservato per poco tempo il suo potenziale anarchico, iniziando molto presto a comparire su riviste di moda, fino a diventare un fenomeno di massa.

«Nuove sottoculture creano nuove mode e tendenze a cui l’industria poi attinge. La sottocultura o controcultura è diventata la migliore amica della moda e del capitale»2.

Si può essere fuori moda ma non vivere fuori dalla moda. Lo spiega con lucida freddezza Meryl Streep in Il diavolo veste Prada. Con spietata ironia la Streep, nei panni della direttrice di una rivista di moda, dice alla sua segretaria, una sciatta Anne Hathaway, che mettersi un maglione infeltrito per «gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso» è ridicolo. Perché quel maglione è color ceruleo. E il ceruleo è stato usato per la prima volta nella collezione di Oscar de la Renta, seguito da Yves Saint Laurent prima e da diversi altri stilisti poi, fino ad arrivare in un “tragico angolo casual” da cui lei lo ha pescato. Perciò «siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori delle proposte della moda».

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Nel sistema capitalista pensare di vivere senza avere nulla a che fare con la moda non è possibile, sarebbe un po’ come voler sopravvivere senza sporcarsi le mani con il denaro. La moda è una delle regole del capitalismo, lo strumento con il quale esso produce rapidamente obsolescenza, cioè trasforma oggetti seminuovi e perfettamente funzionanti in anticaglie da sostituire al più presto. È evidente che non ha alcun significato che un anno sia di tendenza il verde acido e quello successivo il grigio antracite, in questo non c’è alcuna ricerca della bellezza né tantomeno della funzionalità. «La moda è irrazionale nel senso che persegue il cambiamento, e non ai fini di migliorare l’oggetto»3 , ma «la sua essenza è il cambiamento per il cambiamento»4.
Poiché la moda è una condizione così radicata nella cultura e nell’economia in cui viviamo, pretendere di esserne al di sopra non ha molto senso.

«Non esistono fuori dal mercato. Non possono starne fuori. Non esiste un fuori. La cultura del mercato è totale»5.

La visione che Don DeLillo ci offre in queste righe di Cosmopolis è volutamente apocalittica. Non è però obbligatorio condividere i suoi toni pessimisti. Riconoscere l’esistenza di una regola, come i dettami che la moda volenti o nolenti ci impone, è il primo modo per ridiscuterle criticamente. La scelta non è tra dichiararsi al di sopra di qualcosa nel quale in realtà si è immersi o subirne passivamente gli effetti. Non è possibile una liberazione dal sistema, ma una libertà interna alla moda, che ne piega per quanto possibile le regole, adattandole alla propria personalità.

Lorenzo Gineprini

NOTE:
1. Georg Simmel, Moda e Metropoli, Piano B edizioni, Bologna, 2011;
2. Lars Svendsen, Filosofia della moda, Guanda, Parma, 2013;
3. Idem;
4. Idem;
5. Don DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2003.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Addio alla ragazza imprecisabile

 

Volate alto, metteteci fantasia, se non avete una storia d’amore inventatevela!

Riuscire a mixare cultura, lussi, frivolezze ed emozioni forti non è da tutti; o meglio tutti riusciremmo ma non con il giusto equilibrio.

Marta Marzotto, invece, riusciva perfettamente a calibrare ogni cosa senza mai cadere nell’eccesso.

Regina della moda ma anche della vita, ragazza ribelle che da umili origini è riuscita a costruire un impero, ci ha lasciato ieri, a 85 anni.

Definita la “ragazza imprecisabile” da Guido Piovene, perché Marta era mille cose anche opposte tra loro, era anticonformista ma conformista, era ribelle ma conservatrice, era colta ma semplice e la sua vita l’ha sempre vissuta in corsa, tra amori folli, 5 figli, gioie e dolori della vita, come la morte della figlia a soli 32 per fibrosi cistica.

Una donna forte che non si è mai arresa, generosa e sorridente fino all’ultimo momento della sua vita perché l’ottimismo era sempre stata la sua carta vincente; l’ottimismo di andare avanti nonostante le difficoltà e di ripartire sempre dai propri errori. Dopotutto la sua vita tra infanzia e adolescenza era stata dura, trascorsa tra le risaie della Lomellina come la madre e dopo come apprendista sarta e modella a Milano.

Una gavetta che l’ha fatta crescere in fretta e le ha dato la possibilità di toccare il fondo per poter risalire nel corso degli anni e affermarsi come donna, come madre e come artista, trasformando la sua moda in una griffe apprezzata in tutto il mondo.

Marta la vorrei ricordare col suo sorriso contagioso, la sua esuberanza vestita di caftani preziosi, la sua energia e la capacità di essere vera nel mondo fittizio del lusso, perché, come diceva lei

se hai sofferto la fame e hai raccolto il riso, impari a tenere stretto qualcosa di bello prima che scappi.

Valeria Genova

Chi? Maddalena Sperotto, la moda è mamma!

“Chi, loro?” vuole dare voce ai giovani di oggi, non solo attraverso le mie parole ma anche per mezzo dei loro stessi racconti.

Voci multiple e completamente diverse tra loro che compongono un unico coro cantando l’inno della realizzazione, dell’impegno e della passione.

Oggi vi presento Maddalena Sperotto, classe 1987, mamma e stilista della sua linea personale Corallo Bambù.

– Maddalena, ragazza under 30, mamma e stilista: come è iniziato il tuo percorso nel mondo della moda?

La moda è sempre stata una mia passione, fin da bambina amavo giocare con i vestiti delle bambole e sognavo di fare la stilista. Il mio percorso in questo mondo é iniziato quando mi sono iscritta all’Istituto Marangoni di Milano, dove ho conseguito il titolo di “Fashion Designer” e la soddisfazione di vedere gli outfit creati per la sfilata finale pubblicati su Vogue.it . Questa esperienza mi ha, inoltre, dato la possibilità di trovare lavoro come stilista, prima alla Replay per uno stage di sei mesi e poi da Basile a Milano dove ho lavorato per due anni, prima di decidere di lanciarmi nell’avventura di Corallo Bambù.

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– Corallo Bambù, così si chiama la tua linea di abiti sartoriali: perché questo nome e come descriveresti la tua linea?

Il corallo bambù è una reale qualita di corallo, ho dato questo nome alla mia linea perché mi piace utilizzare pietre dure e applicazioni ricercate per impreziosire i mie abiti ed inoltre le due parole vicine mi davano un sensa di raffinata freschezza. Posso descrivere il mio stile come molto femminile ed elegante, ogni abito é creato con attenzione sartoriale per mescolare con perfetto equilibrio silhouhettes moderne e tessuti ricercati.

– Essere giovane ed essere stilista: secondo te, nel nostro Paese, è un vantaggio nel tuo campo essere giovani o si rischia di sparire prima ancora di iniziare?

Credo che ogni fase della vita abbia i suoi pro e i suoi contro. La giovane età porta con sé molta energia, positività e quel pizzico di incoscienza che mi ha spinto a mettermi in gioco senza paura. Per quanto riguarda lo sparire ancora prima di iniziare, tema che non ci si possa ritenere immuni a nessuna età. 

– La moda è arte, è espressione artistica. Concordi con questa affermazione? Perché?

Certo concordo con questa affermazione. La moda è arte in quanto forma di espressione umana, penso che al pari della pittura e delle scrittura possa essere un tramite tra le nostre emozioni ed il mondo esterno.

– Molti considerano la moda qualcosa di superfluo se non frivolo. Cos’è, secondo te, che non arriva agli occhi di queste persone e quali passi in più dovrebbe fare la moda per convincerli a ricredersi?

Credo che ciascuno possa percepire la moda in modo diverso, anche non interessarsene é un’espressione del proprio essere e come tale va rispettata. Per questo non credo che si debba fare nulla per far ricredere queste persone, anche se sono sicura che nel vestirsi ogni giorno, fanno delle scelte basate su uno stile che, per quanto personale, é in qualche misura influenzato dalla moda.

– La moda come libertà espressiva parte da una riflessione dello stilista stesso: nel tuo caso, come nasce un nuovo modello?

I miei modelli ancora prima che da una riflessione, partono dall’istinto, da un’idea un po’ confusa che si materializza piano piano quando metto la matita sul foglio.

– Quale riflessione ti spinge a creare?

Come ti dicevo sono molto istintiva nella creazione dei miei modelli, mi influenzano sicuramente le tendenze del momento e i colori della stagione, ma, soprattutto, nelle forme e nei tessuti seguo molto il mio gusto personale.

– In un’intervista il regista Vanzina ha detto che ormai nessuno sa più cosa vogliano i giovani di oggi perché nessuno li racconta. Secondo te nessuno li racconta o nessun giovane ha il coraggio di esporsi? Perché?

Io direi che i giovani, non abbiano bisogno di essere raccontati, credo che siano perfettamente in grado di esprimere cosa vogliono con forza e senza timori.

– A tuo avviso, cosa vuole oggi un giovane della tua età?

Credo che i giovani della mia età abbiano tanta voglia di realizzarsi, e non solo in ambito lavorativo, ma anche negli affetti. Posso garantire che oltre agli sforzi per farsi una carriera, vedo molti miei coetanei ambire a farsi una famiglia.

– Cosa pensi della tua vita? Quali traguardi vuoi ancora raggiungere?

Non ti nascondo che sono molto contenta, sono da poco mamma ed é in assoluto l’esperienza più bella, un’avventura che ti obbliga a ridefinire la parola amore. Come traguardo, oltre a continuare con Corallo Bambù con ancora più impegno, voglio solo che la mia famiglia sia felice.

– Una domanda per il nostro sito: cosa pensi della Filosofia nei nostri giorni?

Penso che la filosofia, intesa come “amore per la conoscenza” in quanto tale, sia oggi un po’ sottovalutata, la conoscenza e lo studio sono sempre più spesso utilizzati come tramite per trovare un lavoro e la sete di sapere svilita dalla facilità con cui si possono reperire le informazioni. Ritengo pero’ che il pensiero filosofico sia ancora vivo, in quanto insito nella natura dell’essere umano. Insomma chi più chi meno, siamo tutti portati, in qualche momento della vita, a sederci a riflettere e porci quesiti esistenziali!

Maddalena è una dei tanti giovani che oltre ad essere immersa nel mondo del lavoro con entusiasmo e competenze, ha la capacità di conciliare carriera e famiglia, dimostrando quanto la volontà sia la migliore arma per arrivare al soddisfacimento dei propri obiettivi.

In bocca al lupo Maddalena!

 

Per gli interessati:

Questo il sito di Corallo Bambù

Questa la pagina FB

 

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Maddalena Sperotto]

Gli 8 grandi perché della moda. (Roba che Obama non ci dorme la notte)

 

 

 

Floreale? In primavera? Avanguardia pura.

 

1) Perché le fashion blogger hanno sempre la faccia seria come se stessero risolvendo il teorema di Fermat? 1bis) E perché si fanno fotografare coi piedi storti?

2) Perché le commesse di negozi di marche di lusso ti trattano come se per decidere di comprare una borsa da 2000 euro fosse increscioso impiegarci più di 1 minuto, mettendoti un certo disagio, una discreta ansia da prestazione e facendoti sentire una tirchia,  quando loro 2000 euro non le vedono neanche in tre mesi di lavoro?

3) Perché il caschetto “magari ecco, se me lo fai giusto un po’ più lungo” ora si chiama  LONG BOB, che vallo a spiegare che non è una disciplina delle olimpiadi invernali? O a Giggino, il parrucchiere unisex taglio e piega euro 20 nel vicolo sotto casa che ha anche la seduta Little Italy anni’40 col cavalluccio per tagliare i capelli ai bambini?

4) Perché a quella tonalità di biondo che piace a me cambiate nome ogni 6 mesi?

5) Perché Carrie l’abbiamo ritenuta un’icona di moda anche quando gli sceneggiatori pretendevano di farla sposare con un piccione punk imbalsamato in testa?

6) Perché più ti avvicini ad assomigliare ad una contadina dell’entroterra estone e più sei cool?

7) Perché quando giri da Zara vedi solo facce schifate nei confronti del prossimo, naso all’insù e falcata a ritmo di una musica dal genere indecifrabile ogni tanto intervallata da “Samantha in cassa niGNo” quando sei, se il senso dell’orientamento e della realtà non mi ingannano, in un grande magazzino a ravanare tra pezze made in Bangladesh e non a scegliere diamanti neri in una gioelleria dell’Upper East Side?

7) Perché Charlotte Casiraghi se mette una t- shirt bianca e pantaloncini deformi altrettanto bianchi  è di una eleganza divina e noi sembriamo delle massaggiatrici o, nella migliore delle ipotesi, l’equipaggio dello yacht di Charlotte Casiraghi?

8) E perché in inglese non sapete dire “book”, ma sapete dire OUTFIT?

La frase “la vera bellezza è quella interiore” fa troppo Suor Cristina di The Voice.
La frase “la moda rimane lo stile passa” mi pare l’abbia già detta una tale Coco Chanel.
Io posso solo aggiungere che quel qualcosa in più non si compra da nessuna parte. Che nel vostro OUTFIT l’unico accessorio che non deve mai mancare è il sorriso. Vero. Che quando ci si sente in passerella, basta un attimo e si inciampa proprio in quella scarpa da 1000 euro. Che l’importante è rialzarsi, appoggiarsi a chi con noi di questa caduta piangerà dalle risate, e magari comprare delle converse.Che siamo belle lo stesso. Che siamo brutte lo stesso. Di cadute ne faremo tante. Che almeno non siano di stile.

Donatella Di Lieto

Ps: ora scappo che devo andarmi a fare un long bob con riflessi sun kissed ed il mio sunday outfit non è ancora abbastanza  cromaticamente insensato.

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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[Immagini tratte da Google Immagini]