Autenticità e libertà. Artemide e il mito della caverna

Si sente molto parlare, oggi, di “autenticità”: un vero e proprio tormentone del mondo social, dove spesso l’autenticità diventa, nella pratica, raccontare i dettagli della nostra vita, anche quelli più intimi e privati, ai nostri followers.
Ma è davvero questo il significato e il valore dell’essere autentico?

Qualche tempo fa mi sono imbattuta in Artemide, uno dei saggi più interessanti, a mio avviso, della psichiatra, psicoterapeuta e analista junghiana Jean Bolen. All’interno della più ampia riflessione che la Bolen dispiega sulla divinità greca e sui tratti della donna che rispecchia l’archetipo di Artemide (una donna che incarna le qualità di indomita, tenace e riflessiva, intuitiva e passionale), nelle pagine finali del libro l’analista junghiana si sofferma sul concetto di autenticità e lo affianca a quello di libertà. Per la Bolen, infatti, non c’è autenticità senza libertà, e la libertà di cui parla è una libertà di essere, di scegliere e di seguire il cuore:

«Essere capaci di fare scelte basate sull’anima e sul cuore ci fa sentire una passione per la vita, dandoci l’opportunità e la libertà di vivere un’esistenza significativa a livello personale.
Ciò è possibile solo quando si è liberi di essere tu e io, e si ha la libertà e l’opportunità di scegliere un sentiero dell’anima» (J.S. Bolen, Artemide, 2015).

A quanto pare l’autenticità, collegata alla libertà di essere, è anche la strada per sentirsi appassionati della vita, per non cadere nel “torpore emotivo” di chi si lascia vivere, e la Bolen lo ribadisce anche in un altro punto del libro:

«Entusiasmo e vitalità sono segni del fatto che stiamo vivendo la vita che fa per noi e ci sentiamo realizzati. Quando non è così può esserci torpore emotivo, una tristezza diffusa, ansia e vari dolori fisici derivanti da tensione e stress» (ivi).

 Ma come si può fare a trovare la nostra autenticità, il nostro vero essere? Sempre la Bolen scrive:

«Diventare reali ha a che fare con l’anima, con il lavoro e le connessioni dell’anima, termini che uso in modo intercambiabile con lavoro e connessione del cuore.» (ivi).

Quindi una profonda connessione col cuore è la chiave, secondo la psicoterapeuta, per l’autenticità, per comprendere chi siamo davvero e vivere la vita con pienezza ed entusiasmo.

Della scoperta del nostro vero sé, del diventare reali, autentici, consapevoli, ne aveva parlato anche Platone, molto prima della Bolen, in uno dei suoi miti più affascinanti, quello della caverna, forse il più noto del filosofo greco, che apre il VII libro della Repubblica.
L’inizio del mito è già di grande impatto: Platone ci presenta delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così strettamente da non poter neanche girare la testa. Una di loro però riesce a liberarsi, a uscire fuori e vedere, per la prima volta, la luce del sole.

Analizzando profondamente il mito, emerge chiaramente il suo collegamento con l’autenticità: esso è di fatto anche il simbolo di un processo educativo che consente all’essere umano di procedere verso la conquista della sua più autentica natura. Con il mito della caverna Platone racconta un percorso di evoluzione di se stessi che consente il saldo possesso della verità, che ci conduce all’impegno civile nel mondo, al dono di sé alla comunità, che dà il senso più nobile alla propria esistenza nel mondo. E che conduce anche alla libertà e all’autenticità di cui parla pure la Bolen, che diversamente da Platone – il quale vede nella filosofia la chiave di svolta per uscire dalla caverna – pone il cuore e l’anima come “strumenti” centrali di verità.

In tempi in cui “libertà” e “autenticità” sono sulla bocca di tutti, spesso anche a sproposito, forse sarebbe bene ricordarci di quanto essere autentici sia il senso profondo di tutta la nostra esistenza. Non è in fondo quello che cerchiamo tutti quando ci chiediamo: “chi sono io”?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

la chiave di sophia

Fanatismo ideologico e paradosso dell’ignoranza

Oggi più che mai, in un mondo dominato dalla supremazia dei social network e delle notizie a portata di click, siamo di fronte al dilagare del cosiddetto fenomeno del fanatismo ideologico, influenzati sempre più dalle idee che vanno per la maggiore e che corrono incessanti sulle Instagram stories o sulle bacheche Facebook dei nostri smartphone. Si pensi ad esempio al periodo pandemico che tutto il mondo sta vivendo e alle teorie sui vaccini tra favorevoli e contrari. In questo articolo non ci si addentrerà nel merito della validità o meno delle due posizioni, ma si cercherà di comprendere perché un’idea, qualsiasi essa sia, riesca ad imporsi con forza tra le masse.

In tempi non sospetti, Sigmund Freud aveva affermato che non fosse lecito ricavare un’affermazione della socialità a scapito dell’individualità, ma che la socializzazione e la massificazione fossero in un rapporto di dipendenza dall’individualità, ossia che la distinzione tra massa e individuo diventasse superflua. Per Freud la negatività della massa dipende, quindi, dalla negatività dell’individuo stesso, in quanto quest’ultimo è essenzialmente dominato dall’inconscio; tuttavia egli è di per sé predisposto alla socializzazione e l’esperienza della massa si limita a rendere esplicito ciò che in lui era solo implicito. L’individuo si trova posto nella condizione di sbarazzarsi delle rimozioni dei propri  moti pulsionali e nella massa egli esperisce ciò di cui per definizione non si dà esperienza, appunto l’inconscio, che si reifica nella massa, si oggettifica rendendosi tangibile. Inoltre, secondo la prospettiva freudiana, esiste un fenomeno per il quale la massa si compatta attorno alla figura di un coercitore e attinge da un lato alla sua essenza profonda e dall’altro patisce un processo di regressione:

«Le masse non hanno […] mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare […]. La massa è un gregge docile che non può vivere senza un padrone. È talmente assetata di obbedienza da sottoporsi istintivamente a chiunque se ne proclami il padrone» (S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 2011).

Ciò che lascia intendere Freud è come il fanatismo ideologico di massa vada, in qualche modo, a scongiurare una responsabilità etica individuale nell’assumersi l’onere dei propri pensieri, favorendo l’idea di una più comoda responsabilità collettiva.

L’essere umano è per natura portato a costruirsi una visione dogmatica della realtà, in particolare quando non possiede gli strumenti necessari da porre a fondamento di una determinata idea. Nel mondo contemporaneo la massa si uniforma spesso e volentieri attorno ad una sola “verità” idolatrata con adorazione quasi fideistica, verità che proviene nella maggior parte dei casi dal mondo virtuale, che rappresenta quel coercitore di cui si parlava prima.

Detto ciò, è possibile affermare che l’andar dietro a un pensiero comune faccia sì che vengano ignorate tutte le altre possibili verità. Accade questo, in particolare, quando si inizia a credere ciecamente a un’idea, facendola propria, senza beneficiare del dono prezioso del dubbio (il fanatismo appunto). Ciò apre ad una situazione paradossale nella quale l’ignoranza di qualcosa si pone a fondamento di una verità, o pseudo tale, attraverso la quale si ha la pretesa di essere padroni dell’unica verità assoluta. Tuttavia, chi ama concedersi sempre il beneficio del dubbio e ricerca costantemente la verità delle cose, sa benissimo che l’unica forma accettabile di ignoranza sia quella del famoso “so di non sapere” socratico.

È noto come coloro che sanno meno credano di essere quelli con la verità in tasca, avallando le loro idee sulla base della condivisione di queste con la massa. Si pensi a quanta gente cada nella trappola delle cosiddette fake news senza andare a verificarne le fonti, forte del fatto che i più condividano quella determinata notizia o idea.

Quando ci imbattiamo in tali persone, dovremmo ricordare il famoso mito della caverna nella Repubblica  di Platone, in cui gli uomini legati per mani, piedi e collo che osservano le ombre proiettate sul muro, credendo fermamente che esse siano l’assoluta verità, rappresentano proprio tale tendenza umana a fermarsi all’apparenza delle cose. Non a caso il potenziale filosofo Re – ossia colui che, nell’ottica platonica, se riuscisse a liberarsi dalle catene e ad uscire fuori dalla caverna sarebbe accecato dalla luce della vera realtà – verrebbe deriso e ucciso qualora, tornato dai suoi compagni, raccontasse loro che quella che hanno creduto essere la verità è solo l’ombra di essa. Seguendo l’insegnamento di Platone, allora, sarebbe auspicabile che i singoli riuscissero a uscire dalla metaforica caverna, cercando quantomeno di tendere alla costante ricerca della verità, emancipandosi dalle non sempre realistiche idee della massa.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Bruna van der Kraan via Unsplash]

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La nostra vita ridotta a codice html

siamo solo noi
che non abbiamo più niente da dire
dobbiamo solo vomitare
siamo solo noi
che non vi stiamo neanche più ad ascoltare

Erano gli anni ’80 quando Vasco Rossi cantava questa canzone, inno di una generazione di ‘sconvolti’, di giovani che vivevano la vita appieno, anche esagerando, però sempre da protagonisti delle loro storie, sempre in prima linea nei loro rapporti e sempre reali.

All’epoca non esistevano i Social Network. I famigerati Social Network.

A quei tempi il non avere più niente da dire o il non avere più voglia di ascoltare erano da imputare ad un senso di ribellione nei confronti della società che scaturiva dalla necessità di essere liberi ed emancipati .

Oggi sono dovuti alla perdita inesorabile di relazione tra le persone.

Cosa vuol dire relazione?

Da sempre concetto problematico in Filosofia, essa può intendersi, semplicisticamente e in riferimento a due persone, come una particolare disposizione nei confronti di qualcuno che fa interagire due pensieri tra loro.

Così intesa la relazione è un rapporto di scambio tra due individui che decidono di condividere qualcosa.

Oggi questo tipo di concezione è  assolutamente messa in crisi dalla presenza sempre più massiccia di Internet e, soprattutto, dei Social Network; attraverso questi nuovi potenti mezzi di comunicazione le relazioni si fanno sempre più deboli, diventando virtuali.

La virtualità è ciò che contraddistingue la  vita dei giovani d’oggi: non più piazze, giardinetti, concerti, manifestazioni, ma una stanza e un monitor. Non più sensazioni tattili, visive, olfattive ed uditive ma solo contatti freddi fatti di immagini (ritoccate possibilmente) e di parole studiate, ragionate, dunque poco spontanee.

Dove sono finiti il coraggio di affrontarsi di persona, di litigare vis à vis e l’emozione di un ‘Ti amo’ sussurrato, di un abbraccio sincero? Possibile che tutto questo possa davvero essere sostituito da un semplice dispositivo tecnologico?

Chi sono loro? Chi sono i giovani di oggi e perché non lo sappiamo?

Semplice: loro si raccontano eccome, ma solo attraverso Facebook, Twitter e simili. Loro ci parlano per mezzo di Like, Tweet, Followers perché si sentono veri in un mondo fasullo.

La vita è virtuale e la relazione tradizionale fatta da “Ciao! Che bello vederti!’ diventa solo “Ciao! Ho visto su Facebook che ti sei sposato!’. Le loro informazioni girano nel web, quindi non hanno bisogno di andare a dire ‘a voce’ quello che sono o quello che fanno.

Una domanda, però, sorge spontanea…loro sono davvero quello che vediamo virtualmente?

Non parlo solo di foto o nomi che spesso sono fasulli (ma perché?), intendo capire se quello che i giovani scrivono sia davvero ciò che pensano, sentono, sognano o se sia solo ciò che serve loro per costruirsi un’immagine perfetta agli occhi degli altri.

Difficile dirlo e scoprirlo. Se lo chiedessimo a loro risponderebbero che il tutto corrisponde a realtà. Ma loro sanno cos’è la vera realtà? Veramente farebbero e/o direbbero tutto quello che scrivono? Io non ci credo, perché Internet è un fantastico modo per nascondersi, per celare la propria personalità fragile o violenta, emotiva o arrogante. È una vetrina dove ognuno espone la propria merce al meglio, chi per farsi accettare, chi per scatenare l’invidia altrui, chi per timidezza.

La realtà, oggi, è stata completamente assorbita dal virtuale.

[…]con il virtuale non ci si confronta. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo schermo è un luogo di immersione, ed ovviamente di interattività, poiché al suo interno si può fare quel che si vuole; ma in esso ci si immerge, non si ha più la distanza dello sguardo, della contraddizione che è propria della realtà. […]Nella realtà virtuale tutto è effettivamente possibile, ma la posizione del soggetto è pericolosamente minacciata, se non eliminata.¹

Nel mondo virtuale i rapporti soggetto-oggetto e soggetto-soggetto non esistono più, tutto viene posto sullo stesso piano, senza alcuna differenza tra vero, falso, reale, immaginario e così via.

Il conflitto tra reale e virtuale è stato ben rappresentato da Jean Baudrillard in un’intervista² del 1999 in cui lo rivede in chiave platonica attraverso il mito della caverna:

L’immagine di Platone è diversa in quanto si riferisce alla figura di una nascita, di qualcosa di irreale in quanto ombra di qualcosa, ma tuttavia il mito parla comunque dell’essere. Ci sono ombre che si muovono in circolo e noi non siamo che il riflesso di un’altra sorgente, che esiste altrove, una fonte luminosa dinanzi alla quale però si interpone un corpo, e le ombre sfilano. Nel mondo virtuale, invece, direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l’essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall’informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all’interno della realtà virtuale, non abbiamo più un ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l’epoca dell’uomo che ha perduto l’ombra. La famosa frase, “egli ha smarrito la sua ombra”, è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l’opacità, e in fondo l’essere stesso, lo spessore dell’essere, la sua profondità. Al contempo si è perduto anche il significato che l’ombra aveva un tempo, vale a dire la negatività, la morte. Del resto è vero che di fatto ci troviamo dentro a un sistema che si prefigge di eliminare la morte, nel quale non ci dovrà più essere nulla di negativo, come la fine dell’esistenza e l’ombra. Un sistema totalmente operativo e positivo al cui interno noi saremo tutti trasparenti, comunicativi, interattivi. In questo ambito, perciò, non credo ci sia una scena in cui compaiono queste ombre platoniche.

Forse il problema di oggi diffuso tra i giovani è cosa sia davvero la realtà, se esista una realtà o se non sia realtà proprio la loro, semplicemente rivista perché segue il mondo che diviene.

Tutto è, come vedete, compromesso. Non riusciamo più a credere a nulla e pretendiamo lo facciano i giovani che sono nati durante la globalizzazione e l’accelerazione dello sviluppo tecnologico.

Eppure, in tutto questo caos, una cosa è sicura: la relazione, quale rapporto occhi contro occhi, pelle sopra pelle, fatto di voce, di sguardi, di guance rosse, mani che asciugano lacrime, gambe che si intrecciano e capelli che si muovono al vento si è smarrita nel labirinto di codici html.

Note:

¹-  Intervista a Jean Baudrillard, Il virtuale ha assorbito il reale, Parigi, 1999

²- Ibidem

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]