Ritrovare il senso del mistero e recuperare la categoria del sacro

Non molti anni fa Giorgio Gaber cantava che «l’uomo non ha più il gusto del mistero»1, individuando nello smarrimento del senso del mistero e del sacro una cifra precipua del nostro tempo.

Osservando accuratamente molte manifestazioni umane, del mondo occidentale in particolare, si rileva come esse siano caratterizzate da superficialità e banalità che si palesano in un conformismo omologante e in un consumismo spersonalizzante. Una vera e propria mutazione antropologica, per servirci di una risoluta e profetica definizione pasoliniana2. Esseri umani che perdono la propria essenza di persone, abdicando al pensiero autonomo, alla riflessione, all’incontro autentico con tutto ciò che è altro da sé, in particolare l’altro uomo, il rapporto con il mondo della vita e con tutto quanto questo incontro può generare nell’interiorità del singolo.

Una delle peculiarità umane che, da diverso tempo a questa parte, stanno venendo meno è certamente il senso del mistero. Quella dimensione che si lega a tutto quanto non è spiegabile razionalmente, a ciò che “sfugge” ad ogni comprensione, a quanto emerge dal senso del limite. La condizione umana è quella di colui che non s’accontenta della propria connotazione finita ma è predisposto ad avvertire un senso di spaesamento, tremendo e al contempo affascinante, di fronte all’esistenza e a ciò che la trascende, a ciò che le è totalmente altro.

L’essenza della soggettività umana è predisposta ad avvertire il senso del mistero, che scaturisce proprio dalla continua relazione con l’indecifrabile complessità del mondo della vita e che conduce a percepire la dimensione infinitamente eccedente del senso della totalità. Quel senso che pur sfuggendo continua ad attrarre l’interiorità dell’uomo, poiché, come spiega il teologo e filosofo Rudolf Otto nell’opera Il sacro (Das Heilige, 1917), l’uomo oltre alle categorie della razionalità possiede pure la categoria del sacro, il cui dato originale è il numinoso, il razionalmente indeducibile, l’incomprensibile, l’indicibile, quanto è sovrabbondante rispetto alle proprie capacità intellettive. L’essere umano avverte, attraverso la categoria del sacro, la dimensione ineffabile, il mistero dell’esistenza, il suo carattere esorbitante rispetto alle categorie della ragione, mute dinanzi al mistero della Vita, al senso del limite, al senso ultimo. In proposito, così si esprimeva nel proprio testamento spirituale il filosofo Norberto Bobbio: «come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo e le varie religioni interpretano in vari modi»3.

La categoria del sacro permette di assaporare il mistero dell’esistenza, nel suo carattere terribile e affascinante al contempo. Il mistero, ciò che evade la prigione del concetto, è alcunché di sconosciuto, non manifesto, totalmente altro. L’essere umano è attratto esteriormente e attraversato interiormente dal mistero inesprimibile, tutt’al più avvicinabile con la parola poetica o l’esperienza mistica. In questo senso, come non ricordare l’esempio edificante, gli scritti e l’esperienza mistica della giovane ebrea olandese Etty Hillesum4, testimone di come il senso del mistero innalza l’uomo interiormente oltre la propria finitezza, lo attrae verso ciò che è altro, che sfugge, che è in-finito, avvicinabile solo asintoticamente, ma verso il quale l’uomo non è comunque propenso a rinunciare, perché tale attrazione, tale fascinazione che fa vibrare e suonare le fragili corde del suo spirito, è connaturata alla sua essenza.

Da qui, le religioni: tentativi per eccellenza, più o meno mirabili, di dare risposta al sacro. Invero, il senso del mistero e la categoria del sacro che ad esso si addice, appartengono alla complessa profondità di ogni spirito umano, teso per essenza a percepire, attraverso l’esperienza della vita, l’indicibile. Il sacro precede e può dunque fondare ogni religione, che solo su di esso può edificarsi. Diversamente, in assenza del sacro, di questo imprescindibile dato originale, il tempio, ogni tempio, di qualsivoglia religione, rimane una scatola vuota, il cui obiettivo non può coerentemente dirsi quello di dare risposta al numinoso e di configurarsi dunque come orizzonte di senso. È così comprensibile l’asserzione di Rudolf Otto quando scrive: «Ciò di cui parliamo – il sacro – […] costituisce l’intima essenza di ogni religione, senza la quale la religione non sarebbe»5.

Il sacro si configura dunque come una categoria a priori, non oltre quelle della ragione, ma in un certo modo al loro fianco. L’essere umano possiede entrambi questi a-priori per stare al mondo, l’utilizzo di uno solo dei due ne stralcia la sua essenza, ne elimina la complessa e straordinaria struttura interiore e le possibilità esteriori. L’una sostiene l’altra. Così come è importante educare la facoltà di pensare e ragionare criticamente6, altresì l’a-priori del sacro necessita oggi, con rinnovata urgenza, di essere riscoperto. Ma per riemergere, la categoria del sacro ha bisogno di essere risvegliata alla coscienza del singolo, ricondotta al centro dell’esperienza soggettiva e questo si può fare solo se si recupera il senso del mistero. Quest’ultimo abbisogna del silenzio, della riflessione, del raccoglimento interiore, lontani dal rumore delirante della quotidianità ipermoderna. Un frastuono contrassegnato da parole vuote, superficiali, che bombardano la nostra vita in una bulimia inarrestabile d’informazione. Invero, è solo dal silenzio e dalla contemplazione consapevole del reale che può ri-emergere nell’uomo la capacità di trascendere l’immanenza omologante nella quale è immerso, verso un’apertura e una consapevolezza del mistero che avvolge la vita. Anche questo qualifica un’esistenza umana completa: senza il senso del mistero, del sacro, l’uomo perde una dimensione centrale dalla propria essenza, verso una tragica mutazione antropologica. Diversamente, recuperando questa dimensione è possibile sperare in un nuovo umanesimo, una visione del mondo che abbia l’uomo al centro della vita. Un uomo nuovo che, evitando di adagiarsi al ristretto orizzonte del già dato, riconosca di poter oltrepassare la propria datità in favore di un contatto nutriente con il mistero dell’esistenza e della sua sacralità, sola fucina di slanci relazionali, artistici, intellettuali e spirituali.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. G. Gaber, E pensare che c’era il pensiero, GIOM, 1994.
2. Cfr. P. P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009.
3. Vedi: http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/spettacoli_e_cultura/bobbio/volont/volont.html
4. Cfr., E. Hillesum, Diario, tr. it. Di C. Passanti , T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano, 20133.
5. R. Otto, Il sacro, tr. it di E. Bonaiuti, SE, Milano 2009, p. 21.
6. Su questi temi mi permetto di rimandare ad un mio precedente articolo sulla centralità dell’educazione al pensiero critico e autonomo: http://www.lachiavedisophia.com/blog/educhiamoci-a-pensare/

[Photo credits Lenka Sluneckova via Unsplash.com]

copabb2019_ott

È la morte che dà senso alla vita?

Dinanzi al mistero della morte molti uomini si chiedono quale sia il senso della propria vita. Che significato viene dunque ad assumere la vita al cospetto della morte che tutto annulla? Nel corso della storia del pensiero filosofico le risposte sono state molteplici e fra loro molto differenti, per contenuti e prospettive. Al contempo, le religioni, orientali e occidentali, nascono proprio come tentativi di rispondere al limite per eccellenza inscrivendolo all’interno di una prospettiva che sveli la vita, un certo tipo di esistenza che non ci è data di conoscere ma solo di immaginare ed eventualmente “tener ferma” come contenuto di una fede, dopo la morte.

Fra i tentavi filosofici di risposta al significato della vita in rapporto alla morte, più importanti del Novecento, come non annoverare quello dello psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl. Il suo contributo, oltre a riprendere e rimandare alle speculazioni dell’analitica esistenziale dello Heidegger di Essere e tempo, del concetto di uomo come essere-gettato nel mondo e come essere-per-la-morte, si arricchisce della sua esperienza di medico-psichiatra, delle sue competenze filosofiche, psicologiche e soprattutto della sua tragica ma determinante esperienza di vita nei lager nazisti. Invero, la vita dell’uomo Frankl ha certamente contribuito a corroborare le intuizioni e le competenze del Frankl filosofo e psichiatra.

In particolare, rispetto al significato della vita in relazione alla morte, l’intellettuale viennese ritiene che per rispondervi siamo rimandati a noi stessi, al fatto originario che l’esistenza è al contempo consapevolezza e responsabilità. La consapevolezza concerne la propria fragile condizione di esseri che hanno un termine. Mentre la responsabilità inerisce la nostra unicità e irripetibilità di singoli uomini, in rapporto alla singolarità e irripetibilità delle concrete situazioni nelle quali veniamo a trovarci di ora in ora. Singolarità e irripetibilità sono due aspetti che permettono di comprendere il significato della vita che si manifesta come finita. Il carattere limitato dell’esistenza, asserisce Frankl «contribuisce a darle un significato, e non a sottrarglielo»1. Secondo il pensatore viennese la morte non può dunque pregiudicare il senso della vita. Diversamente, proprio l’avere in vista la morte o poterla in qualche modo “anticipare” con l’immaginazione – servendoci di un’espressione heideggeriana – permette di inondare di senso la propria esistenza vivendola autenticamente. Scrive Frankl: «Domandiamoci che cosa accadrebbe se la nostra avventura terrena non fosse determinata nel tempo, ma fosse infinita. Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto»2. In questo senso verrebbe meno la nostra stessa responsabilità per la vita. Di fronte a un’esistenza infinita ogni nostro progetto verrebbe meno. Mentre, come aveva intuito Heidegger: «l’esserci, in quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare»3. È proprio il progettare, l’avere in vista il futuro che permette di realizzare ciò che siamo. La consapevolezza della limitatezza del nostro transito terrestre, permette di intraprendere una strada autenticamente nostra, dunque di rispondere responsabilmente alla vita. «È proprio in considerazione della morte» afferma Frankl «quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte, la cui somma ‘finita’ costituisce il consuntivo della nostra vita»4. Il senso della vita riposa proprio nel suo carattere irreversibile. Pertanto, la responsabilità di un uomo si può esaminare solo in relazione al tempo limitato della sua esistenza. In merito a questo Frankl paragona l’uomo ad uno scultore, che partendo dal materiale grezzo (la vita e il suo destino), si adopera con tutti i mezzi e le possibilità a disposizione per dar luce alla miglior forma possibile. Questo è concepibile allorché, pur essendo l’uomo “gettato” nel mondo e dunque condizionato, mantiene la libertà ultima di ergersi al di sopra di tale gettatezza, di tali limitazioni, al fine di realizzare valori che diano senso alla vita. Quest’ultima è conseguentemente un costante cammino di autotrascendenza che permette di attuare la libertà nella forma delle possibilità sempre presenti, al di qua della morte. All’uomo resta dunque la libera possibilità di «trasmutare il materiale che il destino gli fornisce, in parte con il proprio lavoro, in parte sperimentando o soffrendo: di ‘sbozzarne fuori’ quanto più può valori creativi, di esperienza e di atteggiamento»5.

Lo scultore ha a disposizione un tempo limitato per realizzare il suo lavoro e di questo tempo non conosce la scadenza. Il tempo a disposizione può essere molto come poco, persino pochissimo. Non sapendolo, tuttavia, lo scultore è chiamato dalla vita a utilizzare il proprio tempo in modo pieno e completo per portare a termine la propria opera unica e irripetibile. E «l’eventualità che egli non riesca a compierla non la destituisce di valore»6. Nessuna esistenza può essere dunque valutata in base alla sua lunghezza, ma in base alla ricchezza dei suoi contenuti, dei valori che è riuscita a realizzare nel tempo che le stato concesso. «Nella limitatezza del tempo e dello spazio terreno l’uomo deve compiere qualcosa, conscio sempre di essere mortale e tenendo ben presente la propria immancabile fine»7.

La vita e la morte costituiscono dunque un unico grande insieme, avvolto nel mistero (che concerne tutto ciò che sfugge alla comprensione razionale). Ma questo mistero non è mai destituito del proprio senso, a condizione che l’uomo prenda consapevolezza di essere «attaccato sul vuoto al suo filo di ragno»8, come recita un celebre verso di Ungaretti. Una condizione esistenziale che scorge il limite invalicabile della morte e che proprio per questo riconosce la propria responsabilità di fronte alla vita. Responsabilità che chiama in causa la libertà dell’uomo di prendere posizione nei confronti del proprio destino (il materiale grezzo dell’esistenza) per realizzare valori che concernono ciò che l’uomo riesce a creare, quanto riesce ad amare e sperimentare, come riesce a soffrire e persino a morire. Motivazioni che trascendono la vita e che in una certa misura la rendono eterna. Risultano nuovamente chiarificatrici e parenetiche le parole di Frankl, il quale afferma: «la responsabilità dell’uomo […] è rapportata alla singolarità e all’irripetibilità della sua particolare esistenza. L’esistenza umana è infatti un essere responsabile di fronte alla propria finitezza. Questa temporalità della vita non la rende […] senza senso: al contrario, è proprio la morte a renderla significativa»9. Seguendo le intuizioni frankliane è dunque verosimile rispondere alla domanda posta in esergo sostenendo, seppur con parola fragile e tremante, che è proprio l’orizzonte della morte a dischiudere il senso alla vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 20056, p. 108.
2. Ivi, p. 108.
3. M. Heidegger, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, p. 239.
4. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 108.
5. Ivi, p. 109
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. G. Ungaretti, La pietà, in Sentimento del tempo, in Giuseppe Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 19693, p. 171.
9. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 116.

 

[Photo credits: Matt su Unsplash.com]

Fede, filosofia e mistero: intervista a Vito Mancuso

In questo articolo proponiamo la seconda parte dell’intervista al filosofo e teologo Vito Mancuso, pubblicata all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #5 – Le dimensioni dell’abitare. La nostra chiacchierata con lui è stata così profonda ed interessante che non possiamo non condividere con voi la versione integrale dell’intervista. Buona lettura!

 

La Scolastica ha formato generazioni di teologi ad affidarsi in egual modo a ragione e fede nella loro ricerca, ma negli autori contemporanei si rileva la tendenza a privilegiare la prima e ad abbracciare più una “teosofia”. È possibile in un’era post-illuminista mantenere il paradigma scolastico, o è inevitabile che l’aspetto razionale fagociti quello fideistico?

Partirei con una considerazione di tipo storico alla luce di quello che mi chiedete in riferimento alla scolastica e alla sua promozione dell’armonia tra fede e ragione. Ora, certamente c’è un paradigma scolastico che consiste nell’armonia di fede e ragione: è il paradigma tomista, che in Alberto Magno prima e in Tommaso d’Aquino poi trova la propria consacrazione. Un’armonia tra l’altro non del tutto simmetrica, perché in questa prospettiva si considera la filosofia in funzione servile rispetto alla teologia, si pensi alla famosa espressione Philosophia ancilla theologiae. In ogni caso qui ci muoviamo all’interno di un paradigma di concordanza, di armonia, di fiducia reciproca.

La scolastica però ha conosciuto anche un’altra linea, direi opposta, la quale non crede nell’armonia fede-ragione ma al contrario tende a costruire la fede sulle macerie della ragione. Questa visione la ritroviamo nel filone francescano dove con Ockham ha trovato la maggiore espressione. Da qui nasce la fortissima opposizione alla filosofia da parte della tradizione classica del protestantesimo, e noi sappiamo che Lutero ebbe una formazione occamista soprattutto mediata da Gabriel Biel.

Questo per dire che quando parliamo della scolastica in realtà ci troviamo al cospetto di una grande dialettica: da un lato una fiducia della fede rispetto alla ragione, dall’altro una vera e propria guerra. Tra l’altro la scolastica rimanda a sua volta alla patristica, perché anche lì ritroviamo i due filoni: il primo, quello di Giustino, di Origene, del primo Agostino (penso al De vera religione o al De Magistro e in genere ai suoi primi dialoghi), che è estremamente ottimista nei confronti del lavoro della ragione e in generale dell’impresa umana. Cito al riguardo una frase di Giustino tratta dalla Prima apologia, paragrafo 21, e rivolta ai pagani: «Nel dire che il Verbo, primogenito di Dio, Gesù Cristo nostro Maestro, è nato senza rapporto umano, è stato crocifisso, è morto, è risorto ed è asceso al cielo, nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che, presso di voi, parlano dei figli di Zeus.» È una frase sconvolgente, perché sostiene che il centro del cristianesimo, quello che viene chiamato il kèrigma, l’Annuncio, coincide totalmente con quanto la visione greca, e quindi in generale la ricerca umana, aveva colto già da sé.

Sempre in epoca patristica però abbiamo Tertulliano che nell’Apologetico sostiene esattamente l’opposto: che cosa c’è in comune tra il Cristianesimo e la filosofia, tra Tebe e Gerusalemme? Domanda retorica la cui risposta è chiaramente nulla. Ecco le parole precise di Tertulliano: «In che cosa sono simili i filosofi cristiani discepoli della Grecia e quelli del cielo?», domanda retorica la cui risposta è ovviamente “nulla” (Apologeticum, 46-18).

Questo ci rimanda a sua volta alla Bibbia, perché anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento troviamo allo stesso tempo una tendenza di apertura e fiducia e una tendenza opposta di chiusura e opposizione. Lo stesso apostolo Paolo da un lato nella Lettera ai romani, primo capitolo, condanna i pagani perché sostiene che avrebbero potuto tranquillamente, ragionando sulla creazione, giungere all’esistenza di Dio, e quindi raggiungere la conoscenza della verità, affermando perciò la stessa cosa sostenuta da Giustino quando pone una grande continuità tra il centro del cristianesimo e la ragione umana. Ma nel primo e nel secondo capitolo della Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo afferma quanto sostenuto da Tertulliano col porre l’opposizione più ampia possibile tra sapienza umana e sapienza divina.

Quindi noi ci troviamo al cospetto di un nucleo incandescente che dal Nuovo Testamento raggiunge la Patristica e poi giunge nella Scolastica, genera le divisioni all’epoca di Pascal tra la scuola dei gesuiti e la scuola dei giansenisti, e arriva fino ai nostri giorni, perché ancora oggi c’è una Chiesa che ha un’ala più progressista e un’ala più conservatrice, si pensi alla divisione del Vaticano II tra quella che fu la maggioranza conciliare e quella che fu la minoranza. Si tratta insomma di una dialettica che attraversa da sempre il Cristianesimo.

Il Cristianesimo è abitato da fiducia e da sfiducia nei confronti della ragione e questo vale sia per il cattolicesimo sia per il protestantesimo. La sfiducia è originaria, connaturale a Lutero, il quale parlava della ragione umana come di una puttana e pensava che la filosofia fosse un’opera del demonio. Si tratta di una prospettiva che nel Novecento rivive in Karl Barth e in genere nella cosiddetta teologia dialettica. Ma il protestantesimo conosce anche il protestantesimo liberale, quello di F. Schleiermacher, A. von Harnack, E. Troeltsch, i quali al contrario hanno nei confronti del rapporto fede-ragione lo stesso ottimismo che l’analogia entis cattolica porta con sé. Questo è lo statuto storico, detta in maniera sintetica, del rapporto tra teologia e filosofia.

Per quanto mi riguarda, io penso che sia nella stessa parola teologia che si ritrovi il senso del giusto rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Il termine teologia dice infatti rapporto tra Theós e lògos, e non si deve mai dimenticare tra l’altro che questa connessione non è specificatamente cristiana perché colui che ha coniato il termine ‘teologia’ è stato Platone nel II libro della Repubblica, mentre il termine teologia entra nel cristianesimo in epoca patristica perché nel Nuovo Testamento non c’è. Il che significa che questa connessione tra theós e lògos è qualcosa di originario, è una tendenza della mente e direi anche del cuore umano, in base alla quale si pensa che l’assoluto, il theós, non sia qualcosa di estraneo al mondo e alla mente umana, ma al contrario qualcosa che ha a che fare con la logica del mondo e con la logica della mente umana, direi con il linguaggio umano. Non è un caso che il termine lògos rimandi al contempo sia alla ratio nel senso di ordinamento complessivo del cosmo (come per esempio nel Vangelo di Giovanni e prima ancora negli Stoici, dove logos ha un senso metafisico), sia al senso linguistico per cui lògos è parola, frase, discorso… Questo implica l’intuizione primordiale, ovvero la grande fiducia nel fatto che la logica che governa il mondo, il lògos che è archè, che è “in principio”, abbia strettamente a che fare anche con il linguaggio umano e quindi con tutto ciò che dal linguaggio scaturisce: l’etica, la creatività, l’espressività. Siamo cioè all’interno di un unico discorso: theós e lògos, questa è l’idea di fondo che rende possibile il discorso teologico.

Ne viene a mio avviso una conclusione stringente, ovvero che nella misura in cui la teologia è fedele a sé stessa non può che essere condotta sulla base del paradigma della concordanza tra fede e ragione, ovvero secondo l’idea di Giustino, di Origene, del primo Agostino, di Tommaso d’Aquino, del protestantesimo liberale, della maggioranza conciliare nel Vaticano II e di teologi cattolici come Teilhard de Chardin, Congar, Rahner, Küng, Panikkar.

 

Nella storia del pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni razionali’ dell’esistenza di Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo, Tommaso, Kierkegaard… alternando prove e argomentazioni a favore della sua esistenza o della sua inesistenza. Ritiene che oggi i numerosi tentativi del passato a dimostrazione dell’esistenza di Dio possano ancora reggersi? O forse – già con Kant – siamo giunti alla consapevolezza che la ragione di fronte alla vita – e aggiungerei anche nei confronti della fede – non è sufficiente a ‘chiudere’ il discorso?

C’è una frase di Bobbio nella lettera che consegnò alla stampa con l’incarico di pubblicarla all’indomani della sua morte, che dice: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in molti modi». A mio avviso questa è una delle più lucide esemplificazioni contemporanee del rapporto fede-ragione, perché Bobbio afferma che, come uomo di ragione, egli sa di essere immerso nel mistero.

Vede, noi normalmente pensiamo che sia la fede a parlare di mistero, mentre al contrario riteniamo che la ragione sia chiarificatrice, le assegniamo un lume che arriva e illumina ogni cosa. Ma Bobbio dimostra che non è così. È lo stesso risultato a cui giunse la grande speculazione di Kant, che pose la critica della ragion pura che si chiude con irrisolvibili antinomie: e che cos’è il mistero, se non il vedere le contraddizioni che costituiscono le esistenze stesse e le varie antinomie?

Vedere la contraddizione e riconoscerla come tale, significa cogliere due nomoi, due leggi entrambe legittime ma contrapposte l’una all’altra, e così generare l’anti-nomia. In Kant si ha l’antinomia della ragion pura e l’antinomia della ragion pratica. Da qui si origina un fondo oscuro, capiamo cioè che la ragione esercitata fino in fondo non ci consegna alla luminosità. Benché qualche positivista possa pensare il contrario, vi sono eccellenti ragionatori che chiudono il senso del loro ragionare ritrovandosi al cospetto di un irrisolvibile chiaroscuro, dove le luci sono sempre connesse alla tenebre. Ne viene il senso del mistero, termine che rimanda a mystérion in greco, il quale si rifà al verbo myō, che significa chiudere, detto di occhi e di bocca, così che il mistero è ciò che ti fa chiudere gli occhi e la bocca. E quando uno chiude gli occhi e la bocca, vuol dire che ha capito di essere alla presenza di qualcosa di più grande che non può dire, o pensare di racchiudere in una formula, e in un certo senso vi si affida.

Non a caso da mistero deriva anche mistica, il rimando alla dimensione eccedente della mente che si ritrova al cospetto di qualcosa di più grande e vi si affida. Confida, si fida, ha fiducia, eccoci qui, siamo arrivati alla fede. In questa prospettiva la fede non è qualcosa che si contrappone alla ragione, o la fede o la ragione, o si pensa o si crede, come cita una raccolta di scritti di Schopenhauer. In realtà è proprio perché si pensa fino in fondo che poi, ad un certo punto, una persona, posta di fronte alla scelta di quali debbano essere i criteri per orientarsi nella vita, capisce che deve fidarsi di un orientamento. La semplice ragione ti dà argomenti tanto per aprirti quanto per chiuderti, tanto per dire di sì alla vita quanto per dire di no, tanto per benedire quanto per maledire. La fede dunque nasce dal continuo rapporto con le domande della ragione. Senza questo rapporto la fede è un’ideologia come altre, e consegna a una delle tante appartenenze religiose che fanno parte del variegato cammino dell’umanità. Ma la fede vera è quella che, come diceva il cardinal Martini, sa affermare «dentro di me c’è il credente e il non credente», c’è l’uomo di ragione che vuole trovare ragioni e al contempo c’è l’uomo di fede che sa che si deve fidare, i due sono legati l’uno all’altro.

In questa prospettiva l’idea che qualcuno possa sostenere che la fede si basa totalmente sulla ragione, la quale arriva e giunge a dimostrare l’esistenza di Dio, è qualcosa che sfiora l’empietà dal punto di vista spirituale, perché chiunque abbia fatto esperienza della vita e del mistero religioso, intuisce che non c’è nessuna possibilità di capire, proprio nel senso etimologico del termine capio, capere, il cui participio passato è captum da cui deriva captivus cioè prigioniero, dunque capire in quanto imprigionamento. Io con la mente capisco una cosa, la capisco e la carpisco; oppure la comprendo, la prendo dentro di me, la faccio mia. Se questo avviene, non si ha la genuina esperienza religiosa, non a caso diceva Agostino: «Si comprehendis non est Deus», se comprendi non si tratta Dio, perché da Dio, da questa dimensione dell’Assoluto, dell’Essere, del Bene, da questa dimensione più grande da cui veniamo e a cui torniamo, a cui normalmente ci si riferisce dicendo divino, è chiaro che si può essere solamente capiti, compresi, nel senso di contenuti, di essere dentro.

Le prove dell’esistenza di Dio sono dunque a mio avviso qualcosa di assolutamente contrario all’esperienza del pensare e del sentire religioso. Se ne può parlare semmai come di argomenti, di tentativi di legittimare un oggetto che non sarà mai oggetto e che tuttavia devo in qualche modo oggettivare se voglio pensare, perché non posso pensare se non oggettivando. C’è infatti un paradosso costitutivo della teologia, dato dal fatto che la cosa che voglio oggettivare non sarà mai oggettivabile, non lo sarà perché mi contiene e quindi io non posso mai renderla obiectium, metterla di fronte a me, gettarla di fronte a me, e quindi vederla e così capirla. Di fronte all’assoluto, che è per definizione ciò che non ha relazione, ciò che è l’intero, l’Uno, è chiaro che mi contiene e io non posso oggettivarlo. Tuttavia se in qualche modo non oggettivo, non parlo. Quindi capisco come mai nella storia del pensiero siano nate le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, anche se è del tutto evidente, anche alla luce di quello che hanno prodotto, che non sono prove. Sono piuttosto argomenti per dire che quel discorso ha una sua legittimità da un punto di vista razionale, e da questo punto di vista possono avere una loro utilità.

 

Lavori come Homo Deus di Yuval Noah Harari prospettano un’umanità che, rifuggendo il trascendente, divinizza se stessa e vede in un neopositivismo rivisitato un nuovo Vangelo. È questa la nuova prospettiva della teologia?

Che cosa ci riserverà il futuro non lo so, si possono fare previsioni naturalmente ma penso che non lo sappia di preciso nessuno, neppure Harari. Leggere i libri del passato che hanno parlato di futuro e quindi giungono a parlare del nostro presente non è sempre un’esperienza di grande consonanza, concordanza, si vede quante cose si immaginano che poi non avvengono per nulla. Il destino della teologia è legato a quello della libertà, a quella capacità di cogliere il mistero di cui ho detto sopra. Nella misura in cui negli esseri umani continuerà questo fremito di fronte alla dimensione dell’inattingibile, di fronte alla libertà e al sentire la pochezza del linguaggio rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, fino a quando rimarrà questo scarto tra il di più della vita e la mente umana, –un di più che la mente umana che comunque percepisce, che capisce che non può ridurre, ma percepisce e sente– vi sarà spazio per la teologia. È chiaro se l’umanità attraverso microchip o altri meccanismi a me ignoti riuscirà a togliere e pacificare ogni tensione, arrivando a quella conciliazione che Hegel assegnava come compito alla filosofia e che oggi si assegna invece alla tecnica, per cui l’uomo da passione diventa qualcosa di soluto, di sciolto, di assolto, e sarà un essere addomesticato, è chiaro che non ci sarà spazio per la teologia, per la religione, per la trascendenza.

Nel mio libro Il principio passione (Garzanti, 2013) ho scritto che il mondo è un esperimento e come tale può anche fallire. Ritengo che se avverrà una chiusura di un’umanità su se stessa, una totale conciliazione di un’umanità che si compiace di sé e della propria intelligenza volta a soddisfare solo i propri bisogni, questo sarà un fallimento dell’esperienza umana. Evidente quindi che non vi sarà spazio per la teologia e l’uomo sarà dio all’uomo, ma non nel senso classico Homo homini deus, cioè l’uomo è qualcosa di divino, ma nel senso che l’uomo sarà l’Assoluto. La storia del Novecento però insegna: quando l’umanità ha voluto porre l’umanità stessa, l’umanità concreta con le sue ideologie, ad assoluto, il sangue non ha cessato di scorrere. Non lo so come finirà, ma se la nostra corsa finirà in questo neopositivismo tecnologico, vi sarà certo un fallimento della religione, e con essa finirà probabilmente la filosofia, di sicuro questa sarà la sorte per quel tipo di filosofia che prende sul serio il suo essere philos e il suo coltivare philein, cioè amare, perché non vi può essere spazio per l’amore laddove tutto è appagato. E forse finirà anche il nostro essere sapiens, saremo solamente faber, non più Homo sapiens ma Homo faber, o peggio Homo consumans, ammesso che si possa dire in latino.

Per leggere l’intera intervista sulla nostra rivista cartacea: qui

Giacomo Mininni

[Credit Giacomo Maestri]

«Le sto parlando da una biblioteca!»: al telefono con Paola Mastrocola

<p>dav</p>

Stupore e sacrificio. Credo che questi due sostantivi possano ben introdurre la figura di Paola Mastrocola, un’ex insegnante di lettere, consapevole della fatica che lo studio e il raggiungimento anche di una piccola parte di sapere portano con sé (le famose “sudate carte” di Leopardi) al fine di potersi sentire in grado di capire e ammirare la bellezza e il suono delle parole dei Grandi.
Nonostante il pensiero preciso e radicale a tal proposito, considerato da alcuni un po’ superato e fuori moda, nei suoi numerosi romanzi è in grado di creare delle immagini che denunciano una capacità di osservazione non comune della realtà, delle cose e delle persone, filtrata da occhi ma soprattutto da un’anima che si stupisce ed è, in un certo senso, ancora spensierata.

 

Un nuovo anno scolastico è appena ricominciato. Con quale spirito si accingeva ad intraprendere la scuola quando insegnava e qual è la prima cosa che diceva ai suoi studenti appena entrata in classe?

Insegnando al biennio, ogni anno prendevo una prima liceo scientifico quindi era proprio ricevere i ragazzi all’inizio, lo sentivo come un impegno molto importante. Cercavo di portare in classe un libro molto bello, che piaceva a me, e gliene leggevo una parte; in genere era un libro di poesie della grande tradizione, poteva essere un pezzo di Virgilio o Montale o Orazio, oppure Eliot, qualcosa di bello, di grande. Era il mio benvenuto. Io non ho mai preparato la lezione, mi lasciavo molto portare dall’istinto; non mi piaceva perdere tempo in ciance, decidevo di far subito lezione: o su come scrivere, su come fare un tema, su cosa leggere durante l’anno, cioè cercavo, fin dal primo giorno, di dare l’idea dell’anno che avevamo davanti, di dove volessimo arrivare. Però poi il discorso mi portava sempre dove non pensavo; è il bello delle digressioni, lasciarsi portare. Abbandonare la via maestra e svicolare nei viottolini laterali perché magari siamo attratti da un boschetto, da un prato di viole… Certo, il rischio è perdere la direzione. Ma è un buon rischio, secondo me, nella scrittura.
A me piaceva molto fare lezione, era proprio il centro del mio mestiere. Come sa, la nuova pedagogia non ama che l’insegnante faccia lezione, perché trovano che durante la lezione l’allievo sia passivo; mi dica lei se quando ascoltiamo qualcuno che parla siamo passivi! È una delle follie pedagogiche attuali.

Con lei condivido il grande amore per i libri e i luoghi speciali che li contengono, le biblioteche. Le ha frequentate molto nella sua vita? Ne ha una in particolare a cui è affezionata?

Le sto parlando da una biblioteca! Io sono un caso un po’ particolare, direi un malato grave. Sono almeno trent’anni che tutti i giorni liberi vengo a scrivere alla Biblioteca Nazionale di Torino che è in centro, in piazza Carlo Alberto, una delle piazze più belle della mia città. Vengo più o meno tra le otto e le nove ed esco o alle due o alle sei, dipende. Vivo qua, scrivo qua e scrivo solo qua. Io adoro le biblioteche perché sono luoghi che io chiamo templi non religiosi, in cui c’è un silenzio particolare, un “silenzio rumoroso”, pieno di un rumore mentale: c’è tutta gente che pensa, studia, legge e le loro menti fanno questo bellissimo rumore che ci accompagna e accresce il nostro pensiero individuale. Guardi, è un’esperienza unica vivere in biblioteca! In più abbiamo i libri che ci circondano e quindi ci proteggono, ci parlano anche se non li prendiamo, loro ci sono, noi sentiamo la loro presenza.

In Non so niente di te (Einaudi, 2013) scrive: «Si cominciò a pensare che muoversi era tutto. Il valore di un essere umano iniziò a misurarsi in massima parte proprio dalle estensioni geografiche che nella vita riusciva a coprire: dal chilometraggio, in un certo qual senso. I giovani in particolare venivano giudicati a seconda di quanto più si esponessero al lontano e al diverso. Il che complessivamente veniva riassunto nel concetto del “fare esperienza”».
Che pensiero ha in merito alla generazione Erasmus?

Mi sembra che stiamo dando i numeri! Abbiamo pensato che sia un valore andare via di casa e andare lontano in mondi stranieri e, se possibile, esotici. È una follia. Pensi a Federico Fellini che io adoravo e che mi manca molto. Fellini, che ha fatto forse i film più straordinari del Novecento, non si è mai mosso da Rimini. Anzi le dirò di più: se vogliamo arricchire la nostra inventiva, la nostra originalità dobbiamo stare molto fermi e centrati in noi. Credo che le grandi scoperte si facciano dentro di noi. Certo, è bellissimo conoscere nuovi mondi, andare ogni tanto a fare un viaggio, ma proprio questo sbattersi fuori di casa per una specie di diktat collettivo che si è imposto… ma no! Se ne hai voglia, se proprio è un tuo piacere ma può riguardare il 5% dei giovani, il 10%, ma non tutta questa massa che si sente sfigata se non va via! Questo no! Ci può essere un ragazzo meraviglioso, che fa degli studi ottimi e che studia sotto casa. Non è un cretino perché studia sotto casa!
Mi rende triste che siate sottoposti a questa tortura del curriculum e che dobbiate fare una moltitudine di esperienze lavorative e di studio, anche minime, irrisorie, solo per mettere voci nel curriculum; questa cosa è demenziale. Voi non siete più valutati per quello che valete e pensate ma per quanti chilometri avete fatto, cioè no. Dovreste ribellarvi ma non so in che modo.

Nella stessa pagina del libro sopraccitato emerge anche una riflessione sul concetto di valutazione. Lei scrive: «Era iniziata una strana stagione della Storia, dove tutto doveva essere “oggettivamente misurato”, e quindi valutato secondo certe tabelle internazionali».
Che rapporto ha lei con i metodi di valutazione della scuola attuale?

Lo ritengo uno dei guai della scuola attuale! Si è imposta la pedagogia del valutare e l’Europa ha fatto molto danno in questo senso, ci obbliga ad adeguarci alle normative, agli schemi, alle statistiche… Ci sono cose non valutabili e sono, in genere, le migliori. Valutare un ragazzo in base ad un test, magari fatto in poco tempo, velocemente, in modo superficiale, è svalutare la sua vita mentale, l’originalità dei suoi pensieri, anche la sua “lentezza”, perché no? Ho combattuto contro gli Invalsi e contro ogni genere di test in tutti questi ultimi anni. I test d’ingresso, per esempio, che aberrazione! Mi avessero mai sottoposta ad un test d’ingresso non sarei entrata in nessuna università. Ci sono anche menti che non sono adatte; il test misura qualcosa di molto limitato, misura la velocità ad esempio, ma non la profondità. Stiamo selezionando una categoria di giovani discutibile.

L’importanza dell’esperienza interiore e del tempo dedicato alla solitudine con se stessi emerge chiaramente come tema fondamentale in molti dei suoi libri ma anche nelle numerose interviste rilasciate.
Nella sua vita di scrittrice, insegnante, moglie e madre è proprio la scrittura ad assumere su di sé la funzione di pausa dal mondo che scorre?

Il bisogno di isolarsi da tutto e da tutti, in modo anche molto egoistico − cioè dire ogni tanto “io non ci sono per alcune ore al giorno per nessuno” − sarebbe salutare per tutti, anche per quelli che non scrivono; nessuno può vivere sempre all’esterno di sé, sempre con altri, sempre sottoposto a stimoli continui. L’eccesso di stimoli esterni è negativo, ci frastorna, ci disturba, ci distrae, ci confonde, ci impedisce il contatto intimo con noi stessi, che è poi fonte di grande piacere. Uno deve stare con sé un pochino ogni tanto nella giornata. Sarebbe bello che tutti si sconnettessero un po’ e si isolassero anche un po’, non dico tanto, una o due ore al giorno: uno legge o passeggia, guarda, si siede su una panchina, non è che deve scrivere un romanzo per forza, ma abbiamo tutti un nostro mondo interiore da coltivare, cerchiamo di non trascurarlo. Mi preoccupa che quando abbiamo un momento di pausa lo usiamo per stare connessi, rispondere alle mail o ai messaggi, quello non è un attimo di pausa.

In Non so niente di te c’è una scena che mi ha estremamente colpito, quella in cui Fil e Malmecca, seduti, passano la giornata ad acchiappare con la lenza le foglie che cadono dagli alberi, al fine di “accompagnarle nella loro caduta”. Similmente anche una frase presente in Una barca nel bosco (Guanda, 2004) mi è rimasta impressa: «Veder piovere sul mare è tutt’altra cosa, quasi un malessere: ti chiedi cosa se ne fa il mare di tutta quest’acqua, dove se la mette».
Questa sensibilità per i gesti e gli aspetti belli, piccoli e inutili della vita, questa attitudine a rendere più umano il mondo che ci circonda e questa capacità di osservazione strettamente connessa a una grande curiosità da dove prendono origine? Qualcuno gliele ha trasmesse o è autodidatta in ciò?

Non lo so, però io penso che sia legato alla domanda precedente. Se noi aumentiamo la nostra dimestichezza con l’interiorità, con lo sguardo, con l’osservazione, con lo stare fermi anche, il mondo ci entra dentro e ci parla; quindi non dobbiamo più fare niente, viene spontaneo. Se proprio vuole che le indichi la strada forse è una specie di tornar bambini, perché è il bambino che nota tutto e si stupisce. È lo stupore la chiave della nostra vita, solo che crescendo ce lo dimentichiamo un po’. Ad esempio, prendiamo il tramonto: per gli antichi era il fatto che il carro del Sole, guidato da Helios, finiva la sua corsa a Occidente; e poi però la domanda era “ma come fa il Sole se cade a Occidente a rinascere a Oriente?”. E gli antichi avevano risposto che c’è un fiume circolare che circonda la Terra e si chiama Oceano, il carro del Sole a Occidente viene preso da una nave che percorre il fiume Oceano e lo riporta a Oriente. Non è bellissimo?
Recentemente ho ri-raccontato i miti greci (L’amore prima di noi, Einaudi, 2016): il mito è un altro grandissimo motore di stupore, quando l’umanità era bambina e non sapeva nulla di scientifico si stupiva. Noi dobbiamo semplicemente tenere assieme la scienza e il mito, non separarli!

La città in cui risiede, Torino, è una città che ha ispirato numerosi scrittori. Che rapporto ha instaurato negli anni con la sua città natale? Ha mai desiderato vivere da un’altra parte?

La mia città mi piace, ma nel senso che è mia e non la cambierei. Non l’ho mai descritta perché io non amo descrivere i luoghi reali, però credo di appartenerle. Ma in un modo molto naturale. Sono nata qui, sono sempre vissuta qui, credo che morirò qui. Fine.

Frequentando le librerie ci si accorge di come chiunque ormai possa scrivere un libro e quindi, mai quanto prima, è fondamentale essere in grado di selezionare. In generale cosa ne pensa della letteratura contemporanea italiana e quali sono le sue letture preferite?

Aggraverei il problema: non solo vengono pubblicati troppi libri ma adesso in rete tutti possono scrivere. Il problema della selezione, come dice lei, è il problema centrale e lo sarà sempre di più. Non so come farà la gente ad essere guidata nella scelta tra i capolavori, pochi, e la spazzatura, tanta. Però questo ci pare molto democratico e quindi, auguri!
Detto ciò, io penso un gran bene della letteratura contemporanea italiana a differenza dei critici, quei pochi (sempre che ne esistano ancora…) che si divertono ad affermare che non sappiamo scrivere e che non abbiamo niente da dire. Io penso che ci sia una narrativa italiana molto forte, facciamo quello che possiamo, certo, ma ci sono degli ottimi libri.

Una domanda d’obbligo alla fine di ogni intervista de La Chiave di Sophia: qual è la sua idea di filosofia e che ruolo assume nella sua vita?

A me piacerebbe che nella vita reinserissimo il concetto di mistero, non per forza in senso religioso, però che ammettessimo che qualcosa è inspiegabile e che accettassimo questo valore di non riuscire a sapere tutto e di non riuscire a spiegare tutto. C’è qualcosa che ci sfugge ed è bene che ci sfugga, probabilmente lì sta il senso della vita; il bello è cercare di capire, anche con l’idea di non riuscirci mai. È come se noi fossimo di fronte a un disegno di cui ci sono i puntini, ha presente il gioco della Settimana Enigmistica? Noi più viviamo più uniamo i puntini, ma solo alla fine vedremo il disegno finale, quando ormai sarà troppo tardi! Però il bello è esercitarci a intuire il disegno, con il rischio di sbagliare.

 

Sara Rocco

Sara Rocco, nata a Verona nel 1992, si è laureata in Architettura al Politecnico di Milano, città nella quale attualmente vive. Convinta che “il futuro ha un cuore antico”, è affascinata tanto dalla conservazione dei beni storici, quanto dall’architettura e dall’arte contemporanee, e vorrebbe unirle nella propria futura professione. Amante dei teatri, delle città e dei festival, non smetterebbe mai di viverli e frequentarli. Eternamente indecisa tra un buon libro e un avventuroso trekking in montagna.

 

Intervista rilasciata telefonicamente il 23 settembre 2017 a seguito dell’incontro con l’autrice in occasione del festival Pordenonelegge di sabato 16 settembre 2017.

Crostate rubate

Era tarda sera e ci fermammo a dormire alla locanda. Saremmo rientrate a casa l’indomani.

Non c’erano tende né persiane e la luce ci svegliò molto presto. Quando arrivò l’ora della colazione, ci presentammo nella sala. La bambina, che era solita frequentare la locanda, si accorse subito che al menù della colazione mancava la cosa più importante: le crostate!

Quasi l’avesse letta nel pensiero, la locandiera entrò nella sala insieme alla cuoca e gridò. Chi ha rubato le crostate?.

Forse non c’era bisogno di gridare, pensai, dato che non c’era per nulla confusione ed eravamo, in sala, soltanto quattro: al nostro tavolo io, la bambina e la mia amica, e nel tavolo in fondo quel bambino che avevamo incontrato il giorno prima nella città senza nome1. Ad ogni modo, ci voltammo verso la locandiera con aria curiosa. Il bambino fu il primo ad avanzare un’ipotesi, e lo fece con un tono che rispondeva alla gentilezza della cuoca.

Forse ti sei dimenticata di essere una cuoca, stamattina, e ti sei scordata di prepararle, le crostate.

Ma la cuoca non soffriva di amnesie, quindi l’ipotesi era da escludere. E aveva usato una marmellata di ribes rossi che sarebbe scaduta il tredici novembre del duemiladiciotto, gracchiò.

Risolverò questo caso! Continuò il bambino. Forse allora le ha mangiate la cuoca, le crostate. Sì, magari stamattina non voleva soltanto cucinare cose buone e mangiare, come fanno i cuochi, gli avanzi dei pasti. Probabilmente stamattina aveva molta fame e si era pappata tutto!

Non è possibile, gli ricordò la bambina, ineccepibile. La cuoca è celiaca e quelle crostate contengono glutine.

Mmm… Forse oggi è il Giudigiugno?

Cos’è il Giudigiugno? Intervenne la mia amica.

È un giorno di giugno in cui le persone lanciano le torte giù dalle finestre e dai balconi per centrare i passanti, spiegò la bambina.

No comunque, oggi non è il Giudigiugno, rispose la bambina. E poi, puntualizzò, le torte che si lanciano il Giudigiugno devono contenere la panna montata. Non mi risulta che le crostate abbiano la panna!

Forse, allora, qualcuno ci ha fatto uno scherzo e ha nascosto le crostate ai ribes rossi nella cassaforte dietro al quadro dell’anatra2!

Veramente quell’anatra è un coniglio, comunque no, è impossibile: qui non ci sono passaggi segreti, disse la bambina dopo aver scostato il quadro.

Allora qualcuno per dispetto deve averle dipinte di… di… verde, e averle messe su quella lunga tovaglia verde con la quale adesso si mimetizzano!

Scrutammo la tavola e spostammo la tovaglia: era leggera e non vi era nulla su di essa.

Ho capito! Si fece serio. Ci dev’essere stato un equivoco. La donna delle pulizie ha scambiato il cestino delle crostate con quello del bucato e le crostate sono finite in lavatrice. Mamma mia, speriamo di no!

Tranquillo, neanche questo è possibile perché la lavatrice è vuota. Hai comunque tantissima fantasia, dissi io.

A volte riesco a credere a sei cose impossibili, prima di fare colazione3.

Invece, irruppe la mia amica, è possibile che manchi qualcuno, tra noi?

C’era effettivamente un ospite ancora, tra coloro che non si erano già svegliati. Era uscito senza fare colazione, o così ci aveva detto. La locandiera insinuò che doveva essere stato lui, anche perché ogni volta che alla locanda si sforna una torta, lui non si tira mai indietro. Come aveva fatto a non pensarci prima e com’era lampante questa prova, esclamò rimproverandosi.

Sembravano non esserci dubbi, ma la bambina osservò: non siamo un po’ troppo frettolosi? Non è detto che, se finora è sempre accaduto così, anche stavolta non faccia eccezione. Non c’era scritto da nessuna parte, dopotutto.

L’osservazione della bambina non faceva una piega e fu molto apprezzata. Ma ancora di più fu apprezzata la cuoca, che era già tornata in cucina a imbastire una nuova pasta frolla.

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1 Cfr. Dove trovammo la valigia del filosofo.

2 Cfr. Zuppe larghe un metro.

3 Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, cap. V.

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

La follia come origine e destino della ragione

Quale relazione esiste tra follia e ragione? A prima vista sembrerebbero due concetti opposti, immaginando la follia come uno stato in cui la ragione è andata perduta. In realtà c’è anche dell’altro.
Proprio questo “altro” hanno voluto indagare i relatori della serata Follia e ragione, organizzata dal festival Pensare il presente di Treviso in collaborazione con TRA – Treviso Ricerca Arte, mettendo in campo non solo la psichiatria (impersonata dal professor Gerardo Favaretto) ma anche la filosofia (rappresentata dal presidente della SFI di Treviso Damiano Cavallin), la teologia (a cui ha dato voce il professor Francesco Paparella) e l’arte (illustrata dalla performance de I didascalici e dall’artista Cristian Fogarolli).

I legami tra le due sono dunque vari e molteplici, poiché varie sono le forme in cui si esprimono l’una e l’altra. Origine e destinazione, arte e scienza, luce e tenebra – opposte e complementari. L’eccesso della ragione sfocia spesso nella follia – pensiamo anche solo allo stesso Nietzsche – poiché un eccessivo controllo è esso stesso una forma di squilibrio. Il dubitare dell’esistente introdotto da Cartesio e sostenuto dalla dottrina di Schopenhauer, sino al delirio paranoico che troviamo splendidamente rappresentato nel film The Truman Show del 1998, sono uno dei sensi di lettura di questo binomio: la follia come destino della ragione.

Vi è anche un’altra lettura, ovvero quella attuata per esempio dagli antichi greci, che vede associare allo spirito dionisiaco la produzione artistica, dunque alla dimensione più irrazionale dell’uomo: il gesto creativo quindi sfuggirebbe dalle briglie della ragione. Ma siamo proprio sicuri che il gesto artistico sia privo di studio e calcolo? Cristian Fogarolli, giovane artista trentino, dopo un lungo studio del materiale d’archivio di alcune ex istituzioni manicomiali italiane ha selezionato una serie di fotografie che rappresentano uomini e donne in esse ricoverati. Non è possibile indovinare che tipo di patologia essi avessero, né se si trattasse di persone realmente affette da psicopatologie oggi riconosciute. Non esiste spesso nella fotografia (come nella realtà) un confine netto ed evidente tra i cosiddetti “sani” ed i cosiddetti “malati”, poiché la maggior parte dei tratti che ci appartengono continuano ad accomunarci.

Sono in effetti la manifestazioni fenomenologiche e la loro ripetitività a consentire la diagnosi psichiatrica, mentre non esisterebbe un criterio strettamente biologico nel loro verificarsi. Lo psichiatra Gerardo Favaretto mette dunque in dubbio, come provocazione, l’esistenza stessa di una patologia psichiatrica, che è dimostrabile solo dalla realtà del dolore. Un dolore che, dagli anni Cinquanta, si è cominciato a curare ed arginare con discreto successo anche tramite la creatività e l’arte: una follia che cura una follia.

Il dolore però resta: non è sempre facile da cogliere e, proprio per assenza di verità biologiche, deve essere colto tramite l’empatia, intesa come la capacità di creare un’assenza all’interno del nostro sentire per poter percepire l’altro – uno spazio aperto nella nostra razionalità. La ragione avrebbe infatti anche dei limiti e la religione ne costituisce un esempio lampante: come ci spiega il professor Francesco Paparella, la ragione ci conduce solo alle soglie del mistero (quello divino), mentre è l’abbandono che ci porta con naturalezza verso una conoscenza nuova, affascinante, “divina”. E non sempre facile da cogliere, ma in definitiva impossibile da ignorare.

Ma infine vado errando fra luce e tenebra, senza sapere se è il crepuscolo o l’alba. Alzerò solo la mano di cenere a fingere di bere una tazza di vino, e dimenticato il tempo me ne andrò via da sola.
Ahimé, se è il crepuscolo la notte mi sommergerà; oppure sarò cancellata dal giorno, se adesso è l’alba.
Amico, è tempo.
Errerò nel buio verso il nulla.
[…]
Andarmene via da sola, senza te ma anche senza altre ombre nel buio. Da sola affonderò nel buio, quel mondo sarà interamente mio1.

Giorgia Favero

Articolo scritto in occasione dell’incontro Follia e ragione svoltosi venerdì 17 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

NOTE:
1. Lu Xun, Il commiato dell’ombra, in Erbe selvatiche, 1927

[Immagine opera di Christian Fogarolli]

Si può sperimentare l’eternità dell’amore oltre la morte?

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore […] perché forte come la morte è l’amore».

Cantico dei cantici 8, 6

Nel corso della nostra vita siamo posti di fronte all’invalicabile limite della morte, inteso come mistero per eccellenza. Dinanzi alla perdita di un proprio caro, di una persona amata, ci chiediamo che ne sarà di lui, di lei, ma soprattutto: che ne sarà del nostro amore per quella persona, una volta che si sarà congedata dal mondo? Che ne sarà di tutto quello che abbiamo vissuto insieme e che non potremo mai più rivivere? Sarà possibile continuare a sperimentare quell’amore cha ha caratterizzato il nostro rapporto con la persona morta?

Queste laceranti domande interpellano i filosofi sin dalle origini e tengono bordone nei duemilacinquecento anni di storia del pensiero. Un pensiero che si confronta con l’infinito desiderio d’infinito amore e si scontra con la finitudine dell’esistenza, limitata nel tempo e nello spazio. Ma è proprio l’amore la forza eterna che trascende la temporalità della nostra esistenza. È l’amore che è necessario coltivare nella nostra vita, perché solo esso lascia tracce di bellezza eterna e intramontabile nel nostro transito terrestre.

Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie; nelle profondità tutto diventa legge»1. Questo significa che l’amore può essere vissuto e sperimentato concretamente anche senza la presenza fisica dell’amato, nella propria profonda interiorità, poiché solo lì vi è l’eterna sorgente dell’amore; quell’amore che trascende anche la morte. Etty Hillesum testimonia quanto sin qui detto attraverso le parole che annota nel proprio Diario in seguito alla prematura morte dell’amato Julius Spier:

«Il mio cuore volerà sempre verso di te, da ogni luogo della terra, come un uccello e sempre ti troverà […] Sei diventato talmente parte del cielo che s’incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto. E se anche mi trovassi in una cella sotterranea, quel pezzo di cielo si stenderebbe dentro di me e il mio cuore volerebbe a lui come un uccello, ed è per questo che è tutto così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato»2.

Parole dense, profonde, consapevoli, di un’indicibile tenerezza e maturità interiore, psicologica e spirituale. Sì, perché solo un profondo percorso interiore può condurci ad esprimere con questa lucida e delicata dolcezza l’amore che trascende l’assenza della persona amata.

Un simile approdo si riscontra anche nelle parole e nell’esperienza di Viktor Frankl. Lo psichiatra viennese, nell’inferno del lager nazista, evoca l’immagine della moglie ventiquattrenne, anch’ella internata in un differente campo di sterminio e della quale ignora la sorte. Di fronte al limite invalicabile dell’assenza, della morte, si fa urgente una tendenza all’interiorizzazione. Il pensiero di Frankl va all’amore per la creatura amata, a prescindere dalla presenza fisica della stessa e dal sapere se sia o meno nel novero dei viventi. Scrive Frankl:

«Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. […] Parlo con  mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e […] per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. […] l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato»3.

L’amore non solo eccede la morte, ma eternizza la vita. Nell’interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l’amore per le creature, sperimentando l’eternità indissolubile di questo legame. L’amore per una persona cara è la bellezza senza fine di un fiore i cui petali mai avvizziscono, perché eternamente coltivati, riparati e protetti nella propria intima interiorità, all’interno della quale tutto viene conservato assumendo i contorni ontologici dell’essere eterno.

Pervenire a una simile, profonda consapevolezza, richiede un quotidiano e paziente esercizio interiore, che non può mai dirsi completo e raggiunto. Proprio per questo, di fronte all’enigma della morte, noi tutti ci troviamo al confine fra l’abisso del nulla, il nichilismo e l’eternità dell’essere che si fonda nell’amore che non ha mai fine. La nostra fragile umanità, al cospetto della fine, vive uno spaesamento tragico, perché non è né semplice né scontato riconoscere l’eternità dell’amore. Negli ultimi istanti della vita di una persona, particolarmente se cara, la vulnerabilità della nostra esistenza emerge nella sua angosciante pesantezza. Ma l’uomo che riflette sulla propria precaria condizione vive con umiltà e riconosce nella propria interiorità la traccia eterna dell’amore. La forza della fragilità che è principio e fondamento di ogni autentica relazione. Poiché, come scrive Rilke, l’amore è «qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa»4, l’uomo può imparare ad abitare la lacerante contraddizione della propria esistenza, segnata dalla morte, senza rimanere soffocato, aprendosi all’intramontabile orizzonte della bellezza interiore, nella quale l’amore ha la sua fragile ma eterna dimora.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, tr. it di L. Traverso, Milano, Adelphi, 201321,  p. 33.
2. E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, pp. 751-752.
3. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 74.
4. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, op. cit., p. 49.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Dentro il paradosso: quando il barbiere si rade da sé

Se è vero che per natura – come ci dice Aristotele – l’ uomo ama conoscere, ama anche – e ciò è confermato dai quiz televisivi come dalle riviste di enigmistica – che lo si provochi nella conoscenza. Questo fanno enigmi e paradossi che l’uomo per secoli si è divertito a costruire e a cercare di risolvere. Ma, al di là della nostra contingente soddisfazione nel risolverlo o della frustrazione nel non riuscirci, qual è il valore conoscitivo del paradosso, cosa ci dice cioè sul modo di pensare dell’uomo e sulla scienza che egli elabora?

La storia dei paradossi corre parallela alla storia dell’uomo che si ingegna nel superarli: la sfida che essi gettano all’uomo costituisce l’altra faccia della loro debolezza. Per essere più espliciti: una contraddizione indica di cambiare strada – di lì proprio non si passa –, il paradosso invece invita a cambiare modo di percorrere la stessa per evitare un ostacolo imprevisto, magari essendo più consapevoli dei propri mezzi e di certi limiti. Così ad esempio il paradosso del barbiere, che ci chiede: chi rade il barbiere, posto che il barbiere rade solo chi non si rade da sé? Esso ha portato a riflettere sui limiti dell’autoriferimento in logica e in matematica spingendoci ad elaborare soluzioni che evitino questo tipo di difficoltà.

In generale il paradosso così inteso è il sintomo che dobbiamo fare un check-up tecnico, cioè tornare ad analizzare gli strumenti base che utilizziamo nel pensiero, per assicurarci che non li stiamo usando in modo scorretto. Se il paradosso, fatte queste verifiche, regge, allora ciò è indice che stiamo sfiorando il limite del pensiero o del linguaggio.

Quanto detto vale per i cosiddetti paradossi logici o sintattici, esistono però anche i paradossi semantici o pragmatici, come quello celebre e antichissimo del mentitore, che nella formulazione più breve recita: «Questa proposizione è falsa», oppure la battuta di Georg Carlin che si chiede: «Se uno cerca di fallire e ci riesce, cosa ha fatto?». Questo tipo di paradossalità è legata al rapporto parola-mondo e richiede per funzionare di essere inserita almeno con la fantasia in un contesto concreto. Sicché i paradossi del primo caso nascono in forma logico-matematica e vengono poi tradotti, quando è possibile, in forma narrativa, questi secondi invece nascono dal concreto e non è possibile, salvo forzature, trasporli in un contesto logico.

Con il paradosso pragmatico si fa evidente un altro lato di quella fascinazione umana verso il paradosso che cercavamo di indicare all’inizio dell’articolo, e non per nulla esso è usato da maestri della comunicazione, comici e letterati: Wilde, Nietzsche, Chesterton – e la lista potrebbe indefinitamente estendersi –p furono tutti amanti e grandi frequentatori dell’uso retorico del paradosso.

Elegante e spiritoso, problematico e sfuggente il paradosso ha conquistato tanto i letterati quanto i matematici. Alcuni ne spiegano il successo sostenendo che è la struttura stessa della realtà ad essere paradossale, secondo altri invece esso si riduce a nulla più che ad un uso errato del linguaggio, un gioco di parole. Rimane nondimeno del tutto intatto il mistero del suo fascino sull’animale razionale che è l’uomo.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google immagini]

Breve fenomenologia del complotto

«La teoria sociale della cospirazione […] è una conseguenza del venire meno del riferimento a Dio, e della conseguente domanda “chi c’è al suo posto?”».
K. Popper

Per chi frequenta con una certa assiduità la rete, il tema del complottismo, ossia la mania di trovare spiegazioni improbabili dietro avvenimenti più o meno interessanti, risulta certamente familiare. La rete e i social network, sono attraversati da un nutrito sottobosco di gruppi e pagine intenti a riscrivere porzioni di storia a partire dall’assioma che debba esserci qualcosa o qualcuno oltre il suo fondo opaco capace di sorreggere e governare le vicende umane.

La tendenza umana ad interpretare la realtà in modo eccessivamente emotivo ed esente dal filtro razionale, affonda le radici nella notte dei tempi, il sacerdote sabino scrutava il cielo per ricavare dalla forma delle nubi premonizioni sull’avvenire, il complottista oggi va in cerca, a capo alzato, di scie chimiche.

L’antieconomicità, cioé leggere un evento oltre la sua oggettiva predisponibilità a farsi dilatare nell’interpretazione, è la cifra che accomuna l’uomo antico e l’odierno complottista1 ed allontana entrambi dal buon lettore di segni qual è ad esempio Sherlock Holmes. L’investigatore, che fa per professione ciò che ogni uomo fa da amatoriale e spesso inconsciamente, immagina possibili ricostruzioni di eventi a partire dagli indizi lasciati sulla scena, non forza la scena ed i segni nel quadro di una storia già immaginata e scritta2.

Le caratteristiche delle teorie dei complotti sono poche e trasversali: esse hanno sempre pretese di globalità, vogliono essere in grado di spiegare ogni evento, e per questo si fanno abbastanza vaghe ed elastiche da poter comprenderli tutti. Sono forme di fanatismo, sorde al buon senso comune e al pensiero critico, come dimostra il paradosso per cui talvolta il potere dirige la sete dietrologica delle masse a suo vantaggio, ossia organizza un complotto facendo credere ad un complotto, come mostra il caso dei protocolli dei Savi di Sion: falso storico in cui si illustra il piano e i metodi di una élite semita per conquistare il potere, che ebbe l’effetto di attizzare rancori antisemiti e diede il via alle innumerevoli atrocità compiute nel Novecento verso quel popolo.

«A voler trovare connessioni se ne trovano sempre, dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete, in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto…»
U. Eco

Le credenze complottiste ricordano religioni ctonie e notturne, reintroducono forzatamente il mistero in un mondo che, volutosi completamente trasparente, sente la nostalgia di qualcosa. Ciò che torna assume però la forma di un mistero minaccioso, di una divinità maligna, dell’incubo persecutorio e paranoide da cui non vi è scampo.

Se teorie di complotti e di società segrete sono sempre esistite, negli ultimi tempi il fenomeno sembra aver avuto un’impennata in termini quantitativi. Ciò è legato strettamente ai nuovi media, come internet, che mostrano continuamente al singolo la sua impotenza davanti agli eventi della Storia con la esse maiuscola, e al contempo gli danno modo di oggettivarla. Internet in particolare – se è vero che l’informazione non è indipendente dal medium che la veicola – per la sua struttura reticolare, si presta, attraverso un uso fazioso, ad equilibrismi associativi di cui si nutre il complotto. Il complotto è insomma più amico del web che non della biblioteca, dove ogni link è a faticoso carico del lettore.

Con ciò non si vuole negare che la realtà sia spesso più complessa e articolata dell’immagine che di essa viene globalmente veicolata, e che congiure e complotti nella storia dell’uomo ce ne siano stati. Tuttavia è necessario, attraverso il principio di economicità dell’interpretazione e il pensiero critico di cui si è parlato, saper distinguere tra spettri e verità, ponendosi tuttalpiù in uno stato di salvifica epochè, di scetticismo critico.

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:

1. Se quella dell’uomo antico è però un procedimento di ipocodifica giustificato e fondamentale rispetto alla situazione in cui si trova, nel caso del complottista gli strumenti per un’interpretazione critica sono presenti ed è imputabile a lui stesso il rifiuto di un indagine razionale.

2. È curioso osservare che i due romanzi di Umberto Eco, romanziere e semiologo, che riscossero più successo, cioè Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988) siano rispettivamente un giallo e un thriller basato sul tema del complotto, come due facce, l’investigatore e il complottista, dell’essere simbolico e semiotico dell’uomo.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Un dolore senza voce

La vita, ma ancor di più la morte, per gli esseri umani di ogni etnia, cultura e confessione religiosa, rimane un mistero insondabile. Molto spesso c’è un modo sbagliato di guardare la morte. Questa realtà riguarda tutti noi e ci interroga in modo profondo, specialmente quando ci tocca da vicino, o quando colpisce i piccoli, gli indifesi, in una maniera che ci risulta scandalosa. Come rispondere alla domanda: “perché soffrono i bambini? Perché muoiono?”. Se la morte viene intesa come la fine di tutto, questo spaventa, atterrisce, si trasforma in minaccia che infrange ogni sogno, ogni prospettiva, che spezza ogni relazione e interrompe ogni cammino. Questa concezione della morte è tipica del pensiero ateo e nichilista, che interpreta l’esistenza come un trovarsi casualmente nel mondo, per camminare verso il nulla. Dichiara Papa Francesco: «Molti non credono in un orizzonte che va oltre la vita presente e vivono come se Dio non esistesse». Quando ci lasciamo prendere da questa visione sbagliata della morte, non abbiamo altra scelta che quella di occultarla, di negarla, o di banalizzarla, perché non ci faccia paura.  Ma il cuore dell’uomo e soprattutto quello di donna e madre, si ribella a questa soluzione. L’uomo ha desiderio d’infinito e nostalgia dell’eterno. Qual è, allora, il senso cristiano della morte?
Se guardiamo i momenti più dolorosi della nostra vita, quelli in cui abbiamo perso una persona cara, ci accorgiamo che, anche nel dramma della perdita, anche lacerati dal distacco, sale dal cuore la convinzione che non può essere tutto finito, che il bene dato e ricevuto non è inutile. C’è un istinto potente dentro di noi, che ci dice che la nostra vita non finisce con la morte. La morte è, purtroppo, un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita. Eppure, quando tocca agli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un figlio o di una figlia sembra fermare il tempo: una voragine inghiotte passato e futuro. La morte che porta via il bambino è uno schiaffo alle promesse, ai doni e ai sacrifici d’amore. In questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione.

Come comprendere un’esperienza che appare evidentemente contro natura, devastante, come il lutto nel periodo pre- e perinatale1?

Per comprendere il lutto perinatale e conoscere meglio il vissuto dei genitori colpiti dalla perdita del proprio figlio, sono necessarie alcune premesse:

  1. L’idea di avere un figlio ha origini molto remote nella persona dei genitori: la genitorialità, infatti, ha inizio ben prima del concepimento;
  2. Il percorso genitoriale è irreversibile. Quando si realizza la gravidanza, prende vita il primo legame di attaccamento dettato dalla relazione con quel bambino portato in grembo. La gioia dell’attesa proietta i genitori nel progettare lo spazio dove accogliere il nascituro. I genitori sono proiettati in un futuro dove la nascita è già avvenuta2;
  3. Non si diventa madre o padre al momento del parto, ma molto prima, durante tutto il percorso della genitorialità.

Il lutto in gravidanza o dopo il parto ed anche le nascite di bambini terminali chiamano i genitori ad affrontare un difficile percorso, in cui l’amore per il bambino e il dolore della perdita si intrecciano con il proprio personale vissuto, lasciando gli stessi attoniti. L’evento “morte” spezza il legame fisico col bambino, ma non il legame psichico che resta dolorosamente saldo, indipendentemente dall’età gestionale in cui la morte interviene. Il cordone ombelicale, da un punto di vista mentale e spirituale, non viene mai reciso.

La nascita, che coincide con la morte, rappresenta sempre un evento molto triste. È difficile accettare il fatto che il bambino, cresciuto in grembo, possa cessare di vivere improvvisamente senza una ragione evidente. Nessuno è mai preparato ad affrontare una morte del genere.

La morte all’inizio della vita è concettualmente difficile da capire e da accettare sia da parte di chi ne è colpito direttamente, e che inevitabilmente con essa deve fare i conti, sia da parte della società. Infatti, la nostra cultura occidentale non trova parole che possano spiegare ciò che è di fatto innaturale: come si può morire prima di nascere? Un dolore cui non si dà voce è destinato a restare privato. Questo tipo di morte non ha uno spazio sociale ben definito e, per certi versi, rimane ancora un tabù: non se ne parla, si tende ad evitare l’argomento ed il confronto. Una spiegazione a tale atteggiamento può essere data dalla volontà di dimenticare rapidamente l’insuccesso e il fallimento: un bambino desiderato e cercato non può morire! L’aborto spontaneo, il bambino nato morto, il neonato terminale non trovano spazio nell’ideale di maternità. Il bambino che muore prima di nascere è una cosa inimmaginabile, inaudita e inaccettabile.

Cosa fare?

La situazione va affrontata con lealtà, sincerità e trasparenza da parte degli operatori sanitari – e non solo – condividendo con i genitori il dramma, la tristezza, il dolore e l’impotenza: ben sappiamo che sentirsi soli, in un momento così drammatico, non fa altro che aumentare l’ansia e la depressione e consegna la persona, sofferente, a fantasmi e ossessioni di cui ci si può liberare; d’altro canto, soltanto facendo appello alla speranza che, per chi crede o semplicemente ha avvertenza del fatto che la vita non si esaurisce nella sua dimensione biologica, come con la vedova di Nain3, Dio restituisce ai propri cari chi li precede nel doloroso passo.

Rocco Colucci

Rocco Colucci è nato a Filiano, un piccolo comune della Lucania, in provincia di Potenza, nel 1962. Ordinato sacerdote nel 1987, ha sempre coltivato un profondo interesse per le tematiche della pedagogia e della bioetica; attulamente docente presso il Liceo Classico “Quinto Orazio Flacco” e presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Vairo” di Potenza, città in cui è anche parroco.

NOTE:
1. Tecnicamente si definisce morte “perinatale” la perdita di un figlio che avviene, indicativamente, tra l’ultimo periodo della gravidanza e i primi giorni di vita dopo il parto. Ma il lutto perinatale si può estendere anche all’aborto spontaneo, all’interruzione terapeutica di gravidanza, alla riduzione fetale in caso di gravidanze multiple o alla morte endouterina di uno dei gemelli; in caso limite, anche all’abbandono per adozione.
2. Tale proiezione si manifesta naturalmente già dalle prime settimane di gravidanza.
3. Cfr. Lc 7, 11-15.

[Immagine tratta da Google Immagini]