Felicità: un pacifico conflitto

L’uomo desidera instancabilmente vivere in uno stato di pace, di quieta felicità: una necessità che trova le più sublimi forme di espressione nel periodo del Romanticismo. Afferma infatti Schlegel nel Corso di letteratura drammatica: «la poesia degli Antichi era quella del godimento, la nostra è quella del desiderio». Tuttavia, ricercando la felicità, l’uomo sperimenta l’amarezza del contrasto tra la tensione verso l’infinito e la limitatezza delle facoltà umane, qualità che rispecchiano il dualismo della sua complessa natura: «I Moderni hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo […] I Moderni, il cui pensiero si lancia verso l’infinito, non possono mai compiutamente soddisfare se stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imperfetto». Dunque il raggiungimento della felicità, intesa come pace e pienezza, si rivela impossibile, poiché richiederebbe l’annullamento o la trascendenza della natura umana: condizione di cui possiamo trovare una buona rappresentazione, inoltre, nelle funzioni matematiche, delle quali vengono studiati i “limiti” mentre tendono, continue, all’infinito.

Un grande esempio di animo inquieto, che si sforzò con la sua arte di superare i limiti umani fu Michelangelo: l’ansioso desiderio di rendere concreta la perfezione ideale esistente nella sua mente, la struggente insoddisfazione dei risultati ottenuti, il rifiuto dei propri limiti espresso con il “non finito” delle opere tarde rivelano la sete di assoluto dell’uomo, condannato, per la sua “doppia natura” appunto, ad avvicinarvisi senza poterlo tastare. Egli ne resta separato, come da un muro di vetro attraverso il quale traspare quella luminosa bellezza, e ciò nonostante non cessa di desiderarlo, poiché riconosce in esso il riflesso di una parte di sé.

Forse allora la felicità non può essere raggiunta con l’impotente rassegnazione di fronte ai limiti umani (“chi si accontenta, gode”), come nemmeno con la titanica impresa del loro superamento, che porterebbe unicamente ad amare delusioni. Al contrario, la convivenza della sfera spirituale con quella corporea, elementi essenziali di un uomo che possiede “celesti doti” (Foscolo, Dei Sepolcri) e si trova costretto in una realtà materiale, genera un’inquietudine che è la forza creatrice dell’essere umano, è il suo libero arbitrio nel bene e nel male; ed egli, assecondando la spontaneità, la genuinità e l’intrepidezza di questo stato d’animo, tocca le vette più alte della propria realizzazione. Dunque, nel rendere concrete queste inclinazioni naturali consiste la felicità: non nell’“atarassìa”, una condizione di pace e di soddisfazione duratura, ma nella via, lieta e tormentata, che vi conduce senza mai definitivamente approdarvi, poiché questo è lo stato più affine alla natura dell’animo umano. Infatti, anziché identificare l’obiettivo raggiunto con un desiderabile locus amœnus e tollerare con sofferenza il percorso ancora immaturo, è molto più fruttuoso compiacersi in quell’equilibrio dinamico, vitale ed inquieto, che caratterizza uno spirito intraprendente e nel contempo disponibile ad essere dominato da irrisolvibili contrasti.

La grande impresa dell’uomo consiste quindi nel conciliare queste due nature e nel trasformare il conflitto esistente tra esse nell’umana energia creatrice. In questo si cimentano agli artisti, poiché essi danno espressione alla spiritualità umana attraverso le forme concrete dell’arte: «la loro poesia aspira di continuo a conciliare, ad unire intimamente i due mondi, fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima […]. In una parola, essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero» scrive ancora Schlegel. Ma in modo ancor più intimo e particolare, questo contrasto tocca i musicisti: la musica è una realtà di molto superiore a quella dell’uomo, perché è così viva, penetrante e allo stesso tempo sfuggente e trascendente, come una Musa che degni della sua ispirazione solo gli uomini che nel modo più sublime la invocano; e il tentativo di gestirla non può che generare paura, senso di vulnerabilità: la mobilità che mette in contatto la debolezza umana con l’immensità dell’arte. Infatti, se l’uomo fosse della stessa natura della musica, questa non susciterebbe emozioni, non eleverebbe gli animi ad uno stato superiore, perché diventerebbe parte del gran numero di fenomeni che l’uomo ha creato e ha imparato a controllare con le proprie facoltà; e gli artisti non sarebbero più i «custodi della bellezza del mondo» (Paolo VI). Così, si risvegliano le creature infernali al suono della cetra di Orfeo, e rivive Euridice grazie all’amore espresso con quell’arte purissima.

La musica allora assicura il contatto con la felicità: un susseguirsi di istanti, rarefatti ma profondamente eterni, in cui l’anima viene immersa in una dimensione dolcemente celeste. L’artista si nutre di questi momenti preziosi, in cui l’intensità dell’emozione ferisce i limiti umani e dona loro straordinaria sensibilità, in modo che attraverso queste ferite fluisca, pura, la musica. Ricercare come incatenati respiro in una simile esperienza; lasciarsi trasportare dalla forza libera della musica: un incessante contrasto di stati d’animo, che soddisfa proprio perché carica di tensione irrisolvibile le necessità di questa creatura mortale, che ha vita in un’anima eterna.

 

Sofia Marchetto

 

Sofia frequenterà a settembre il quinto anno al Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Treviso. Questo è l’articolo con cui ha partecipato al nostro concorso di scrittura creativa Alla ricerca della felicità conquistando la pubblicazione sul nostro sito. Ecco la sua breve presentazione.

Mi chiamo Sofia Marchetto, sono una studentessa del Liceo scientifico “Leonardo Da Vinci”. 
Provo interesse per ogni ambito di studio, in particolare sono appassionata alla letteratura, alla filosofia, alla storia dell’arte, ma anche alle scienze della natura. Suono il violino e amo molto la musica classica di tutti i periodi, poiché la varietà di stili artistici è espressione della molteplicità di stati d’animo e di punti di vista che appartengono all’uomo: dunque, ricercando la mia identità, cerco di aprirmi a ciascuno di essi per arricchire le mie conoscenze e sensibilizzare la mia percezione della realtà.

Seducente Madonna: pensieri e impressioni a partire da Munch

Sconvolgente.

Quando si entra nel Museo Munch di Oslo e ci si incammina verso la Madonna del pittore norvegese, acquisendo infine una posizione frontale, gli occhi si spalancano e si rimane come inebetiti. Nella più totale impossibilità di muoversi, di contrarre e rilassare i muscoli facciali, si cade in una condizione di estasi. Non si ha più percezione del proprio corpo, della pesantezza, dello spazio, delle persone circostanti e delle reciproche posizioni. È una bellezza magnetica ed angosciante quella della Madonna di Munch. Così lontana dal tradizionale canone della cristianità. Così profana. Il titolo rimanda alla madre di Cristo, concepita e da sempre rappresentata dalle mani degli artisti come pura ed eternamente vergine. La sua, invece, ha lunghi capelli corvini e un corpo seducente: incarna un modello di donna eroticamente attiva che non rinuncia alla sua sacralità. Al contrario, ella è un connubio di dimensione reale e spirituale, una dialettica tra sacro e profano che si svolge senza interruzione in un vortice dai contorni verdastri con sfumature rossastre. Quello stesso rosso che si rinviene nell’aureola di Madonna, la quale sembra voler indicare la sacralità non di una sola persona, ma di una pluralità umana deformata e al contempo sublimata dalla sofferenza e dalla passione. Quei contorni verdastri hanno la forma di onde vorticose tanto da far sembrare la donna del dipinto un’attraente creatura marina. «Like a floating body we slip out to a great sea- on swelling waves that change colours from dark purple to blood red»1, così scrive Munch. Queste onde, che nulla hanno del realistico, sono spesso descritte come una continuazione dell’aura, un suo concentrico prolungamento. Peraltro, un colore verdastro investe la parte bassa del corpo e le braccia come se fossero immerse nell’acqua, a differenza del capo e del seno che catturano la luce. Assomiglia così magnificamente ad una ninfea che si lascia trasportare dalle onde. Si abbandona ad esse come in una metamorfosi onirica. Morte e annientamento, conversione e rinascita sono solitamente associati all’acqua. Un “sentimento oceanico” fu l’espressione usata da Sigmund Freud per indicare l’esperienza mistica di unità con il cosmo. Peraltro, nella mitologia di numerose culture, l’acqua è associata di frequente alla Grande Madre, fonte della Vita.

Così interessante e innaturale è la posizione delle braccia: mentre l’una rivolge la mano e la nasconde dietro la testa, l’altra la cela dietro la schiena. Eppure nessuna madonna è mai apparsa in una posizione così scomoda ed in tensione perenne. È colta in un movimento che richiama la lotta di Laocoonte con i serpenti, una danza rituale al confine ultimo della vita che la stessa Madonna rappresenta. Ed è il medesimo confine che Munch vede nello Schiavo morente di Michelangelo, dove la testa si sporge all’indietro ed è sorretta da una mano, segno di dolore fisico. Non solo, anche lo Schiavo ribelle di Michelangelo è racchiuso in Madonna. Ella si trova in una condizione di schiavitù, costretta a fungere da collegamento che unisce generazioni passate, presenti e future. «Look at the dark, hollow pain in her Eyes, the pain of being in the grip of the great Forces, compelled to create new Life» 2. Emerge un’irrimediabile tristezza per un fato già segnato, per una funzione biologica che tanto influisce sulla vita di ogni donna. Il peso della vita e l’esserne veicoli. Eppure ella contiene un moto di ribellione che la spinge a chiudere gli occhi e a percepire altro oltre al ventre e alla sua importanza. Sottolinea dell’altro. L’espressione del suo viso ci suggerisce che c’è altro. Sembra che il corpo voglia rompere le catene della maternità, acquistare un altro valore, far emergere delle esigenze troppo a lungo inascoltate. Contro la tradizione cristiana, il corpo viene nobilitato con le sue imperfezioni, la sua tensione, le sofferte pose. Nobilitato, ma non per la funzione materna, a cui nulla si richiama nel dipinto. Viene nobilitato in sé, senza alcuna attenzione per gli aspetti funzionali. Ritornano in mente le parole di Simone de Beauvoir: “E’ in gran parte l’ansietà di essere una donna che devasta il corpo femminile” 3.

 

Sonia Cominassi

 

NOTE:

1. Breve testo scritto da Munch su uno schizzo del suo portfolio “The Tree of Knowledge”, MM T 2547-64, Munch Museum in Madonna, a cura del Munch Museum, Vigmostad&Bjørke As, Bergen (Norway), 2008, p. 47.
2. Breve impressione lasciata da Munch su una litografia dell’opera “Madonna”, MM G 194-85, in ivi, p. 50.
3. S. De Beauvoir, Una donna spezzata, Einaudi, Torino 2014, p. 166.

[Immagine tratta da Wikimedia Commons. Dettaglio opera di Munch]

Nella grigia immensità di Bruges, tra bianchi cigni e carillons della sera.

«Lenta lenta ancora va/ nei canali l’acqua verde/ e co’ suoi cigni si perde/ nella grigia immensità/ e sull’umile città/ che dal tempo s’allontana/ piange piange la campana/ dell’alto Beffroi;/ e nell’aria che s’annera/ al cader del vecchio giorno/ piangon piangon tutt’intorno/ i carillons della sera»: scrive così Marino Moretti in La domenica di Bruggia nella raccolta crepuscolare del 1910 Poesie scritte col lapis20952927_333317560457702_6420347248987020868_n.

Visitare Bruges è stato per me un viaggio verso il luogo dell’anima, dapprima esplorato attraverso l’arte, la letteratura e miriadi di fotografie da itinerari turistici, perché questo borgo medievale, perennemente autunnale e decadente, fiabesco e chic, fuori dal tempo e démodé, rispecchia il mio io, è parte della mia geografia interiore, oltre al fatto che Marino Moretti è il poeta di cui mi sono occupata per la mia tesi di laurea triennale L’ultimo Marino Moretti: un garbato clown nel suo giardino (con uno sguardo su Palazzeschi).

Bruges, la Venezia del Nord, è la città più romantica delle Fiandre: viali acciottolati, archi di mattoni, chiese di pietra, ponti pittoreschi, cigni bianchi e cavalli che tirano i calessi sulle giunchiglie dei parchi, canali che scorrono come un filo di perle, tra nebbia e vento, in un’atmosfera fiabesca.

Patrimonio mondiale dell’UNESCO, Bruges è un magico bijou medievale, il cui simbolo è il Belfort, la torre civica campanaria, che si innalza superba sul centro storico, con i suoi 83 m di altezza, e offre, dopo 366 scalini via via più piccoli, un panorama straordinario sulla pittoresca città, ritmandola con le sue 47 campane, azionate da un carillon, che suonano ogni quarto d’ora da più di sette secoli e mezzo.20988394_333386620450796_8274380933873559307_o

Suggestivi e senza tempo il Beghinaggio, luogo di preghiera e meditazione – un tempo abitato dalle beghine di Bruges, oggi da monache dell’ordine benedettino ‒ e il romantico Lac d’Amour, in fiammingo Minnewater Lake, dove ammirare la grazia dei cigni.20989210_333319550457503_8727632417522453167_o

Punto di maggiore interesse turistico, cuore pulsante della città, è il Grote Markt o Piazza del Mercato, centro commerciale di Bruges in epoca medievale: fiancheggiato dalle caratteristiche case con guglie appuntite – un tempo sedi delle corporazioni, oggi occupate da ristoranti e caffè – a est del Markt si trovano il neogotico Palazzo provinciale, sede dell’amministrazione provinciale, e il palazzo delle Poste in mattoni rossi, al centro due statue raffiguranti, Jan Breydel e Pieter de Coninck, eroi della rivolta fiamminga contro l’occupazione francese (Battaglia degli Sperono d’Oro, 1302).

Tra le piazze principali di Bruges, il Burg, dove un tempo sorgeva il castello fortificato (burg appunto) per proteggere il centro abitato dagli attacchi dei Vichinghi, e la chiesa di San Donaziano, principale edificio sacro della città. Bellissimo lo Stadhuis, il trecentesco municipio gotico, con guglie, torrette e facciata splendidamente decorata. Accanto al Municipio, in stile rinascimentale, l’ex Registro Civile ora sede del Museo Storico della ‘Brugse VrijÈ (letteralmente, Libertà di Bruges) e la Casa Prevost, antica residenza del prevosto di Bruges, in stile barocco.

Bruges la morte, titolo del romanzo del simbolista belga Georges Rodenbach del 1892, e scritta di uno stendardo che sventola tra le vie del borgo, è a mio avviso emblema della vita perché contraddittoria: immobile 20994373_333370447119080_3290713059830371715_ne hors du temps, aggraziata come un cigno e come un salice piangente, eppure fluida e moderna, attraversata da battelli turistici che solcano costantemente i canali e dai calessi che ritmano con gli zoccoli dei cavalli la vita borghigiana scandita dai rintocchi del Belfort come una giostra fiabesca da carillon natalizio. Una città sull’acqua dove soffia il vento del Nord, dall’anima camaleontica sempre eterna e in lotta contro l’oblio: spettrale e cupa, tragicamente romantica e couche accogliente, sofisticata e rustica, specchio di arte e natura, bellezza e grazia, malinconica e nostalgica, come si vede nel dipinto di Fernand Knopff del 1902 Secret-Reflet, ammirabile presso il Museo comunale di Belle Arti.

Per gli amanti dell’arte fiakhnopff_secret_reflet_basmminga, tappa obbligatoria è infatti il Museo di Groening – dal nome dei campi di Courtrai dove nel 1302 l’esercito fiammingo sconfisse quello francese ‒ anche noto come Museo comunale di Belle Arti, il cui scopo è offrire una suggestiva panoramica di sei secoli d’arte dei Paesi Bassi meridionali. Il Museo accoglie alcuni capolavori di Jan van Eyck, iniziatore della scuola fiamminga, di Hans Memling, di Gerard David, di Hugo van der Goes, vi sono poi sezioni dedicate ai dipinti dei Maestri del Rinascimento e del Barocco e in chiusura una serie di opere dell’espressionismo fiammingo e di arte moderna del dopoguerra.

Impossibile poi non visitare la Chiesa di Nostra Signora o Chiesa di Michelangelo, che con la massiccia torre in mattoni alta 122 m domina lo skyline della città, ma ciò che rende celebre la Chiesa, in stile gotico brabantino, è la Madonna di Bruges, capolavoro di Michelangelo: piccola scultura in marmo di Carrara nella navata laterale destra, unica opera michelangiolesca dei Paesi Bassi, unica ad aver lasciato l’Italia mentre l’artista era in vita, acquistata nel 1506 dai Mouscron, ricchi mercanti di tessuti, per adornate la tomba di famiglia  nella chiesa di Nostra Signora.

20952948_333385320450926_7354781716293522589_nPer un singolare tuffo nel passato, interessante, infine, il Volkskundemuseum, cioè il Museo del Folklore: piccolo e grazioso, un po’ fuori dalle classiche rotte turistiche, vicino alla zona dei mulini, all’interno di un gruppo di piccoli edifici storici, il curioso Museo presenta in una ventina di sale la ricostruzione di vari ambienti tipici di un’abitazione o di mestieri del passato.

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E quindi è il momento di «far questo viaggio/ per cacciare un poco l’uggia/ fino a Bruggia/ fino a Bruggia/ fino al vecchio Beghinaggio!».

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Rossella Farnese

 

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L’arte non è solo Leonardo

Cosa non è ancora stato detto su Leonardo Da Vinci? O su Michelangelo Buonarroti? Artisti di tale fama rappresentano, almeno per noi italiani, non solo dei punti di riferimento imprescindibili nella storia dell’arte, ma anche dei veri e propri simboli dell’arte medesima, dei paladini della bellezza i cui nomi, tuttavia, sono eccessivamente sfruttati e abusati; sembra quasi che la storia dell’arte ruoti esclusivamente attorno a quei soliti cinque o sei nomi che tu leggi dalle pubblicazioni cartacee di ambito artistico o senti dai programmi televisivi di taglio culturale. In questa prospettiva si conoscono, dimenticando però altre figure chiave che talvolta hanno avuto ancor più peso nella storia rispetto ai “soliti noti”.

E così di libri sul geniale Leonardo, o sull’irruento Caravaggio, o sull’orgoglioso Michelangelo, per non parlare di quel donnaiolo di Picasso o di quell’altro pazzo di Van Gogh, ne escono a ritmi feroci, quasi come se chiunque voglia scrivere di arte si dirigesse a passo sicuro verso quelle mitologiche figure del nostro aureo passato per trovare chi solo possa garantirgli un qualche ritorno economico da una pubblicazione di argomento storico-artistico. Ma se a scrivere di Bernardino Luini non si guadagna nulla, non necessariamente bisogna perdere il proprio tempo a parlare del già abusato e sciupato Leonardo (con il quale comunque non si diventa ricchi, beninteso). Ma ovviamente moltissimi degli autori che pubblicano materiale su Leonardo probabilmente nemmeno sanno chi sia Luini e se lo conoscono, il più delle volte, è perché viene annoverato tra i “discepoli” del grande artista e “scienziato” toscano.

Con questo non si vuole, in questa sede, spronare il lettore ad approfondire artisti poco noti della nostra storia, bensì si intende rimproverare l’aspirante storico dell’arte che, per superficialità o mancanza di idee (e di coraggio), decidesse di pubblicare l’ennesimo capolavoro critico su Leonardo da Vinci o un inedito studio psicologico sul genio di Caravaggio. Mi scuso con il lettore se sto ripetendo all’infinito i nomi di Leonardo e Caravaggio, ma il mio intento è proprio quello di dimostrarvi quanto martellante e fastidioso possa risultare il dover vedere sempre i soliti titoli, sempre le solite immagini, sempre i soliti argomenti, sempre le solite riflessioni.

La storia dell’arte, fortunatamente, è molto più di così: essa è un viaggio infinito, una sorta di miniera inesauribile, composta da migliaia di figure di rilievo, artisti, architetti, artigiani, committenti, collezionisti, galleristi, accademici, letterati e filosofi, tutti tasselli di un enorme mosaico che restituisce un’immagine unica e inalterabile. È palese che, tra tutti i tasselli di questo immaginario mosaico, ve ne sono alcuni più importanti di altri ed è chiaro che Leonardo non è certo una tessera dello sfondo. Tuttavia sono moltissimi i personaggi di primissimo rilievo, e molti di questi, purtroppo, sono già finiti nel dimenticatoio.

Colpa, forse, anche di chi non sa promuovere adeguatamente molti capolavori che andrebbero rivalutati. Perché, per esempio, Alberto Angela continua a fare puntate su monumenti e artisti arcinoti? Con la conoscenza di cui è in possesso, potrebbe dedicarsi a fare degli speciali su opere ugualmente grandiose, ma meno celebri, e sono sicuro che la Rai non glielo negherebbe, perché gli spettatori al suo seguito sono sempre in gran numero. Così, invece, si continuerà all’infinito a lodare Michelangelo e a dimenticare che nella Sistina ci sono pure affreschi di “modesti” pittori di provincia, come Perugino, Botticelli, Ghirlandaio e Pinturicchio. Poi, chissà quali misteri e quanti tesori si nascondono nella Biblioteca Vaticana! Quasi come se non ci fossero altri archivi di massimo rispetto in Italia. Quanti sanno, per esempio, che il Codice Atlantico di Leonardo (giusto per insistere ancora un po’) si trova nella Biblioteca Ambrosiana di Milano? Eh sì, perché Milano, per fortuna, non ha solo il Duomo, lo stadio di San Siro e i negozi di via Montenapoleone.

So di essere stato un po’ acido, e non voglio che mi si fraintenda: non tutti sono storici dell’arte, non tutti sono interessati a diventarlo, ed è giusto così, altrimenti saremmo tutti uguali. Ma quel che è intollerabile è la banalità, perché denota pigrizia e la pigrizia intellettuale conduce inesorabilmente al sonno della mente. Quindi, per prima cosa, se ci si definisce appassionati di arte bisognerebbe non cadere nel facile tranello di individuare nella Gioconda o nella solita ragazza ritratta da Vermeer i punti più elevati della storia dell’arte, perché, per esempio, l’affresco di Correggio sulla cupola del Duomo di Parma lo è ben di più (e non solo in fatto di metri).

Curiosità, questa è la parola chiave: chi ama l’arte va a visitare i musei, entra nelle chiese, cammina tra i saloni dei palazzi storici, e così scopre si arricchisce, e si rende conto di quanto le arti figurative siano state e siano tuttora fondamentali nella storia del nostro Paese. Poi, chi volesse spingersi oltre e scrivere qualcosa per poterlo far leggere ad un pubblico perderebbe solo il proprio tempo se finisse per scrivere di Giotto o di Michelangelo: altri mille l’hanno fatto, e molti di loro l’hanno sicuramente fatto meglio. Trattare o quanto meno promuovere artisti e opere meno popolari, invece, è comunque più appagante, perché la gratitudine proveniente da chi legge un testo originale o non banale dà una soddisfazione di gran lunga maggiore. Purtroppo, però, è più comodo percorrere la strada con le gallerie per risparmiare mezz’ora, rinunciando d’altro canto a vedere il mondo alla luce del sole.

 

Luca Sperandio

 

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Il successo del genio

<p>Little Herr Albert</p>

Ciascun artista possiede un proprio spazio all’interno della storia, e così come nei film esistono protagonisti, attori secondari e semplici comparse, nella storia dell’arte esistono autori di maggior rilievo, cui oggi molto spesso viene associato il termine di “genio”, e artisti di via via minore spessore, fino alle centinaia di figure senza volto che lavorano dietro le quinte, nelle botteghe, all’ombra dei grandi maestri. Tuttavia, differentemente da un film, nella storia dell’arte i ruoli non sono mai costanti, e chi viene considerato un protagonista dagli occhi e dalle menti di un dato secolo viene poi, in numerosi casi, ridotto a figura secondaria dagli spettatori del secolo successivo, e così viceversa. Sono i cambiamenti storici, le rivoluzioni, la politica, la filosofia, la letteratura e molti altri fattori a determinare questi spostamenti degli artisti nella “scala gerarchica” che ne determina il peso storico e artistico.

Viene di conseguenza naturale domandarsi con quale occhio noi oggi guardiamo le opere di un pittore o uno scultore (o quant’altro), con quale metro le valutiamo e secondo quali criteri consideriamo un artista “geniale” o meno. Il concetto di “genio” emerge in età romantica e viene utilizzato ancor oggi per individuare, in ambito artistico, delle personalità in grado di trasferire la propria dirompente soggettività nell’opera, che diventa una estensione materiale della loro interiorità e pertanto, dal punto di vista dello spettatore, un “ricordo” di un’azione fortemente individuale. Basterà osservare attentamente il gusto attuale in materia artistica per rendersi conto che gli artisti più famosi e maggiormente tenuti in considerazione sono proprio coloro che più si avvicinano all’accezione romantica di “genio”, evidenziando così come la sensibilità odierna non sia di fatto molto distante da quella di circa due secoli fa.

Ovviamente l’ingresso irruento dei media nella vita quotidiana nei tempi più recenti non può banalizzare la questione a una così semplice affermazione, ma la posizione di grande instabilità e spaesamento del soggetto d’oggi si può a grandi linee accostare a quella che, tra Settecento e Ottocento, ha prodotto la concezione di arte come prodotto dell’azione di una ben definita individualità e non più, come accadeva nei secoli di Ancien Régime, come prodotto di un’intera società e della sua mentalità. Ciò non significa ovviamente che le figure geniali siano relegate alla sola contemporaneità: le caratteristiche del genio, ovvero soggettività e individualismo (molto spesso accompagnati da atteggiamenti anticonformisti e talvolta drasticamente critici), si ritrovano in numerosi artisti di qualsiasi epoca, anche ben prima del Romanticismo, e figurano sempre in coloro che oggi consideriamo unanimemente i maggiori artisti della storia. Michelangelo e Jackson Pollock, due artisti dalle caratteristiche stilistiche diametralmente opposte, condividono  alcuni tratti fondamentali del “genio”: forte personalità e grande capacità di trasferire nell’opera d’arte la propria visione del mondo, nonché una certa dose di spirito critico rispetto agli eventi epocali che segnano il loro percorso storico e artistico, dall’età del Concilio di Trento al secondo dopoguerra.

Partendo da questi presupposti, non è difficile comprendere perché alcuni artisti siano più conosciuti e più mitizzati rispetto ad altri a loro equivalenti per originalità e capacità tecnica. Perché Picasso è da tutti ritenuto il più geniale pittore contemporaneo e Kandinskij, altrettanto importante per la storia dell’arte, è molto meno conosciuto dalle masse? Evidentemente Picasso ha dato qualcosa di più: nonostante l’originalità e il forte tratto personale delle opere dell’artista russo, il suo collega spagnolo ha saputo raccontare il suo pensiero, il suo modo di vedere il mondo, le sue stesse debolezze attraverso le opere, portandole a un livello comunicativo che in Guernica raggiunge un’immediatezza e un impatto fortissimi. Il genio deve dunque comunicare la sua soggettività, deve saperla raccontare a tutti mediante le sue opere per essere capito e apprezzato, e Picasso, così come molti altri “geni”, ha sempre qualcosa di personale da raccontare nei suoi dipinti.

Forse l’esempio più emblematico di ciò è il successo globale e dirompente delle opere di Caravaggio, artista geniale per definizione, irruento tanto nella vita quanto nelle scelte artistiche. Egli rappresenta il genio per eccellenza, l’artista che da solo ha sfidato la società e pure se stesso, che ha saputo raccontare la sua storia in modo personalissimo, rappresentando la realtà attraverso le proprie esperienze e le proprie paure. Il suo successo tuttavia non poteva che giungere nei tempi più recenti: quasi sconosciuto per tre secoli, venne “riscoperto” solo a inizio Novecento, quando lo spettatore, sin dal secolo precedente affascinato da personalità titaniche, menti sublimi e storie romanzesche, ha deciso di “resuscitarlo”, dando la dignità di eroe all’antieroe e dimenticando inesorabilmente una delle più grandi muse della pittura per i secoli precedenti, il “divin Guido”, Guido Reni, artista contemporaneo del Caravaggio, accademico, “freddo” diremmo oggi, il quale, senza storie affascinanti da raccontare, non poteva che cadere sotto il trionfo del genio romantico, lume della sensibilità odierna.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

MICHELANGELO MERISI DETTO CARAVAGGIO (Milano o Caravaggio, 29 settembre 1571 – Porto Ercole o Palo, 18 luglio 1610)

Quando non c’è energia non c’è colore, non c’è forma, non c’è vita.

Caravaggio fu uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi, dalla fama universale. I suoi dipinti, che combinano un’analisi dello stato umano, sia fisico che emotivo, con un drammatico uso della luce, hanno avuto una forte influenza formativa sulla pittura barocca. Il suo stile influenzò direttamente o indirettamente la pittura dei secoli successivi costituendo un filone di seguaci racchiusi nella corrente del Caravaggismo.

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