Karl Marx scienziato cognitivo

<p>Portrait of Karl Marx, date unknown. (AP Photo/Kurt Strumpf)</p>

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Karl Marx esprime uno dei concetti più determinanti e rivoluzionari della sua intera opera filosofica. Il riferimento è alla distinzione tra struttura e sovrastruttura come sistemi regolatori della società: la struttura è «il vero fondamento su cui sorge una sovrastruttura […] non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Per Marx ogni ipotesi di modifica dei dati sovrastrutturali sarebbe illusoria ed improduttiva in assenza di un profondo rivolgimento della struttura. Le rivoluzioni si compiono modificando la struttura e non la sovrastruttura. Nella filosofia marxiana la struttura è insita nei rapporti economici di una realtà sociale e la sovrastruttura dall’apparato ideologico utile al consolidamento della struttura di riferimento. «La cornice giuridica […] codificata e formalmente egualitaria» è stata l’espressione sovrastrutturale con cui è stato eretta l’ideologia dello Stato fondato sui rapporti economici egemonici della borghesia (Michel Foucault).

La vera e grande provocazione è rivedere Marx in chiave di filosofo della mente ed alla luce delle scienze cognitive. Marx filosofo cognitivo è realmente rivoluzionario. Per le scienze cognitive “noi siamo il nostro cervello” e dunque, ciascun essere umano, al di là di illusorie utopie sovrastrutturali fondate sul libero arbitrio assoluto ed incondizionato, non è altro che un intricato gomitolo di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori ed epigenetica; quando l’individuo deve scegliere, il cervello “pesca” le mosse da intraprendere da quanto ha stampato in questo apparato biologico che costituisce la propria personalissima libreria, senza possibilità alcuna di uscire dal proprio gomitolo biologico. In questo modo relegando l’idea di libero arbitrio “uguale per tutti” al libro dei sogni e delle ideologie più fantasiose. Il libero arbitrio non è impedito da psicologismi ed impalpabili devianze della personalità ma è dettato dai timbri cerebrali che hanno impresso nei componenti del cervello il loro disegno. La psicologia e la legge sono le grandi mistificanti ideologie volte a sorreggere l’utopia del libero arbitrio assoluto; sono l’espressione massima della dottrina sul feticismo delle merci, questa volta al servizio dell’ideologia del libero arbitrio.

Legge e psicologia sono i servi sciocchi di questa ideologia sovrastrutturale dominante, dall’Illuminismo sino ai giorni nostri. Una rilettura della dottrina marxiana di struttura e sovrastruttura, ideologia e merce  in chiave neuroscientifica rende il grande filosofo un vero rivoluzionario. La struttura e la sovrastruttura marxiana rappresentano un modello cognitivo dell’io agente. Esattamente come accade nella società, anche nel cervello si può individuare una struttura più profonda, ancestrale, che caratterizza ed influenza tutto l’io cerebrale (la struttura) ed una sovrastruttura “neurale-ideologica” rappresentata dall’impianto cerebrale e comportamentale meno profondo ancorché, all’apparenza, più visibile e vistoso (si pensi, banalmente, ai ruoli sovrastrutturali di medico, giudice, avvocato, pubblicitario, musicista, marito, moglie, amante, ecc. Tutte condizioni portatrici di propri statuti cognitivi sovrastrutturali). Per Marx la sovrastruttura è l’ideologia mistificante volta solo a consolidare la struttura economica; per la filosofia della mente è, a sua volta, un’ideologia mistificante, costituita dal sistema appreso nel corso degli anni che svanisce e si dissolve dinnanzi alla necessità di salvaguardare la struttura. Come già sostenuto sul coté letterario da Giovanni Verga (Fantasticheria e I Malavoglia), ciascuno rimane legato a poche ma decisive tradizioni ataviche che fanno sentire l’ostrica (di qui il suo concetto letterario-filosofico-cognitivo) al sicuro dai pesci feroci del mare. Motivo per cui l’ostrica può anche ipotizzare e convincersi di voler tentare determinate strade che la sua sovrastruttura cognitiva ha conosciuto e appreso, ma la struttura atavica del mondo cognitivo dell’ostrica (secondo la metafora verghiana) relegherà tali conoscenze a sovrastruttura, a pura ideologia incapace di modificare realmente la struttura (neurale) e dettare le scelte dell’io. Con buona pace per il libero arbitrio kantiano che ci vorrebbe pronti e razionali, al momento dell’agire, per essere, addirittura, con le proprie scelte, giudici universali di se stessi e dell’umanità intera (Critica della ragion pratica). Marx in chiave cognitiva è ancor più stupefacente che in chiave politico-economica.

Cosa resta allora della grande dottrina del libero arbitrio, della possibilità per l’uomo di indirizzarsi razionalmente e di decidere in nome delle regole, della legge e dei costumi morali e sociali in essere? Insomma: cosa resta dell’Età dei Lumi su cui è stato costruito il nostro mondo contemporaneo, le nostre leggi, i nostri sistemi di responsabilità giuridica, morale e sociale? Una merce da vendere nel mercato ideologico delle mistificazioni. Solamente la convinzione che l’essere umano ricade sempre nel peccato originale, nel volersi erigere a Dio terreno, ad essere superiore e razionale, esattamente come il Dio in cui vuole credere. Rimane la vanità delle vanità: il libero arbitrio assoluto ed incondizionato.

Luca D’Auria

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La voce scientifica del potere. Un (micro-) caso storico

Il potere, così come lo descrive Michel Foucault1, è qualcosa che si vive perché esistente in atto. Non appartiene a nessuno, ma circola ininterrottamente attraverso infiniti rapporti che si intersecano e si diramano quotidianamente col compito di costruire il mondo. Chiunque di noi lo subisce (azione coercitiva) e lo esercita (azione produttiva) di continuo nel tentativo di ottenere una migliore ridefinizione di sé stesso nella propria realtà. Inoltre, il potere, essendo pervasivo, si esprime anche in ciò che l’individuo produce per esercitarlo: il discorso2, fenotipo del pensiero umano e simbolo di inclusione o esclusione a seconda di chi lo formula, di come lo si articola e di quando lo si proferisce. Si tratta di un passaggio importante per Foucault perché vi individua, nell’ «insieme dei discorsi che domina un’era»3, l’episteme, una macro-narrazione ufficiale che legittima la posizione di potere assunta da qualcuno a discapito di qualcun altro.

Di questa logica del potere si servì il discorso razzista italiano durante gli anni Trenta. Al fascismo occorreva, infatti, qualcuno che potesse elaborare una teoria scientifica capace di appoggiare la guerra di aggressione che il regime si apprestava a condurre contro l’impero etiope. In breve serviva un antropologo come Lidio Cipriani, voce centrale del razzismo antinero sulle pagine della Difesa della Razza, per definire l’etiope un “negro” alla pari delle altre popolazioni sub-equatoriali. Infatti nel suo volume Un assurdo etnico, l’antropologo razzista demolisce l’ipotesi camitica fin allora vigente, secondo la quale gli etiopi sarebbero stati i progenitori di culture “raffinate” come quella egiziana o quella greca e per questo motivo non potevano appartenere alla razza “negra”. Cipriani, in questa maniera, pose al servizio del regime il profilo tipo di una persona dominata solo dagli impulsi della natura, incorreggibile nella sua pigrizia e in grado solo di imitare le azioni dei “bianchi”. Una rapida descrizione di un soggetto da accompagnare paternalisticamente verso la “civiltà” umana (e occidentale), verso quel raziocinio che di lì a poco avrebbe creato la peggior macchina di sterminio di tutti i tempi.

Ritornando alla connivenza fra la politica e la ricerca. Dopo aver confutato le più accreditate tesi antropologiche, altrettanto razziste, per giustificare la fondazione dell’impero, Cipriani, in parallelo alla stabilizzazione dell’insediamento italiano in Africa, introdusse per la prima volta (dalle pagine della Difesa della Razza) l’ipotesi che l’etiope conservasse ancora un tratto mitico della sua originaria superiorità biologica-culturale: uno “spirito bellico” estremamente pronunciato. Una scoperta puntuale che aprì il dibattito intorno all’utilizzo della popolazione maschile etiope come soldati per future conquiste imperiali, fortunatamente mai avvenute.

Lidio Cipriani, per concludere, rappresentò il megafono scientifico del fascismo insieme a molti altri intelletuali. Una tipologia di discorso dalle fondamenta ben salde per quei (presunti) caratteri di rigore, verificabilità e riproducibilità propri del metodo scientifico.

Ogni epoca e ogni parte della Terra ha la propria episteme. Se da un lato appare più semplice scovare le macro-narrazioni passate, dall’altro occorre essere onesti e riflettere su quelle odierne. Idee?

Marco Donadon

NOTE:
1. Si veda M. Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, Einaudi, Torino 1977.
2. Per discorso si intende tutte quelle espressioni dell’uomo volte a esercitare, cambiare, appoggiare il potere. O a viverlo per usare un termine caro a Foucault.
3. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013, p. 151.

BIBLIOGRAFIA:
1. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013.
2. Cassata, La Difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008.

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L’importanza dell’elemento culturale per la comunicazione medica

Lo scopo della medicina è quello di prevenire ed eliminare il dolore (malattia) che assale ogni soggetto umano. Per tal ragione siamo soliti definire la medicina come la scienza che assume quale proprio fine il debellare le malattie, costruendo così un rapporto che si basa sulla relazione: medicina (soggetto) – cura (mezzo) – guarigione della malattia (fine)¹. Tale descrizione, seppur molto persuasiva, non riesce a restituire in maniera completa la complessità dell’agire medico, poiché come scrive il noto storico della medicina Giorgio Cosmancini: «si sente spesso affermare, da molti fra gli addetti ai lavori –ricercatori, clinici, docenti universitari–, che la medicina è una scienza […]. Così non è. La medicina non è una scienza, è una pratica basata su scienze e che opera in un mondo di valori. È, in altri termini, una tecnica – nel senso ippocratico di téchne – dotata di un suo proprio sapere, conoscitivo e valutativo, e che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo. La téchne iatriké, l’originaria ars curandi, la perenne arte della cura, è una tecnica, un’arte, un mestiere – il mestiere del medico – che ha una sua propria tradizione, una sua propria vocazione, una sua propria cultura. In seno a tale cultura, la tecnica è il mezzo, ma l’anthropos, l’uomo, è il fine ultimo, o primo»².

In altri termini, seguendo la definizione di Cosmancini, la medicina è una disciplina che, abbinando e accorpando molti saperi specialistici, assume come proprio fine l’uomo e tenta di costruire una serie di situazioni tecnico-terapeutiche che possano riportare i soggetti a superare il dolore provocato dalla crisi patologica al fine di ristabilire il loro equilibrio vitale. Avendo come fine l’uomo e dovendo intervenire costantemente su di esso, è di estrema facilità cogliere come sia assolutamente indispensabile lavorare anche sul contesto e sulle forme culturali che donano senso allo stesso modo di esperire e di dare identità all’intendersi quali uomini. Non a caso Giovanni Berlinguer, scrive: «le malattie umane non sono un fenomeno puramente biologico. Esse variano non solo tra individuo e individuo, ma secondo le epoche, le zone del mondo, le classi sociali. Esse sono probabilmente uno degli specchi più fedeli e più difficilmente ineliminabili del modo con cui l’uomo entra in rapporto con la natura, attraverso il lavoro, la tecnica e la cultura, cioè attraverso rapporti sociali determinati e acquisizioni scientifiche storicamente progredienti»³.

Tale modalità di attribuire significato alle malattie viene magistralmente riassunta dal grandissimo filosofo Michel Foucault il quale, all’interno di un articolo scritto nel 1966 dal titolo “Message ou Bruit?”⁴, sostiene che gli organi umani non producano dei messaggi oggettivi e naturali che la medicina ascolta, ma gli stessi producono dei rumori che la medicina interpreta in relazione a dei criteri culturali che le donano senso ed esistenza. Questo pensiero, che potrebbe sembrare di estrema difficoltà interpretativa, si spiega in maniera molto agevole facendo riferimento a tutte le novità scientifiche che continuamente rivoluzionano gli schemi culturali di tutti noi e della medicina stessa. Pensiamo, ad esempio, agli smartphone ai tablet ecc., che oggi costituiscono una delle fonti principali attraverso le quali ci informiamo e doniamo senso alle nostre espressioni quotidiane. Questi apparecchi oggi vengono comunemente utilizzati sia dai pazienti che dai medici in diverse modalità e con scopi differenti per monitorare o ricevere informazioni sulla salute. Generalmente controlliamo costantemente, attraverso alcune app e alcuni device collegabili allo smartphone, il battito cardiaco o il numero di passi giornaliero, ma tale situazione non è sempre esistita né si presta ad essere oggettivata una volta per tutte; anzi, deve essere costantemente interpretata da medici, i quali devono restituire a tale dato un valore che si parametra in relazione ad una serie di componenti che sono proprie del singolo soggetto e della cultura nella quale lo stesso cresce e dona forma alla propria vita. Questo banalissimo esempio mostra come il lavoro del medico, avendo come proprio fulcro il bene per l’uomo, non può sottrarsi ad una analisi costante della realtà contemporanea che porta con sé una serie di strumenti, di innovazioni o più generalmente di codici culturali che sono imprescindibili all’interno delle modalità di creazione del senso dell’esperienza umana che necessita l’ausilio della pratica medica. Ne segue che le parole del filosofo francese Georges Canguilhem assumano sempre più significato: «quale che sia l’interesse di uno studio delle malattie che tenga conto della loro varietà, della loro storia, del loro esito, tutto ciò non deve eclissare ad ogni modo l’interesse per quei tentativi di comprensione del ruolo e del senso della malattia nell’esperienza umana»⁵.

Risulta dunque chiaro che le diverse forme di comunicazione della salute, sia nella sua forma pubblicitaria che nella relazione diretta tra medico e paziente, devono in ogni caso tenere bene presente l’elemento culturale che dona senso alle singole vite dei soggetti, e che si devono plasmare ad esso, senza avere la presunzione di trovare dei sistemi linguistici universali che possano far passare gli stessi concetti a tutti in maniera univoca. Questo si avvera perché la salute è un problema oggettivo che deve essere trattato e comunicato in maniera soggettiva e che racchiude dentro di sé la pienezza dei riferimenti culturali che contribuiscono ad attribuire un significato all’esistenza di tutti noi.

Francesco Codato

NOTE:
1. Cfr. F. Codato, Il diritto di essere tristi. Per una filosofia della depressione, Alboversorio, Milano 2015, pp. 13-18;
2. G. Cosmancini, Il mestiere del medico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. XI;
3. G. Berlinguer, Storia e politica della salute, Franco Angeli, Milano 1991, p. 33;
4. Articolo contenuto in: M. Foucault, Dits et écrits V. 1, Gallimard, Paris 2001;
5. G. Canguilhem, Le malattie, in Scritti sulla medicina 1955-1989, Einaudi, Torino 2007, p. 20.