Samurai dello spazio: Jurij Gagarin davanti alla morte

<p>Immagine tratta da Google Immagini</p>

La storia di Jurij Gagarin mi ha sempre commosso nel profondo: iniziare da una realtà agreste, povera e semplice, e col proprio innato entusiasmo giungere ad essere il primo umano della storia ad orbitare attorno al nostro pianeta. E tutto solamente a ventisette anni. Non riesco a immaginare l’euforia folle di sentirsi imminenti cosmonauti, l’ansia estrema e l’inquietudine eterna di vivere solo per quel momento in cui galleggerai sopra la casa della vita; buttarsi a letto elettrizzati, nella notte, contemplando il soffitto, sentendosi destinati alla più toccante esaltazione umana e in cammino lungo la strada che porta oltre ogni orizzonte. Sarebbe come sapere che si sta per nascere, e poterne assaporare ogni istante.

Ma il futuro è sempre incerto, i calcoli prettamente umani, questo paradiso si trova solo a un passo dal fallimento, e quella gloria indicibile diviene all’improvviso la più esigente delle ambizioni. Essa richiede il servigio estremo del conquistatore, e la dea non si mostra se non si è disposti a morire per lei. Il cosmonauta è costretto ad accettare. Si allena e si esercita per far eccellere le proprie prestazioni, studia come un disperato per prevenire qualsiasi situazione, passano i giorni e si avvicina la data del lancio, e il cosmonauta si è in realtà preparato all’eventualità della morte. Col tempo ha scoperto in essa la più magnifica delle mete, e quando passeggia sulla passerella fende l’aria coi pugni stretti come per scaricare l’adrenalina; è entusiasta e onorato di poter verificare la sua fede assurda di potercela fare, e semplicemente non vede l’ora di arrivare là dove nessuno ha mai messo piede.
Ma Gagarin si consumò velocemente e la sua vita s’interruppe con bruschezza solo qualche anno più tardi. Cos’era successo all’intrepido umano dalle ambizioni smisurate? Incidente, fatalità, ma sappiamo che muor giovane colui ch’è caro al cielo, come diceva Menandro, ed è lecito credere che a Gagarin sia toccata la stessa tragica sorte. Gli dei invidiosi, gli dei gelosi, le forze cosmiche troppo potenti e assolute per poter avere anche solo un nome; è a causa degli enti eterni che l’umanità teme la propria limitata corporeità e si prostra fedelissima, perché se non ci ammazzano per sadismo come dittatori paranoici, ci condannano a un servilismo inconcepibile che mortifica la nostra libertà. Nessuno vuole essere l’eletto di Dio, forse neanche Abramo lo voleva davvero. Ma come Gagarin altri innumerevoli grandi spiriti si sono affrettati a compiere il loro destino, hanno percorso la loro strada correndo a perdifiato verso la meta luminosa, ribellandosi agli dei imperativi, e da lì si sono voltati a contemplare il resto del mondo che da lontano arrancava, stremato, mutilato, cencioso come un cane randagio, stupito nel vedere delle anime sfuggire alla sua famelica avidità. “Uccidimi pure, Dio”, dicevano beffardi oltre il traguardo, “Uccidimi pure, che tanto ti ho già dimostrato che sono più grande di te”.

E a noi semplici umani, che destino ci spetta? Uno sciame di sogni ci vortica attorno alla testa e spesso ci abbandoniamo al suo ronzio per voluttuosità e pigrizia. Qualche volta capita che afferriamo uno di questi ideali, di questi angeli, lo prendiamo in ostaggio e lo costringiamo a dirci tutto quel che sa sul conto di Dio; poi lo lasciamo tornare a volteggiare coi suoi compagni e ci riteniamo scioccamente soddisfatti delle informazioni ricavate. Ma è un’ingenuità!, un’illusione!, perché dovremmo invece catturarne subito un altro per verificare la congruenza delle due testimonianze. Quando abbiamo realizzato un movimento dobbiamo poi compierne un altro, come i passi delle gambe, e da lì proseguire in una lunga sequela di movimenti che ci tenga mobili e vivi; fermarsi vuol dire fissarsi su un punto morto, ancorarsi ad esso, e poi accasciarsi a terra quando cedono le ossa stanche e sbrindellate dal tempo. Uno dei nostri errori più comuni è quello di credere che la tappa sia la meta, e piuttosto di guardare oltre il colle per vedere se la strada si snoda per altre distanze, ci inventiamo il mito delle colonne d’Eracle o dei guardiani infernali per non proseguire. Ma la vita come tale non deve incontrare finalità, non deve essere risolta in un’unica azione, ma deve invece ricominciare sempre da capo, eterna, ossessiva, inconcludente, per non esaurirsi prima del tempo. Le anime ferme sono come messaggi mai letti imbottigliati in cadaveri ambulanti, e quelle che corrono sono fiere di andarsene da un mondo che dà loro molto poco. Noi a metà strada dovremmo solamente incamminarci canticchiando, e spingerci fin dove possiamo arrivare in attesa della nostra occasione.

Chi ha buon senso si accontenta dei pochi metri che fa in un paio di passi, e da ciò cerca di ricavarne la miglior soddisfazione. Viaggia, parla, interagisce, ma sempre consapevole dei suoi limiti e in pace con essi. Ma se si parla di spiriti folli, tragici, caotici, troviamo ribelli che dedicano la propria vita alla lotta costante contro se stessi, all’annientamento radicale dell’Io e della propria volontà. Parliamo di spiriti che di fronte all’aut-aut tra la vita e la morte scelgono la seconda per glorificare la magniloquenza della prima, così come farebbe un autentico samurai. Il guerriero giapponese difatti s’impratichisce per affrontare la morte e in nome di essa s’immola per trovare un senso onorevole alla sua esistenza; sa che lì, nella tomba, c’è il compimento estremo di quel che un’anima fu. La fine di ogni fine, la parola ultima, l’atto creativo terminale; in questo essi erano onorati, e in questo consisteva la summa del Bushido. Gagarin lo seguiva, il Bushido, Gagarin padroneggiava la Via seppur inconsciamente. Gagarin era un autentico samurai dello spazio.

Leonardo Albano

Terra, terra madre

Una delle domande a cui l’essere umano cerca di rispondere, nel corso della sua vita, riguarda la destinazione, la meta del suo cammino: qual’è il luogo dove riposa il senso dell’esistenza mortale?
E ciò non comporta, ipso facto, una fede in un luogo che sia al-di-là della morte: si può legittimamente dire che non v’è un posto sicuro in cui le esperienze dei mortali vengono ricomprese, in cui tutte, soprattutto le sofferenze e i patimenti, riscoprono un nuovo significato.1

Certo è che, anche per approdare ad una certezza simile, occorre porsi la domanda.
Alla quale domanda la filosofia sa dare una risposta, quando parla il linguaggio dell’autenticità e non ha timore di indagare l’uomo nella sua profondità.2

Dove, dunque, stiamo andando?

Dove mi conduce la mia esistenza mortale, considerata a prescindere dalla mirabile varietà di peculiarità che la segna come mia (come di ciascuno) irripetibilmente; ovverosia considerata nella sua universalità?

<< Indifferente è per me

il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti,

nuovamente dovrò fare ritorno.>>3

Poiché la nostra esperienza appare segnata dal tempo e dall’indecifrabilità del futuro, per intendere verso dove ci siamo messi in cammino, è necessario volgere lo sguardo al luogo da cui siamo partiti; alla dimensione uterina dalla quale la nostra nascita ha assunto le sue condizioni, nella quale la struttura umana che noi siamo ha iniziato la sua edificazione. Di questa dimensione originaria, possiamo trovare un significante fisico che ce ne suggerisca i tratti, affidando a ciascuno il compito di ricostruire la propria genesi autentica e la propria naturale destinazione: la Terra.

<<Voglio4 cantare la Terra dalle salde basi, madre di tutti,

veneratissima, che sul suo suolo nutre quanti esseri esistono:

e quanti si muovono sul suolo divino e nel mare

e quanti volano, tutti si nutrono della tua ricchezza>>

Per te gli uomini fioriscono di bei figli e pingui raccolti,

o veneranda, e tu puoi dare la vita e toglierla

ai mortali: e beato è colui che nel cuore

tu onori benigna, ed egli possiede beni infiniti.>>

La Terra è significante allegorico di qualcosa che in questa immagine propriamente non è esaurientemente espresso: essa è prima nutrice di ogni essente che in essa vive, l’abbraccio primigenio che mai abbandona; indica la dimensione ontologica alla quale ogni ente è connesso intimamente, essenzialmente.
Ad essa si riferisce la nostra esistenza come alla profondità cui sono legate le nostre radici, che assicura la stabilità delle fondamenta; sulle quali è possibile edificare la complessità della vita umana nelle sue più inattese variabili. Senza solide fondamenta, quale sviluppo possibile?

Volgere nuovamente l’attenzione alle nostra radici, al nostro legame con la Terra, può offrire l’occasione per affrontare diversamente le esperienze umane, soprattutto le meno rassicuranti, le più dolorose: è significante di una riscoperta della essenza umana.
Rivolgere l’attenzione al punto da cui siamo partiti (per richiamare i versi di Parmenide) può darci accesso alla dimensione che ci offre il nutrimento necessario per giungere al compimento del nostro cammino; per resistere ai turbamenti che possono interessarci: stante il legame necessario e insopprimibile tra l’uomo e la sua Terra, anche gli accadimenti più traumatici finiscono per risultare impotenti dinnanzi all’umana essenza.

Tutto questo, non da ultimo, ci chiama a riflettere anche sul rapporto che ci lega fisicamente alla Terra (intesa qui come habitat, luogo abitato5), ci ricorda che tutto ciò che interviene sul suo corpo interviene, in virtù del suddetto legame, sul nostro proprio corpo.
Il richiamo è ineludibile e, al contempo, per certi versi inquietante: cosa accade a noi, mentre favoriamo il deperimento della Terra, l’inaridimento della nostra nutrice?
Cosa stiamo davvero facendo, noi che agiamo così violentemente sull’habitat che informa la nostra vita?

È quantomeno legittimo il sospetto che i danni arrecati alla vita della Terra, siano più profondamente danni alla nostra stessa vita.

<< Salve, madre degli dèi, consorte di Urano stellato,

benigna, in cambio del canto, dolce vita concedimi:

e io anche in altro canto ancora di te mi ricorderò.>>6

Emanuele Lepore

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

1Da mostrare sono – ed è impossibile tentare qui di farlo- sia le ragioni che affermano, sia quelle che smentiscono l’esistenza di un orizzonte trascendentale ( lo si chiami pure come si voglia) in cui l’uomo dà compimento alla propria vita.

2Beninteso: questo breve scritto non ha la pretesa di dar voce alla filosofia che sa rispondere a questa domanda; ciò che qui si propone è soltanto una sortita attorno al tema, un invito di pensiero.

3<<ξυνὸν δέ μοί ἐστιν,/ ὁππόθεν ἄρξωμαι· τόδι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις.>> Fr.5 28 B DK

4Inno omericoXXX, “ Alla Terra”. Se ne può trovare una versione in lingua originale su: http://www.poesialatina.it/_ns/greek/testi/Hymni/Hymn30.htm

5Terra intesa come luogo abitato e luogo che dà l’habitus all’essere umano.

6Si veda il già citato inno omerico (ndr)

Rileggendo il Simposio: l’Altro che non uccide, ma fortifica

Quando Aristofane, nel Simposio1, tenta di spiegare la natura di Eros, lo fa elencando i tre casi nei quali questo può declinarsi. Il mito, infatti, narra l’esistenza di tre esseri umani e non unicamente due: la natura del primo, maschile, ebbe origine dal sole, quella femminile dalla terra, mentre il terzo, che condivideva dei caratteri dell’uno e dell’altro, nacque dalla luna e prese il nome di androgino. Quando Zeus, preso dall’ira causata dall’ambizione e dalla spregiudicatezza degli uomini, decise di tagliarli a metà così da rendere ciascuno più debole, privandolo di una parte di sé, fece sì che ciascuna di esse iniziasse la ricerca di quella che l’avrebbe completata.

Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell’altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l’una all’altra, per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano di fame e anche di inattività, poiché l’una non intendeva far nulla separata dall’altra. E se una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima cercava un’altra metà e le si annodava […]2.

Nacque così Amore, secondo il mito, dall’unione e dal completamento di due metà che, originariamente, costituivano un solo essere umano. Pertanto ciascuno di noi, prosegue Aristofane, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso3.

Ci sono diversi aspetti, ricavati dal mito di Aristofane, sui quali riterrei importante soffermarci per portare a termine una riflessione circa la visione più comune dell’amore nella contemporaneità.

Il legame che si stabilisce tra due esseri umani ha origine dalla spinta del desiderio dell’altro che, a sua volta, trova il suo fondamento in una sorta di mancanza primordiale.

Pertanto, se continuiamo a seguire ciò che il mito suggerisce, dal momento che l’essere umano, sia esso uomo, donna o androgino, subì una scissione del proprio Sé in due parti che progressivamente si allontanarono l’una dall’altra fino a non ritrovarsi più, ciò su cui si fonda la vita di ognuno è esattamente la ricostituzione della natura originaria, possibile unicamente attraverso il ritrovamento delle due parti, in un completamento perfetto. Ciò che si desidera, dunque, è il congiungersi e il fondersi con l’amato, fino a diventare un tutto, un unico essere.

Ma a quale prezzo si paga la fusione all’interno della dimensione amorosa?

L’idea di due individui che si legano l’uno all’altro fino a fondersi richiama l’immagine di due metalli che, combinati assieme, diventano un unico e solo nuovo elemento le cui caratteristiche non sono il frutto della sommatoria e del completamento delle caratteristiche dei due elementi componenti considerati individualmente, ma dalla mescolanza delle loro qualità. La fusione, di per sé, indica una mancanza di chiarezza, una sorta d’indistinzione dei due materiali.

Tornando all’argomento che ci interessa più da vicino, quella della fusione amorosa è un’unione simbiotica che ci ricorda molto il legame che si crea tra la madre e il feto: questo, infatti, è sì una creatura distinta dalla figura materna, tuttavia entrambi fanno parte di un tutt’uno. L’uno vive nell’estrema dipendenza dell’altro, una dipendenza soprattutto fisica poiché la creatura ha bisogno della madre per nutrirsi: vive di lei.

Quando, durante la crescita del bambino, la dipendenza fisica si tramuta in dipendenza psicologica, quello che si crea è invece un rapporto fusionale che può sfiorare il patologico poiché uno dei due individui – è importante specificare che il fenomeno di reciproca dipendenza “fusionale” si crea a partire dalle figure parentali le quali non sono riuscite a fare in modo che il proprio figlio potesse “reggersi su” da solo -, vede se stesso solo come una metà che ha estremo bisogno dell’altro per sentirsi completo: stiamo quindi riprendendo il modello dell’androgino platonico basato sull’idea dell’unione degli opposti.

È talvolta la fusione che, entrando in gioco nelle relazioni d’amore, rischia di mettere in serio pericolo la crescita individuale della personalità di ciascuno.

Non esiste amore senza la messa a nudo della propria vulnerabilità, una vulnerabilità che fa sì che tutti abbiamo necessariamente bisogno dell’altro per sopravvivere; tuttavia, non può considerarsi nemmeno amore un rapporto basato sulla vitale dipendenza di uno dei due amanti.

Certo, l’amore ci spinge all’alterità, quell’alterità con cui condividiamo le giornate, attraversiamo la sofferenza, quell’Altro con cui proviamo la gioia. Tuttavia, se quest’alterità fosse lì unicamente per completarci, per renderci perfetti, per riempire tutti i vuoti lasciati da qualcuno nel corso della vita, vuoti che pertanto ci apparterranno sempre, essa perderebbe il carattere di vero “oggetto d’amore”.

Nel dialogo Platonico, Aristofane lo accenna: Amore è desiderio e ricerca.

Ma ricerca di che cosa? Desiderio di chi?

Ebbene, è quando Seneca prende la parola che la spiegazione del significato e dell’origine di Amore diventa chiara. Amore infatti nacque da Poros, letteralmente “Espediente”, “ricchezza”,e Penia, ovvero “Povertà”, durante il giorno della nascita di Afrodite, ed è per questa ragione che, da un lato essendo originato dalla mancanza, dunque da quell’ignoranza causata dalla privazione di risorse propria di Penia, e dall’altro lato, dall’avidità della conoscenza di Poros, Amore è naturalmente tendente a ciò di cui è privo, ovvero al sapere, che rientra tra ciò che di buono e bello esiste.

Se quindi, come conclude anche Socrate, Amore nasce da una forma di mancanza, ciascuno prova un sentimento d’amore nel momento in cui arriva a possedere l’oggetto della propria gioia, o meglio, più che l’”oggetto”, la persona che rappresenta il proprio bene e la propria felicità.

Nel momento in cui la si trova, non abbiamo più bisogno di porci delle domande circa l’esistenza o meno della “nostra dolce metà”, oppure “della nostra anima gemella”.

Quando si ama, le domande spariscono. Spariscono perché stiamo bene, perché non abbiamo bisogno di trovare un “Alter Ego” capace di completarci.

Siamo. E siamo insieme.

In generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto amore. […] E c’è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che l’amore non è amore né della parte né dell’intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro membra sono malridotte4.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1 Platone, Simposio, BUR, Milano, 2007.
Ivi, p. 143.
3 Ivi, p. 145.
Ivi, p. 187.

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