Piccole donne di Greta Gerwig. Rivisitazione cinematografica di un capolavoro

Esco dal cinema, gli occhi lucidi, perché? Jo March ha dichiarato il proprio amore a Friedrich Bhaer, Jo March interpretata da Saoirse Ronan – ovvero l’odiosa e cattiva Briony di Atonement (2008) per dimenticare l’impacciata e “frigida” Florence del ripugnante On Chesil Beach (2017) – tra le braccia di Friedrich Bhaer interpretato da Louis Garrel. E potrebbe bastare così, potrebbe bastare cioè che il proprio attore preferito in assoluto stringa a sé l’attrice che meglio di ogni altra riesce a calarsi – fino a essere identificata con esse – nelle parti più scomode e create appositamente per dare fastidio. Ma non basta: sono il décor e l’atmosfera ‒ la giornata in spiaggia con gli aquiloni, le corse sui pattini e sui prati, i riccioli d’oro e le trecce, gli abiti dell’epoca, corsetti e nastrini, i giochi in soffitta tra sorelle, la luce calda delle candele, le note del piano, la colonna sonora composta da Alexandre Desplat, il pennino e la carta, la guerra di secessione americana sullo sfondo, le case tra gli alberi, i balli – ricreati dalla protagonista di Frances Ha (2008) e regista di Lady Bird (2017), Greta Gerwig, che mi lasciano quel senso di bellezza e di grazia.  Non ricordo ahimè molto del libro, tra le mie scarse e svogliate letture da diciassettenne: di certo avevo odiato Amy, trovato relativamente simpatica Meg e provato un rapporto contraddittorio di amore e antipatia per Jo e vedendo Les filles du Docteur March – in inglese sottotitolato in francese esattamente dieci anni dopo aver letto apaticamente il capolavoro di Louisa May Alcott, Little Women (1868-1869), le mie sensazioni sono rimaste invariate.

Greta Gerwig sceglie di non rispettare la cronologia del romanzo, in due volumi, rispettivamente dedicati all’infanzia e all’età adulta delle sorelle, e di creare degli andirivieni tra i due periodi attraverso continui flashback il cui fil rouge è Jo, ideata come alter ego della Alcott. Film quindi che vuole farsi atemporale, una riflessione sull’identità femminile e sull’essere artista: da un lato Meg, interpretata da Emma Watson, signorina dolce e matura, si sposa per amore con John Broke e ha due gemelli, dall’altro lato Jo, un vero maschiaccio, determinata, ribelle e impulsiva, appassionata di letteratura, sogna di diventare una scrittrice, respinge il matrimonio con Laurie, interpretato da Timothée Chalamet – il triste e solitario vicino di casa che grazie alla loro amicizia diventerà socievole e frequenterà il college – e va a New York in cerca di se stessa, libera e indipendente, avverte però la solitudine e vorrebbe amare o forse le basterebbe essere amata, forse vorrebbe ancora Laurie ma alla fine sposerà Friedrich Bahr, insegnante tedesco a Plumfield, la casa ereditata dalla zia March, interpretata da Meryl Streep, e trasformata in una scuola sperimentale. C’è poi Beth – che rappresenta il côté più strappalacrime della storia – morta a diciannove anni di scarlattina, contratta per aver aiutato una famiglia vicina povera e malata, appassionata di pianoforte, timidissima e altruista.  Infine, il “piccolo Raffaello” ovvero Amy, appassionata di arte, goffa, spocchiosa e con il naso schiacciato, sempre la numero due: sarà lei ad andare in Europa con la zia March, che inizialmente aveva proposto il viaggio a Jo, e sarà lei che sposerà Laurie, che si era dichiarato a Jo, vivendo così nell’alta società.

Protagonista indiscussa del film Josephine che corre nella scena iniziale per far pubblicare un suo racconto e che nella scena finale tiene in mano una copia stampata di Little Women dopo aver sparpagliato insonne sul pavimento della soffitta centinaia di fogli riempiti di getto e dopo aver abilmente contrattato le royalties. E Jo così apparentemente forte, iperattiva e tenace, è in realtà una ragazzina fragile che non vuole crescere e che gioca a teatro, affronta la vita ma non con la stessa scioltezza di Meg, dovrà rinunciare a Laurie fedele al suo spirito libero ma piangerà il vuoto d’amore che lei stessa si è creata, si dichiarerà a Fritz sollecitata dalle sorelle e ormai in età matura. È attraverso lo sguardo di Jo che lo spettatore vede il film: la vita passa, restano i ricordi, gli eventi ciclici che inevitabilmente impongono i confronti con gli anni precedenti, la morte dei propri cari e la memoria dei momenti trascorsi insieme che si fissa come una bolla di sapone, gli oggetti (ad esempio la cassetta delle lettere in giardino) che trattengono attimi di vita svanita o che impolverati (i mobili di zia March) sono cullati dal silenzio.

«Vorrei che portassimo ferri da stiro sulla testa per impedirci di crescere. Ma disgraziatamente i boccioli diventano rose e i gattini gatti».

 

Rossella Farnese

 

[Nell’immagine di copertina: una scena del film]

copabb2019_ott

Film selezionati per voi: febbraio 2018!

«Tre film al giorno, tre libri alla settimana, dei dischi di buona musica basteranno a fare la mia felicità».

Sulla scia delle parole di François Truffaut, ecco a voi la nostra selezione cinematografica per il mese di febbraio: appuntamenti imperdibili con grandi registi, come Steven Spielberg e Clint Eastwood, e con pellicole da Oscar come The Shape of Water, premiato con il Leone d’oro al Miglior film all’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia. Ma non solo: vi proponiamo anche un documentario nientemeno che su Caravaggio, un film d’animazione e un grande classico. Buona visione!

 

FILM IN USCITA

la-forma-dellacqua-la-chiave-di-sophiaLa Forma dell’acqua – Guillermo de Toro

U.S.A., 1962. Elisa, affetta da mutismo, è un’addetta alle pulizie in un laboratorio scientifico di Baltimora ed è legata da profonda amicizia a Zelda, collega afroamericana che lotta per affermare i propri diritti nel matrimonio e nella società, e a Giles, vicino di casa omosessuale discriminato. In un mondo alienato, alienante e dall’apparenza rassicurante, Elisa, condannata al silenzio e alla solitudine, vive una fantasmagorica storia d’amore con una creatura anfibia che sopravvive in cattività in laboratorio, un mostro intelligente e sensibile. Un film, quasi un lento incubo, sospeso tra acqua, aria e nevrosi terrestri, quali la guerra fredda e la paura del diverso. USCITA PREVISTA: 15 febbraio 2018

the-post-la-chiave-di-sophiaThe post – Steven Spielberg

Thriller politico, manifesto della trasparenza e della libertà di stampa, The Post racconta la storia della pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers, documenti top secret del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, avvenuta agli inizi degli anni Settanta sul The Washington Post. Kay Graham – interpretata da Meryl Streep – prima donna alla guida della prestigiosa testata e Ben Bradlee – interpretato da Tom Hanks – direttore del giornale mettono a rischio la loro carriera nell’intento di portare pubblicamente alla luce ciò che quattro presidenti hanno insabbiato e nascosto. USCITA PREVISTA: 1 febbraio 2018

ore-1517-attacco-al-treno-la-chiave-di-sophiaOre 15.17 Attacco al treno – Clint Eastwood

Il 21 agosto 2015 i media divulgano la notizia di un tentato attacco terroristico di matrice islamica sul treno Thalys 9364 diretto a Parigi sventato da tre coraggiosi giovani americani. Nella sua nuova pellicola Clint Eastwood ripercorre le vite dei tre amici, Anthony Sadler, Spencer Stone e Alek Skarlatos, basandosi sulla loro stessa autobiografia The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, a Train, and Three American Heroes. USCITA PREVISTA: 8 febbraio 2018

 

UN FILM D’ANIMAZIONE

i-primitivi la chiave di sophiaI primitivi – Nick Park

Inizia all’alba dei tempi, tra creature preistoriche e natura incontaminata, il cartone animato più interessante del mese di febbraio. “I primitivi” racconta la storia di un uomo delle caverne che riesce a unire le forze dei suoi compagni di tribù per combattere le mire di un nemico cattivo durante il passaggio storico dall’età della pietra a quella del bronzo. Storia, azione e divertimento si mescolano in maniera efficace in questa pellicola con le voci di una serie di illustri doppiatori italiani come Riccardo Scamarcio, Paola Cortellesi e Salvatore Esposito (il Genny Savastano di “Gomorra”). Un film leggero ma con interessanti spunti didattici e un messaggio ricco di valori condivisibili, ideale per una serata in famiglia. USCITA PREVISTA: 8 FEBBRAIO

UN DOCUMENTARIO

caravaggio la chiave di sophiaCaravaggio: l’anima e il sangue – Jesus Garces Lambert

Dopo il grande successo riscosso nel 2017 dalle pellicole dedicate ai grandi maestri dell’arte, anche quest’anno al cinema si rinnova l’appuntamento con la pittura sul grande schermo. A febbraio il protagonista assoluto sarà Michelangelo Merisi, noto come Caravaggio, la cui arte è stata immortalata dal francese Jesus Garces Lambert. Un’approfondita ricerca documentale negli archivi che custodiscono traccia del passaggio dell’artista, conduce lo spettatore in una ricostruzione sulle tracce e i guai di Caravaggio, alla scoperta delle sue opere. Quaranta i dipinti analizzati nel film che, grazie all’impiego di evolute elaborazioni grafiche, di macro estremizzate e di lavorazioni di luce ed ombra, prendono quasi vita e corpo, si confondono con la realtà dando una percezione quasi tattile. A impreziosire il tutto è la voce narrante di Manuel Agnelli, leader della band Afterhours, al suo debutto nel genere documentario. Un film da non perdere, in sala solo per tre giorni: il 19, 20 e 21 febbraio.

UN CLASSICO DEL CINEMA

diritto-di-cronaca la chiave di sophiaDiritto di cronaca – Sydney Pollack

Nel mese in cui esce al cinema l’atteso “The Post” di Steven Spielberg, è giusto riscoprire un interessante film del 1981 che ha ispirato, per molti aspetti, la nuova pellicola con Tom Hanks e Meryl Streep. In “Diritto di cronaca” la morte di un sindacalista a Miami scatena sia le indagini della polizia sia quelle di una giovane giornalista locale. Finito in un vicolo cieco, l’investigatore Rosen decide di sfruttare l’intraprendenza della reporter per venire al bandolo dell’intricata matassa, ma riuscirà soltanto a mettere nei guai un onest’uomo imparentato con la mala. Il problema della libertà di stampa e del diritto di informare a tutti i costi sono alla base della storia, forse non tra le più riuscite del compianto Sydney Pollack, che si muove sempre alla ricerca di una scomoda verità. Nel lungo filone di film dedicati al giornalismo “Diritto di cronaca” rimane un titolo da vedere almeno una volta per capire quanto il mondo del giornalismo abbia da sempre affascinato la settima arte.

 

Rossella Farnese, Alvise Wollner

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Il capitalismo veste Prada

Il potere pervasivo della moda porta molti a sentire l’esigenza di prenderne le distanze. Mi riferisco a coloro che sono intenzionalmente “fuori moda” e si considerano al di sopra di quest’attività, che nella migliore delle ipotesi ritengono una frivola perdita di tempo, nel peggiore un’ossessione per la superficialità.

Il filosofo tedesco Simmel nel suo saggio Moda e metropoli dà una lettura poco lusinghiera dei “fuori moda”, spiegando il fenomeno in due modi possibili. Secondo il primo, chi vive intenzionalmente fuori moda lo fa perché ha una personalità debole, che teme di perdere adattandosi ai gusti della collettività e di vedere assorbita dagli oggetti. Infatti Simmel ritiene che nella nostra epoca lo spirito oggettivo rischi spesso di soffocare quello soggettivo. Gli oggetti sono investiti di un potere e di un’importanza superiore a quella degli individui. Spesso sentiamo dire da qualcuno che il modo in cui si veste rispecchia ciò che è, la sua soggettività appunto; un vestito dovrebbe rimanere un veicolo dell’individualità, un modo per metterla in luce. Ma c’è chi, non del tutto a torto, teme che un abito troppo elaborato finisca per strozzare la sua individualità, che sente magari già debole.

L’altra interpretazione che Simmel dà è meno originale, ma forse più veritiera. Essere fuori moda non è che una forma di moda. «Chi vuole essere fuori moda accetta il contenuto sociale esattamente come il fanatico della moda, dandogli però la forma della negazione anziché dell’intensificazione»1 . Come l’ateismo più radicale spesso si rovescia in una fanatismo simile a quello religioso, così chi evita i gusti della collettività cerca in realtà un modo diverso per affermare la propria personalità attraverso i vestiti.

Lars Svendsen in Filosofia della moda nota che molti movimenti contro-culturali, nati per rivendicare spazi di trasgressione e anticonvenzionalità, finiscono per essere assorbiti dal sistema. Per esempio lo stile punk ha conservato per poco tempo il suo potenziale anarchico, iniziando molto presto a comparire su riviste di moda, fino a diventare un fenomeno di massa.

«Nuove sottoculture creano nuove mode e tendenze a cui l’industria poi attinge. La sottocultura o controcultura è diventata la migliore amica della moda e del capitale»2.

Si può essere fuori moda ma non vivere fuori dalla moda. Lo spiega con lucida freddezza Meryl Streep in Il diavolo veste Prada. Con spietata ironia la Streep, nei panni della direttrice di una rivista di moda, dice alla sua segretaria, una sciatta Anne Hathaway, che mettersi un maglione infeltrito per «gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso» è ridicolo. Perché quel maglione è color ceruleo. E il ceruleo è stato usato per la prima volta nella collezione di Oscar de la Renta, seguito da Yves Saint Laurent prima e da diversi altri stilisti poi, fino ad arrivare in un “tragico angolo casual” da cui lei lo ha pescato. Perciò «siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori delle proposte della moda».

meryl-streep-devil-wears-prada
Nel sistema capitalista pensare di vivere senza avere nulla a che fare con la moda non è possibile, sarebbe un po’ come voler sopravvivere senza sporcarsi le mani con il denaro. La moda è una delle regole del capitalismo, lo strumento con il quale esso produce rapidamente obsolescenza, cioè trasforma oggetti seminuovi e perfettamente funzionanti in anticaglie da sostituire al più presto. È evidente che non ha alcun significato che un anno sia di tendenza il verde acido e quello successivo il grigio antracite, in questo non c’è alcuna ricerca della bellezza né tantomeno della funzionalità. «La moda è irrazionale nel senso che persegue il cambiamento, e non ai fini di migliorare l’oggetto»3 , ma «la sua essenza è il cambiamento per il cambiamento»4.
Poiché la moda è una condizione così radicata nella cultura e nell’economia in cui viviamo, pretendere di esserne al di sopra non ha molto senso.

«Non esistono fuori dal mercato. Non possono starne fuori. Non esiste un fuori. La cultura del mercato è totale»5.

La visione che Don DeLillo ci offre in queste righe di Cosmopolis è volutamente apocalittica. Non è però obbligatorio condividere i suoi toni pessimisti. Riconoscere l’esistenza di una regola, come i dettami che la moda volenti o nolenti ci impone, è il primo modo per ridiscuterle criticamente. La scelta non è tra dichiararsi al di sopra di qualcosa nel quale in realtà si è immersi o subirne passivamente gli effetti. Non è possibile una liberazione dal sistema, ma una libertà interna alla moda, che ne piega per quanto possibile le regole, adattandole alla propria personalità.

Lorenzo Gineprini

NOTE:
1. Georg Simmel, Moda e Metropoli, Piano B edizioni, Bologna, 2011;
2. Lars Svendsen, Filosofia della moda, Guanda, Parma, 2013;
3. Idem;
4. Idem;
5. Don DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2003.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Filosofia + Moda = Glamoursofia (Debora Dolci e Francesca Gallerani

La filosofia fa parte del quotidiano ed ha sempre influenzato tutti i settori del sapere e della vita, non da meno gli usi e i costumi delle varie epoche, tra cui la moda, elemento importantissimo nel corso dei secoli per designare le abitudini delle varie epoche.

La moda è da sempre condizionata dal pensiero, dunque dalla filosofia, di un dato momento storico ed è per questo che essa è da considerarsi un fenomeno sociologico non indifferente, da scandagliare per analizzarlo in ogni sua sfaccettatura.

Tra Moda e Filosofia si frappone dunque una distanza apparente, una distanza ravvicinata.

Attraverso lo spazio e il tempo, attraverso poche mode del momento e molte icone di sempre, Debora Dolci e Francesca Gallerani elaborano un saggio rivelatore: “Glamoursofia“.

Una semplice parola che cattura la nostra attenzione; abbiamo chiesto proprio a loro, le brillanti Autrici, di raccontarci qualcosa in più, riuscendo a stupirci di quanto due mondi che sembrano distanti anni luce, in realtà riescano ad essere incredibilmente vicini.

Come nasce l’idea di Glamoursofia?

Siamo amiche, e come tutte le donne parliamo anche di moda. Guardando una nuova collezione, una vetrina, o un giornale femminile abbiamo sempre un approccio diverso, da una parte glam e dall’altra più filosofico. Abbiamo deciso di scrivere il libro quando ci siamo accorte che questa diversità ci ha arricchito. Quando dopo l’iniziale entusiasmo per un nuovo paio di scarpe ci siamo sorprese a ricordare il dialogo di Platone. Inoltre ci ritroviamo spesso in ufficio con lo stesso tipo di scarpe.

Filosofia e moda: qual è il loro punto di incontro? 

La moda è un fenomeno complesso che caratterizza fortemente la società dei consumi in cui viviamo. Dove c’è complessità, c’è spazio per interrogarsi, indagare e riflettere, un buon margine quindi per fare filosofia.

Così da una parte abbiamo cercato di capire il fenomeno mettendone in luce implicazioni e significati attraverso il racconto di alcuni suoi elementi caratterizzanti (ogni capitolo è dedicato a un tema o a un particolare capo di abbigliamento). Dall’altra lo abbiamo accostato in maniera esplicita – e a volte ironica – ad alcuni dei più importanti filosofi della storia, scoprendone affinità e differenze. Ci siamo divertite molto –

Quanto incide la moda all’interno della società? 

Citando Roland Barthes: «Quello che ci interessa del vestito è proprio il fatto che esso sembra partecipare […] alla più grande socialità».

La moda è un fenomeno essenzialmente sociale perché, in quanto linguaggio, comunica qualcosa, e quel qualcosa è un significato condiviso dalla società in cui viviamo. Quando scegliamo un abito siamo attratti dal suo valore simbolico che, per quanto sia aperto e soggetto a molteplici interpretazioni, è comunque un valore riconosciuto e sancito socialmente.

Inoltre, come ci ha insegnato Miranda Priestly, la Meryl Streep de Il diavolo veste Prada, la moda pervade la nostra società tanto da essere penetrata capillarmente nella nostra vita quotidiana, così ognuno di noi, che lo ammetta o no, ne è influenzato.

La moda: un affare politico? 

Assolutamente sì. Se pensiamo agli anni 60/70 la moda era un affare politico all’ennesima potenza. Gli hippie o i militanti di sinistra dell’epoca erano immediatamente riconoscibili grazie al loro modo di vestire, che era diventato una vera e propria divisa.

Oggi gli abiti hanno assunto sicuramente significati meno rigidi e codificati, ma ciò non implica che abbiano perso le proprie potenzialità comunicative ed espressive, anche dal punto di vista politico. A questo proposito è significativa l’attenzione rivolta di recente all’abbigliamento dei politici e al loro aspetto fisico, soprattutto di molti esponenti (per lo più donne ma non solo) dell’ala renziana del Pd. In questo caso l’abito viene guardato con sospetto, come l’elemento rivelatore della deriva a destra di una certa sinistra. Il paradosso è che a muovere certe accuse sarebbe proprio chi sostiene di disinteressarsi dell’aspetto fisico, salvo poi fare del vestito l’elemento che tradisce la fede politica più profonda di una persona a dispetto di ciò che afferma. Certi giudizi, inoltre, non sono altro che il frutto di antichi retaggi – che affondano le proprie radici negli anni 60 e 70 – fondati su categorie estetiche ormai incapaci di rendere conto della realtà odierna. Sembra una questione banale, ma in realtà riflette un problema più ampio: la vecchia guardia non si riconosce più nella nuova sinistra, e questa mancanza di riconoscimento passa anche da un piano estetico. Crediamo che il cambiamento della sinistra di oggi stia passando anche attraverso un rinnovamento delle sue categorie estetiche, in quanto quelle vecchie sono ormai obsolete.

url

Nel vostro saggio si parla molto di figura femminile: quale tipo di donna rappresenta di più il 2014? 

La donna che ci è sempre piaciuta, quella libera, che non si fa condizionare da niente e nessuno.

Qual è il vostro rapporto con la moda?

Il nostro rapporto con la moda è sereno e giocoso. E crediamo che questo sia stato il messaggio vincente del nostro libro. La moda ci piace, subiamo il fascino dei vestiti, dei tessuti, delle nuove forme, ma riusciamo a mantenere uno sguardo distaccato.  Ammiriamo il genio di alcuni stilisti, la loro capacità di rendere concreto il sogno glamour, ma non ci possiamo considerare fashion victim, manteniamo ancora un forte senso critico!

Tre cose da avere nell’armadio

Tre cose sono poche! E questa è davvero la domanda più difficile alla quale rispondere. Visto che siamo in due raddoppiamo e consigliamo sei capi che non possono non accompagnarci nella vita.

Il primo è il trench perché si può portare con tutto, dai jeans al tubino da sera. Ogni occasione è perfetta per indossarlo. Il tubino nero, elegante, semplice e sexy. Trovate che il consiglio sia scontato? Provate a vivere senza. La camicia bianca, un altro classico, ma provate a portarla con una gonna lunga in chiffon. Immancabili i jeans, ormai stanno bene a tutte, i modelli sono veramente tanti, basta scegliere quello più adatto al proprio fisico. Una nostra passione la t-shirt a righe mariniere, basta poco per sentirsi sempre in vacanza. L’ultimo consiglio è il blouson di pelle,  sta bene a tutte le donne di tutte le età.

Tre cose da non indossare mai

Nel nostro libro, alla fine, abbiamo fatto l’elenco delle dieci cose da non indossare mai. Riducendo a tre possiamo dire i leggings con i tacchi, la biancheria intima troppo in vista, e i sandali tedeschi. Perché non hanno niente a  che vedere con l’eleganza , concetto al quale teniamo moltissimo.

In Glamoursofia si legge di: capi o accessori irrinunciabili, film d’autore, grandi case di moda e filosofi. Rispettivamente, per ognuna di queste categorie, chi o cosa vi rappresenta di più? 

I cappelli di ogni forma e colore, i film della Nouvelle Vague e di Tarantino (soprattutto i personaggi femminili che li abitano e i loro vestiti), l’ebbrezza concettuale di Nietzsche e il rigore di Kant.

Quali obiettivi volete realizzare attraverso la pubblicazione di Glamoursofia?

Vogliamo demistificare la posizione, ormai logora e ridotta a cliché, della donna che non ha tempo di curare il proprio corpo perché è troppo occupata a curarsi della propria mente. Che poi non è altro che una figura dell’intellettuale che si occupa solo di cose “serie” e se ne compiace disprezzando tutto ciò che viene considerato “di massa”. Solo perché un fenomeno è “di massa” non significa che sia banale, anzi probabilmente proprio perché è così diffuso avrà qualcosa da dirci su di noi e sul mondo in cui viviamo. Inoltre non c’è più molta differenza tra cultura alta o bassa. Viviamo in un’epoca di contaminazioni, in cui è ormai impossibile tracciare dei confini netti. Se guardiamo al cinema, per esempio, molti film che escono nelle sale hanno un taglio televisivo, hanno assorbito l’estetica della fiction, mentre ad aver sviluppato quelle potenzialità espressive e artistiche tradizionalmente legate al cinema oggi sono soprattutto le serie tv (in particolare quelle americane). E’ la post-modernità, e bisogna farsene una ragione. Così abbiamo fatto vedere a chi ha sempre considerato la moda un argomento frivolo, che anche dietro un tubino nero ci può essere un pensiero.

Vi hanno dedicato un articolo anche su Vogue: un punto di arrivo o un punto di partenza?

La recensione su Vogue è stata la prima, quindi ha rappresentato un incredibile punto di partenza e un ottimo auspicio, dato che poi ne sono seguite molte altre. E per Glamoursofia non esiste un punto da arrivo, c’è sempre qualcosa più avanti alla quale guardare.

Quali sono i progetti per il futuro? Glamoursofia diventerà uno “stile di vita”?

Per il futuro c’è sicuramente il progetto di continuare a lavorare insieme, anzi stiamo già lavorando al secondo libro. Glamoursofia per noi è sempre stato uno stile di vita, ora anche di moltissime e donne, e a sorpresa di tanti uomini, che ci scrivono chiedendoci consigli o dandoci nuovi spunti di riflessione. Glamoursofia è riuscito a mettere in comunicazione tipologie di persone molto differenti e solo all’apparenza molto lontane. E questo è molto interessante e costruttivo.

Non si potrebbe credere a ciò che affermano con sicurezza senza leggere il loro libro; determinata e indipendente, ma anche elegante e sensuale. Così si racconta la donna di Glamoursofia: in una parola, affascinante, proprio come il saggio scritto da Debora Dolci e Francesca Gallerani.

È meraviglioso, nell’accezione per cui “produce meraviglia”, perché stupisce pagina dopo pagina, Glamoursofia.

Stupisce coloro che ritengono che la moda sia soltanto superficialità, stupisce chi la ama e ne scopre aspetti nuovi che non aveva mai considerato.

La moda è da sempre vista come uno degli aspetti della società contemporanea più effimeri e di certo inadatti alla riflessione teoretica.

Eppure, se leggete Glamoursofia, vi rendete conto che il fenomeno della moda va oltre la superficialità di una banale scelta, ma investe tutta la sfera di una persona e di una società: non vi sarà mai fine alla riflessione sulla moda, basta solo non cadere nella banalità del frivolo e del consumismo.

Cerchiamo, ogni volta che entriamo in un negozio, di capire perché quel determinato stilista ha realizzato quella forma, perché ha scelto quel colore o quella fantasia, perché ci attrae un capo più di un altro: ci accorgeremo che dietro a tutto questo c’è studio, riflessione e, dunque, filosofia.

Oh, ma certo ho capito: tu pensi che questo non abbia niente a che vedere con te.

Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso.

Ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar De la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent – se non sbaglio – a proporre delle giacche militari color ceruleo.

E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l’hai pescato nel cesto delle occasioni.

Tuttavia quell’azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori dalle proposte della moda. Quindi in effetti indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti… in mezzo a una pila di roba”.

Da Il Diavolo veste Prada con Meryl Streep

Seguitele nella loro pagina Facebook dedicata a Glamoursofia!

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google immagini]