Chi si prende cura dei curanti ai tempi del Covid-19?

«La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Nel bel mezzo della vita, noi siamo nella morte».
Joan Didion, L’anno del pensiero magico

Hanno fatto turni della durata di dieci/dodici ore consecutive, per giorni sono rimasti confinati nei nosocomi, hanno lavorato con dispositivi e forze insufficienti adattandosi a ciò che la situazione richiedeva, consapevoli di poter contrarre, in qualsiasi momento, un virus, con eziologia sconosciuta, potenzialmente letale. A volte si sono ammalati, a volte hanno visto migliaia di colleghi ammalarsi e morire. Hanno vissuto per mesi in un continuo stato di allerta fisico e mentale, hanno affrontato scelte drammatiche e fronteggiato un’impotenza e un dolore soverchianti, senza poter in alcun modo decomprimere lo stress accumulato, senza avere tempo e spazio per la cura della propria vita personale, esaurendo le risorse fisiche, psichiche ed emotive ancor prima che queste risorse potessero essere riattivate.

L’incertezza insita nella medicina (che non è una scienza esatta), la consapevolezza di non avere a disposizione strumenti per far fronte al dilagare inarrestabile di una patologia mortale con decorso clinico quasi sconosciuto e la spasmodica ricerca di una cura efficace per arrestare la “morte in sequenza” di centinaia di persone, sono diventate ordinaria quotidianità.  

Per intere settimane medici, infermieri e operatori sanitari che hanno lavorato in prima linea nei reparti Covid hanno operato in una condizione adrenalinica, dissociando inconsapevolmente il proprio operato e l’esperienza traumatica che stavano affrontando. Si sono sentiti in colpa non solo per non essere riusciti ad attivare una terapia risolutiva in grado di salvare più vite, ma anche per non avere trovato, nella frenesia dell’emergenza, il tempo, lo spazio e le risorse per “prendersi cura” del paziente, lasciandolo morire in totale solitudine.

In questo trauma collettivo, tra ospedali fatiscenti, turni massacranti, carenza di personale e di fondi, chi si è preso cura del personale ospedaliero, chi li ha aiutati a gestire l’enorme carico emotivo che questa situazione comporta? Nessuno.

Il personale sanitario impiegato nei reparti Covid, nell’apice della pandemia, si è trovato impegnato a lavorare per un sistema sanitario che agisce prima mettendo al sicuro le vittime primarie e poi, eventualmente, prendendosi cura delle vittime secondarie, i soccorritori. Chi si è preoccupato di gestire le conseguenze della pandemia sui medici esperti che hanno aggiunto ulteriore stress a quello già accumulato in situazioni cliniche note, sui medici con specializzazioni non inerenti ma necessariamente “dirottati” in una realtà così lontana da quella per cui hanno studiato, sui medici che hanno visto dissolversi le condizioni per curare al meglio i propri pazienti affetti da patologie non-Covid? Nessuno.

Chi ha pensato ai medici e agli infermieri neolaureati che si sono trovati catapultati in trincea e che dovrebbero inserirsi gradualmente nel mondo della pratica clinica? Nessuno.

Nella maggior parte dei nosocomi con reparti Covid il personale ha lavorato in un abisso di trascuratezza, nell’impossibilità e nell’incapacità di potenziare i propri meccanismi di resilienza. Senza la possibilità di ricevere ascolto e contenimento, ma anche indicazioni relative alla gestione pratica ed emotiva delle situazioni più difficili. 

Ora che è passata la fase acuta dell’emergenza dobbiamo fare i conti con gli effetti tossici di un carico di stress fisico e psichico devastanteAd oggi, la sindrome da burnout e il disturbo da stress post traumatico sono gli esiti di un’emergenza vissuta senza pensare alla salute fisica e mentale delle vittime secondarie, di chi ha curato, di chi si è trovato travolto dall’onda degli eventi e che non ha esitato un istante a mettere in campo la propria professionalità.

Per il prossimo futuro le possibilità sono due: o la salute psicologica degli operatori sanitari e la loro capacità di gestire lo stress diventano una competenza che deve entrare nelle università e che deve avere lo spazio e il tempo per diventare pratica quotidiana, oppure ci deve essere alla base del sistema sanitario un supporto psicologico permanente, indipendente dal verificarsi di eventi sanitari eccezionali. Con il senno di poi, aver avuto una delle due possibilità avrebbe migliorato migliaia di vite.

 

Silvia Pennisi

 

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Il significato del “bene” nella pratica clinica. Casi clinici di fine vita

Non ci dimenticheremo mai di Alfie. Così come non ci dimenticheremo mai di Charlie.

Bambini così piccoli per essere strappati via dalla vita. Guancette porpora, occhi stanchi, spesso chiusi. L’abbraccio commovente di un padre al proprio figlio. Un orsacchiotto di peluche disteso accanto a quel corpicino esile, una compagnia familiare su un letto estraneo, quello di un ospedale. Macchine accese a scandire la vita che passa, che scivola, che scorre senza “se e senza ma”.  Senza concessioni, né tregue. Il tempo passa − da quanto tempo, forse troppo? Ma chi siamo noi, in fin dei conti, per giudicare il troppo e il troppo poco, il giusto e lo sbagliato? −, e quei corpicini sono ancora lì, la ventilazione meccanica li aiuta a respirare, il sondino nasogastrico ad alimentarsi e idratarsi.

Come potremmo mai dimenticarci di Dj Fabo, Eluana e Piergiorgio Welby? Corpi sofferenti, talvolta coscienti, ancora in grado discernere il loro bene, di ascoltare il proprio desiderio, di affrontare la morte anche laddove questa rappresenta la sola alternativa ad una condizione irreversibile, irreparabile.

Ci ricordiamo questi volti, le notizie trasmesse giorno dopo giorno dai telegiornali, le dispute tra chi sostiene che la vita debba essere protetta e difesa e che dunque i trattamenti siano necessari e imprescindibili per tale fine, opponendosi all’interruzione dei presidi vitali da un lato, e coloro i quali, dall’altro, difendono il diritto alla vita nei termini di una finitudine umana mortale cui non ci è permesso di sottrarci e contro la quale, prima o poi, veniamo a  chiamati a fare i conti.

Certo, quando si parla di bambini e di minori è sempre più complicato. Lo è poiché ci esponiamo alla vulnerabilità estrema di una relazione che deborda quella medico-paziente: i terzi sono dei genitori, direttamente implicati nella cura giornaliera del proprio bambino, personalmente coinvolti in una sofferenza senza fine che vede il loro figlio sospeso tra la vita e la morte.

Ce lo ricordiamo tutti il recente caso Alfie, la sua storia ha commosso il mondo intero; fino alla fine, la sua mamma e il suo papà hanno lottato contro tutto e contro tutti − perfino contro i giudici e i medici che si prendevano cura di lui. Volevano salvarlo, salvarlo da quella vita già segnata; salvarlo da un destino che, forse, avrebbero voluto cambiare con tutti i mezzi a loro disposizione. Ma di quali mezzi disponevano effettivamente? Una tracheotomia e una PEG per allungare il numero dei giorni da vivere e capire se, in un modo o nell’altro, ci sarebbe stata la possibilità di cambiare il decorso di una malattia neurodegenerativa, purtroppo inguaribile?

Vero è che Alfie per un po’, una volta interrotta la respirazione artificiale, è riuscito respirare in completa autonomia. Giorni che facevano credere che il piccolo guerriero fosse riuscito a dimostrare di potercela fare anche da solo, senza l’aiuto della tecnica medica. Eppure, se questo è ciò che molte notizie volevano far trasparire con la comunicazione “Il piccolo Alfie respira da solo!”, è giusto porre l’attenzione sulla sofferenza nascosta di ogni suo singolo respiro. Una sofferenza indecifrabile, determinata da uno stato fisico molto fragile. Respirare autonomamente significava riuscire a sopravvivere, certo; riuscire a sopravvivere fin tanto che ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, le energie di un piccolo guerriero. Ecco perché i presidi vitali sembravano necessari: il bambino aveva dimostrato di essere forte e un giorno, avrebbe potuto farcela di nuovo. Il desiderio dei due genitori, infatti, era nutrito dal bisogno di dare al piccolo Alfie non una possibilità di mera sopravvivenza, ma di vita. Sarebbe però stato davvero concretizzabile? Fino a che punto il giudizio clinico può essere scavalcato? Poteva il prolungamento quantitativo della vita del piccolo paziente corrispondere ad un progresso qualitativo?

La decisione di sospendere i presidi vitali, dettata dai medici in funzione di una tutela della vita, ha rappresentato l’estremo gesto di cura, inteso come un to care e non come un semplice to cure. Laddove guarire non è possibile e utilizzare trattamenti salvavita diventa sproporzionato, il ruolo dei medici continua ad essere quello di prendersi cura del paziente, traducendosi nei termini di un giudizio di proporzionalità rispetto al trattamento previsto. È questo l’aspetto più ignorato quando la bioetica emerge dai casi clinici degni di nota. “Il medico deve fare il bene del paziente, non procurarne la morte”: questo si dice quando i trattamenti vengono interrotti. Ma di quale bene stiamo parlando? Qual è la vera intenzione dei clinici di fronte a casi irreversibili? In quali circostanze le cure sono appropriate e non rientrano nella medical futility?

Quando i clinici hanno riferito ai genitori di Alfie la necessità di sospendere i presidi vitali, è stato perché proseguirli non avrebbe costituito un atto medico volto al raggiungimento del bene dello stesso paziente. Al contrario, sarebbe equivalso al prolungamento di sofferenze intollerabili cui il bambino non avrebbe potuto nemmeno dare voce. L’intenzionalità sottostante alla pratica clinica non è quella di causare la morte − in quanto la sospensione ne costituirebbe unicamente la condizione clinica − ma rispettare la vita, accettando i limiti di una scienza che, come la medicina, non può fare tutto, non può prolungare indefinitamente l’esistenza procurando, in taluni casi, unicamente una stasi, un’immobilità, e in altri, una diminuzione della qualità di vita del paziente.

Il dolore della perdita è qualcosa di inenarrabile. Indescrivibile. Silenzioso.

Il piccolo Alfie, il piccolo Charlie, Eluana, Piergiorgio, Dj Fabo. Tanti nomi. Tante storie che ci hanno trasmesso il valore della vita e del coraggio. Contesti culturali diversi, dall’Italia all’Inghilterra. Ogni racconto ci parla di una finitudine incontestabile, che si impone prepotentemente. Tanti nomi che hanno chiamato in causa le nostre vite, interrogandoci sulle paure profonde che ci attraversano. Certo è che, nella pratica clinica, la fine della vita è una questione inevitabile ed è necessario ascoltare quell’universo di relazioni che, ben oltre la clinica, è impastato di sofferenza, fragilità profonde e causa di molti conflitti, incomprensioni. Ciò affinché sia possibile, un giorno, parlare un linguaggio comune in cui la barriera tra medici e pazienti, tra medici e genitori, possa essere abbattuta, trasformando quel muro di calce che li separa in uno spazio comune di comunicazione e riconoscimento reciproco.

 

Sara Roggi

 

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Piccoli cuori artificiali

In un comunicato stampa del 6 dicembre 2016, l’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù si è incaricato di avviare, dai primi mesi del 2017, la sperimentazione clinica del minicuore artificiale Jarvik 15mm.

Fu esattamente all’interno del Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica del Bambino Gesù che, quattro anni fa, fu impiantato, per la prima volta al mondo, un prototipo di Jarvik Heart miniaturizzato, salvando la vita a un bambino di soli sedici mesi.

Parallelamente, è stata la Food and Drug Administartion, organismo supervisore di controllo della sanità statunitense, ad aver autorizzato la sperimentazione clinica su ottantotto bambini affetti da una cardiopatia avanzata del minicuore artificiale, il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra della Jarvik.

Lo scopo di tale ricerca sperimentale è quello di verificare l’affidabilità di due dispositivi cardiaci distinti: da un lato, il dispositivo ventricolare sinistro intracorporeo della Jarvik 15mm, alimentato da batteria esterna, e dall’altro, il Berlin Heart pediatrico, un sistema di assistenza paracorporeo che costringe il bambino, in attesa di trapianto, al ricovero ospedaliero.

Certo, il fine ultimo di queste ricerche non viene valutato unicamente in termini quantitativi, bensì in termini qualitativi. Si tratterebbe, infatti, di comprendere quale sarà la soluzione clinicamente più efficace per il benessere e la sopravvivenza dei piccoli pazienti.

L’ingegneria medica ha fatto dei grandi passi in avanti negli ultimi decenni.

Basti pensare ai LVAD (Left Ventricular Assist Device), dei dispositivi di assistenza ventricolare sinistra di nuova generazione.

Considerando la scarsità di donatori rispetto all’elevato numero di pazienti cardiopatici, questi apparecchi rappresentano una reale terapia alternativa al trapianto di cuore. Permettendo così a un bacino più ampio di pazienti di poter sopravvivere; talvolta, di sopravvivere in condizioni di salute migliori rispetto agli stessi trapiantati.

Ed è esattamente questo il punto. Senza LVAD, un paziente con scompenso cardiaco avanzato e non inserito in lista, muore. Non ha alcuna speranza di poter sopravvivere.

C’è tuttavia da sottolineare che i LVAD, se da un lato sono considerati impianti tanto invasivi quanto una qualsiasi altra operazione a cuore aperto, dall’altro lato funzionano unicamente tramite un controller a batterie ricaricabili. Non è un caso che, proprio quest’ultimo aspetto, possa sollevare alcune problematiche etiche.

Pertanto, la vita dei pazienti con impianto LVAD è appesa letteralmente ad un filo: dipendenti di questa pompa artificiale, devono costantemente fare attenzione alla durata delle batterie – di circa otto ore– che li mantengono in vita. Dimenticarsi di ricaricarle equivarrebbe a morire.

Se qualcosa andasse storto, se un meccanismo interno smettesse di funzionare, sarebbe necessario correre d’urgenza al più vicino centro VAD di riferimento.

In Italia, però, una decina di regioni sono sprovviste di tali centri. Non è un caso se la posizione geografica è diventata, nel nostro territorio, uno degli elementi imprescindibili per la selezioni dei candidati all’impianto, sollevando per altro numerosi interrogativi circa l’equo accesso a queste preziose – e costose – risorse, capaci di mantenere in vita in casi di cardiopatia grave e avanzata.

Di possibili conseguenze ed effetti collaterali, è innegabile, ce ne sono tanti. Per questo, è giusto che il paziente, accompagnato dall’équipe sanitaria, sia reso consapevole – se ancora cosciente – delle diverse alternative cliniche, così come degli effetti collaterali post impianto.

Quando si parla di bambini, però, è tutta un’altra storia. C’è una creatura che non sa e non è cosciente di ciò che potrebbe andare incontro. C’è la sua innocenza e l’ingiustizia di una vita tolta ancor prima di essere vissuta. C’è una dignità da preservare fino all’ultimo respiro. C’è il dolore di quei genitori posti di fronte alla complessità di un interrogativo che oscilla tra la “vita a tutti i costi” e il “lasciare andare” il loro bambino. Come diventa possibile fare i conti con la complessità di un’esistenza che non lascia scapo? Come decidere per il bene del piccolo paziente, allo scuro delle imprevedibili conseguenze che l’impianto potrebbe effettivamente causare? Come possiamo proteggere i nostri bambini e fare loro del bene?

Seguire il principio ippocratico di beneficienza – o beneficialità –, in linea con il detto latino primum non nocere, conduce i medici, i professionisti sanitari e i familiari ad affrontare situazioni complesse, spingendo ciascun soggetto implicato nella relazione di cura a rivalutare il valore del senso dell’esistenza. Un’esistenza talvolta già strappata e ferita e che, forse, chiede silenziosamente di essere lasciata andare.

 

Sara Roggi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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“Dall’altra parte”: esserci o non esserci

Paolo Barnard è un noto giornalista italiano che ha redatto interessanti inchieste su temi di grande attualità, quali ad esempio la malasanità, per la trasmissione Report e tramite anche la collaborazione del canale Rai Educational. Lui ha proposto una critica all’attuale sistema sanitario italiano, impreziosita dalla narrazione dell’esperienza di vita di tre luminari italiani. I contenuti e i personaggi di cui si parla nell’opera Dall’altra parte, divenuto un libro grazie al successo mediatico riscosso dalla proiezione della puntata inchiesta cui mi riferisco, sono stati protagonisti di un reportage che il celebre giornalista ha realizzato per la serie televisiva La Storia Siamo Noi di Giovanni Minoli, trasmessa la sera del 27 giugno 2005 da Rai 3, dal titolo Nemesi Medica. Barnard ha così pensato di rivolgersi a grandi medici italiani, gravemente ammalati: e ciò perché solo loro, in quanto possessori di queste caratteristiche, avrebbero potuto costituire le guide cui rivolgersi. Solo loro, infatti, che hanno vissuto il mondo della Sanità, che l’hanno analizzato e sviscerato, che hanno studiato le più diverse patologie e avanzato delle proposte di terapia, risultano essere detentori di un sapere unico e irriproducibile, grazie alla loro parallela esperienza di malattia. Sono stati vittime di un male, e proprio nel momento di caduta nel buio psico-fisico sono stati proiettati dall’altra parte, nell’altro polo, quello più vulnerabile, nel rapporto di comunicazione e relazione tra medico e paziente. Loro hanno coniugato nel profondo di se stessi, in un vortice di emozioni e stati d’animo, ogni singola nozione scientifica che possedevano, ogni struttura ospedaliera da loro abitata, «ogni anfratto dell’universo medicina in cui erano vissuti»1. Barnard, così, confida al lettore:

«[…] A loro ho chiesto aiuto. Aiutateci a cambiare non solo la figura del medico ma anche quella della Sanità. Raccontateci come voi la rifareste oggi, dopo averla vissuta in pigiama, attaccati a un catetere venoso o urinario, nella solitudine che si prova dentro una risonanza magnetica o mentre ci si riveste in un ambulatorio; oggi che conoscete la depressione e la nausea, che anche a voi è capitato l’incontro con la logopedista o con l’oncologo dai modi poco azzeccati se non brutali, oggi che potete capire più di altri cosa vive chi è nelle vostre stesse condizioni di sofferenza ma non possiede i vostri privilegi»2.

La malattia, così come viene narrata attraverso le confessioni dei tre medici, pare più un «sequestro di persona che non [il corsivo è mio] un incidente biochimico: ti blocca ovunque tu sia, […] senza risparmiare nessuna delle tue esigenze, dei tuoi progetti e dei tuoi diritti, ti porta via in un luogo lontano da tutto ciò che hai sempre conosciuto come te stesso, il tuo ambiente, e ogni tua sicurezza»3. La malattia costituisce quella realtà che una volta insidiata e imposta nell’esistenza dell’individuo ne diventerà tiranna, sarà ciò che ne scandirà i ritmi, che ne condizionerà il percorso, condizionando allo stesso tempo la struttura della rete di affetti in cui il malato è immerso. Il periodo di malattia si propone quale insieme di stati d’animo, esperienze emotive di enorme complessità, senza dubbio più articolato rispetto a delle quantificabili e oggettivabili manifestazioni biochimiche: è ciò che, come Barnard suggerisce, segna la fine, il superamento della sfera d’innocenza e l’inizio di una nuova visione delle cose, di una diversa e imposta condotta di vita. Anche se la guarigione potrà verificarsi, la primigenia e originaria innocenza si è ormai dissolta per sempre, polverizzata dal dolore.

«In un letto alieno, in un ambiente in cui non si ha alcun controllo […] chi se ne sta supino sotto le lenzuola nel momento forse più vulnerabile di tutta la sua esistenza ha il terrore che se protesterà, se qualcuno della sua famiglia oserà difendere anche il più sancito dei suoi diritti, verrà preso in antipatia e magari poi lo cureranno male, magari la volta dopo il medico sarà più sciatto, oppure l’infermiere non verrà di notte o lo farà aspettare di più, e se in futuro dovrà tornare in quel reparto lo tratteranno peggio e gli parleranno ancora meno. In gioco c’è la propria vita e la paura della sofferenza, che rendono deboli come mai prima. Meglio tacere e ingoiare tutto»4.

Parallelamente, a mantenere e aumentare sempre più l’abisso tra malattia e professione medica, tra paziente e medico, contribuiscono senza dubbio anche strutturali limiti organizzativi e culturali di cui il medico è vittima tanto quanto l’ammalato. Ma proprio per questo,  in tale contesto, il ruolo che ricopre il medico è cruciale: sarà proprio lui a fare la differenza nel modo con cui il paziente riuscirà ad affrontare e sostenere il peso della malattia.

«I medici camminano svelti e concentrati fra ali di anime pesanti e disorientate, scrutano referti con parole che sono un destino segnato, che non li riguarda però, mentre il paziente ha appena compreso che quell’ –oma alla fine di un’astrusità che non capisce significa semplicemente che da oggi tutto ciò che ha sempre costituito il suo sé, la sua vita, e ogni altro suo riferimento è saltato per aria»5.

L’intento dell’opera, come sostiene il curatore stesso, è quello di cercare di colmare l’abisso che impedisce la comunicazione tra la scienza medica e la sofferenza del paziente: per raggiungere questo fine è necessario sostenere e spingere il medico a un profondo incontro con se stesso, con il paziente e con la malattia.

L’opera consta di quattro sezioni, dedicate alle toccanti confessioni di questi medici-pazienti, la cui ultima prevede un Decalogo, frutto della serena collaborazione dei terapeuti. Si tratta di Sandro Bartoccioni, cardiochirurgo vittima di un tumore allo stomaco, Gianni Bonadonna esempio d’eccellenza nell’oncologia medica mondiale, colpito da ictus, infine Francesco Sartori, caposcuola di chirurgia toracica a livello europeo, sopravvissuto a un devastante melanoma.

«[…] Chi è abituato a curare gli altri ha enormi difficoltà ad accettare il ruolo di paziente. Tende a negare, sminuire i sintomi, a consultare frettolosamente un collega, magari al telefono o nel corridoio dell’ospedale, a curarsi da sé. Eppure, proprio da professionista della salute, dovrebbe ricordare che il momento culminante della medicina è la diagnosi di malattia cui segue il cammino terapeutico per curare e guarire il paziente. E l’abilità nella diagnosi sta nell’annotare in modo corretto la storia clinica che il paziente racconta, i sintomi e i segni di malattia, le sue condizioni generali. Sulla base di queste osservazioni il medico formula una prima ipotesi diagnostica che, attraverso gli opportuni accertamenti, verrà avvalorata o negata. E proseguendo in una linea strategica corretta, formulata la diagnosi di malattia, il medico, porrà in atto tutti i presidi adeguati per curare e assistere il paziente che a lui si è affidato»6.

Questo articolo vuole essere solo un semplice accenno a pagine dense di testimonianze di vita, lavoro ed esperienza di malattie, prive di filtri. Dedicare un po’ di tempo alla lettura di questo interessante intreccio di storie ed esperienze di vita, legate tra loro dal dolore, dalla sofferenza e da una vocazione divenuta una missione comune, significa accettare il regalo di questa intima confidenza che ci è stata donata da questi tre medici, e così ben confezionata e narrata (sia sottoforma di proiezione televisiva che come testo) da un giornalista a volte tacciato quasi di profetismo presuntuoso, ma che ha deciso di immergersi nelle profondità di luoghi molto spesso evitati o, ancora peggio, mantenuti nell’ombra, chissà, forse per (dis-) interessi secondari o, semplicemente, per cieca ignoranza altrui.

La sfida attuale alla ricerca, all’analisi e alla diffusione di esempi di scorci di verità come questi,  relativi ad esperienze spontanee, a volte fortemente toccanti, e proprio per questo scomode, è un possibile investimento verso una serena e matura evoluzione di prospettive.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. S. Bartoccioni, G. Bonadonna e F. Sartori, Dall’altra parte, a cura di Paolo Barnard, Bur, Milano, 2006, pag. 12
2. Ibidem
3. Ivi, pag. 6
4. Dall’altra parte, pag. 9
5. Ivi, pag. 8
6. Ivi, pag. 165

[Immagine tratta da Google Immagini]