Verità o fake news? Aspettando il Festivalfilosofia 2018

Clamorosa è quella di Calandrino, protagonista indimenticabile di alcune tra le più belle novelle del Decameron di Boccaccio: «Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire» (nona giornata, novella terza)1. Meno nota, ma comunque da non credere, è quella di Marco Polo, che ne Il Milione riporta l’avvistamento – al largo dell’isola orientale di Angaman – dei mitici Cinocefali, creature ancestrali dal corpo d’uomo e dalla testa di cane2. Involontaria, ma certo più distruttiva nelle esternalità prodotte, è invece quella di Orson Welles, che nel 1938 seminò scompiglio con l’adattamento radiofonico de La Guerra dei Mondi: l’annuncio fittizio dell’avvenuto atterraggio di alcune astronavi marziane sulla tranquilla cittadina di Grovers Mill, New Jersey, venne preso per vero dalla popolazione locale, che si abbandonò per alcuni giorni al panico generale. Quelle sul Papa, notizia di qualche mese fa, sono addirittura diventate un libro: Fake Pope. Le false notizie su papa Francesco (San Paolo Edizioni, 2018).

A leggere d’un fiato le righe qui sopra pare che la storia, da Calandrino a Papa Bergoglio, non sia altro un pullulare di bufale, fantasticherie, ridicolaggini, storielle perniciose fatte passare per pillole di verità. Con il linguaggio anglocentrico che caratterizza il nostro villaggio globale, le chiamiamo oggi fake news, termine ombrello e un po’ naïf sotto cui s’ingombra un’accozzaglia di bubbole, inganni, teorie del complotto, errori editoriali e bugie d’ogni sorta. 

Mai come negli ultimi anni se n’è tanto parlato, in un crescendo di iniziative e tavoli di discussione aventi per tema l’informazione bugiarda e il suo rapporto con la verità. Se ne parlerà anche nel corso di Festivalfilosofia 2018, in programma dal 14 al 16 settembre con un calendario ricchissimo di eventi nei comuni di Modena, Carpi e Sassuolo. Tema dell’edizione 2018: la falsa informazione, appunto, e il suo rapporto con la Verità, parola-chiave di quest’edizione e concetto oggi più che mai friabile, in crisi, lacerato dallo soffio sferzante delle falsità mediatiche.

L’incedere lento e taciturno del pensiero filosofico ci ha da tempo insegnato come ogni racconto della realtà porti necessariamente con sé un residuo tossico di menzogna, visione parziale sullo stato di cose, emulsione capziosa di materia reale e materia apparente. L’affresco forse più bello di questa condizione fenomenica dell’essere, sempre in bilico tra verità e finzione, lo troviamo in quel capolavoro cinematografico del 1950 che è Rashōmon, di Akira Kurosawa: la stessa storia raccontata da quattro persone diverse equivale a quattro storie diverse. Dove sta, allora, la verità? Dove la menzogna?

Un problema filosofico fondamentale dunque, la Verità, sul quale intere biblioteche sono state scritte e altre ce ne saranno da scrivere, soprattutto alla luce delle nuove potenzialità offerte dal digitale e della sua capacità di far passare per digesta la menzogna. Siamo nel 2013 quando il Global Risk Report del World Economic Forum (WEF) inserì proprio la diffusione della disinformazione digitale tra le principali minacce per gli ordinamenti politici, al pari di cyberterrorismo e fallimento della governance globale. Tre anni più tardi la conferma dell’Oxford Dictionary, che come parola dell’anno 2016 scelse post-truth, la “post-verità” di una realtà digitale ormai liquefatta, in cui «[…] i fatti oggettivi, chiaramente accertati, sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni e convinzioni personali»3. 

La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (Raffaello Cortina, 2017), del filosofo dell’Università di Oxford Luciano Floridi, è forse un primo, parziale tassello per cogliere la portata sovversiva della potenza digitale, che attraverso un inarrestabile processo di disintermediazione sta rapidamente smontando le fondamenta filosofiche su cui si basa il concetto di verità. In futuro sarà sempre più facile e sempre meno costoso produrre, distribuire e conservare informazione – vera, falsa, poco importa – e questa condizione di possibilità deformerà irreversibilmente l’editoria tradizionale, basata sulla verifica delle voci e sull’attendibilità delle fonti. Lo vediamo oggi dallo scontro letale che si sta consumando sul terreno scosceso delle fake news tra un giornalismo ormai conscio della crisi industriale che va sfiancandolo e le grandi piattaforme digitali, cresciute in maniera deflagrante nella più totale deregulation politica, e oggi minacciate dalle prime misure legislative volte a smontare l’enorme barriera del monopolio digitale.

In attesa di vedere se queste nostre speculazioni filosofiche si avvereranno o rimarranno finzione, non ci resta che sederci sulla riva del grande flusso digitale, limitandoci – almeno per il momento – ad aspettare Festivalfilosofia 2018, nella speranza che un pizzico di verità affiori spontaneamente dall’esercizio del pensiero.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. G. Boccaccio, Decameron, Roma, Laterza, 1927, p. 198.ù
2. Cfr. M. Polo, Il milione, Milano, TEA, 2008.
3. Oxford Dictionary.

[Credit Flipboard]

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Il filosofo in tv

Filosofia e televisione parrebbero due universi paralleli. Sarà perché la Filosofia non è proprio telegenica di natura: forse ciò è dovuto al medium (come direbbe McLuhan) o forse perché la Filosofia per natura è un po’ snob, elitaria e sicuramente non ama mischiarsi con il mezzo che è pop (ovvero popolare) per natura.

Così in TV la Filosofia c’è ma a piccoli dosi. Si veda quanto fatto in RAI: la RAI ha un paio di programmi esplicitamente e dichiaratamente filosofici. Stiamo parlando di Zettel e del suo spin-off Il caffè filosofico. Entrambi sono mandati in orari impossibili notturni e ora rilegati alle rete pedagogiche della RAI. Sempre a tarda notte e confinati tra le signorine calde e i film infiniti ungheresi. La Filosofia è una cosa per pochi, un lusso, un vizio. Per certi versi anche un feticismo: perché non saprei bene, da laureata in Filosofia, come e perché dovremmo preferire una lezione frontale su John Rawls ai film di RAI 3 o di RETE 4.

Comunque la televisione italiana ha accettato, e da quello che so è forse una delle poche nel panorama europeo, di buon grado la figura dei filosofi. Anzi del filosofo. Sto parlando in particolare di un filosofo. Il testimonial vivente della Filosofia che da vero corsaro assalta i diversi contenitori più o meno generalisti televisivi. Il nostro filosofo ha pure la barba folta come già gli Antichi Greci ci hanno insegnato essere un dettaglio essenziale. Se la toga non fa il monaco, la barba fa quasi sempre il filosofo.

Comunque molti non avranno letto i saggi del nostro filosofo, ma sicuramente il suo nome è noto anche a chi se pronunciate il cognome Kant, associa la bella e bionda Eva invece del nome del prussiano Immanuel.

Non c’è bisogno di presentazioni in questo caso. Ci basta menzionare la sua barba scura, gli occhi felini verdi, il cashmere giusto e la R moscia per sapere di chi stiamo parlando. Poco importa cosa abbia scritto di preciso, per tutti lui è il filosofo.

Stiamo parlando del filosofo della televisione italica. Ben diverso dai critici d’arte che popolano l’etere che si alternano tra iracondi e virili uomini e più rilassati e simpatici signori di mezza età. Il filosofo, invece, ha sempre due caratteristiche imprescindibili per il ruolo che veste e interpreta (benissimo) da anni in televisione.

La prima caratteristica è l’essere sempre in collegamento. Pochissime volte egli discende tra noi mortali e parla in studio con il conduttore o più spesso conduttrice adorante che lo guarda come il devoto prega e adula il dio aristotelico. Il dio di Aristotele è amato, ma Egli non ama nessuno indietro. Così il nostro filosofo vive sperduto da qualche parte, sempre altrove, sempre trascende il nostro spazio e forse anche il tempo. È una creatura leggendaria, un unicorno (come ora vanno tanto di moda), un essere misterioso che profetizza e parla del mondo che osserva disincantato. Non pare avere legami con la realtà che è banale, triviale e anche noiosa.

Infatti e qui arriviamo alla seconda qualità dell’uomo dalle infinite qualità, il filosofo sa. Sa tutto. Ha già da sempre detto, sentenziato e soprattutto la sua voce non pronuncia mai il falso. Il filosofo non erra mai. Non chiede scusa, non accenna al dubbio cartesiano o amletico o anche solo umano di poter non sapere qualcosa. Egli sa. Sempre.

Il filosofo è stanco, rassegnato, insofferente al mondo di uomini tanto stupidi, cretini come criceti su una ruota ferma, che tanto si affannano per sbagliare sempre. In continuazione. Il proverbio latino “Errare humanum est” è una peculiarità umana che stizza il filosofo che invece punta agli astri e non guarda il dito umano che pur sempre ha il merito di segnalare una cosa meravigliosa e bella.

Il filosofo, invece, è un uomo che è costretto a fissare non la Luna o le stelle, irraggiungibili come lui, ma questi esseri che sono fatti di carne e budella.

La sua posizione aldilà dallo schermo lo rende una creatura pressoché immortale. Un essere che non è legato al nostro mondo. O alle nostre regole. Egli è la creatura della trascendenza. Dell’oltre la soglia. Molto pitagorico tutto ciò: si narra, infatti, che il grande maestro solesse tenere lezioni ai novellini e discepoli da dietro una tenda perché quegli aveva passato la misteriosa soglia che rende il primo un saggio e gli altri ignoranti. Così il filosofo della tv italiana ci ricorda che se il mondo dello spettacolo è finzione e inganno, lui è ancora oltre a tutto questo.

Infatti la sua posizione u-topica (nel senso greco del termine, ovvero senza luogo) lo rende un personaggio unico nel suo genere del panorama televisivo. Egli c’è e non c’è.

Forse gli umani e spettatori non avranno tutte le risposte, ma sono esseri umani appunto che guardano al filosofo come il Mago di Oz si presentava all’ingenua Dorothy Gale. Nel celebre film del 1939 la piccola Dorothy una volta arrivata al cospetto del potente Mago di Oz si trova di fronte ad un enorme faccione. Un po’ come il nostro filosofo in collegamento. Solo grazie ad un imprevisto si scoprirà che anche il Mago, il potente stregone, altri non è che un uomo. Un uomo nemmeno tanto potente, ma solo tanto intelligente da far credere agli altri che lui poteva qualcosa che gli altri non credevano di saper fare.

In questo caso pensare.

 

Claudia Lisa Moeller

Claudia Lisa Moeller è nata a Milano nel 1992. Ha studiato Filosofia presso l’Università San Raffaele (Milano), dove ha conseguito la sua laurea BA e MA. Entrambe le sue tesi erano su Kierkegaard. I suoi temi di ricerca sono Kierkegaard, Hamann ed ermeneutica televisiva.

 

[Photo Credit: Cater Yang via Unsplash.com]

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Arte e giustizia: la Pop Justice e Leonardo da Vinci

L’immagine della giustizia è una non immagine. Già il maestro del cinema Stanley Kubrick aveva stigmatizzato questa questione: un fatto umano tanto centrale nella vita cognitiva dell’uomo non vive di immagini e ciò comporta un grosso limite per la sua comprensione. Di contro, comprendere il diritto e, di conseguenza, comprendere la giustizia, vuol dire interpretare la società ed anche dare valore concreto al principio secondo cui la pena deve avere anche una funzione general-preventiva (cioè essere rivolta alla società). Senza immagini resta una giustizia liofilizzata, una meta-giustizia.

Persino l’arte ha dovuto uscire dal suo stereotipo dematerializzato dell’antichità e del Medioevo (prima con le armonie geometriche delle statue di uomini ideali e poi con l’assolutamente sacro della scultura e della pittura); è avvenuto nel 1473 quando Leonardo da Vinci ha disegnato il suo Paesaggio con fiume, che ha segnato il definitivo passaggio delle arti figurative verso una nuova dimensione paragonabile a quella che propose filosoficamente Heidegger nel 1927 con Essere e tempo ed il suo esser-ci come “progetto gettato” (nel mondo). L’uomo non vive fuori dal suo contesto. La storicità del proprio tempo, la condizione soggettiva, la sua “geolocalizzazione”, sono tutti elementi decisivi per l’espressione e la comprensione dell’essere e dunque del fare. L’arte lo ha compreso nel Rinascimento: l’individuo va collocato nel paesaggio, diversamente resta un meta-individuo.

La giustizia, come accennato, ha sempre difettato di immagini, ancorché il pubblico sia attratto dal giudizio e dal crimine: in parte come voyeurismo verso “il male”, in parte per controllare l’operato del giudizio, così da capire se gli uomini, chiamati a giudicare i propri simili, svolgono correttamente la loro funzione. La mancanza di immagini della giustizia ha portato la medesima a rappresentarsi in due modalità differenti: mediante il suo lato più crudele (Giordano Bruno bruciato in Campo dei Fiori o le moderne “manette in mondovisione”) oppure in modo caricaturale (Kafka e Manzoni in letteratura o Kubrick e Alberto Sordi nel cinema). Neppure l’avvento massificato dei media aveva realmente creato immagini che consentissero di avere una cognizione piena del funzionamento della macchina giudiziaria. La giustizia mediatica è stato uno strumento del consenso per l’attività dello jusdicere ma non ha mai rappresentato il suo reale funzionamento. Il capitalismo sfrenato del Duemila, che ha superato quello della produzione industriale, così mercificando anche i suoi valori e disvalori (in questo caso la giustizia ed il crimine) e dunque superando le tesi marxiane che si attestavano sulla “mercificazione delle merci” come prodotti industriali, ha creato “Il Paesaggio con Giustizia”, in una riedizione in chiave processuale del disegno rinascimentale di Leonardo.

È l’avvento della Pop Justice, la “giustizia-merce” fatta di spot pubblicitari e immagini. Questa forma di giustizia ha abbandonato il “processo vero” (cosa che non aveva fatto la giustizia mediatica) e ha trasformato le vicende giudiziarie in libri gialli a puntate, dove il colpevole non è quello che emerge dall’aula ma dal sentire popolare; e la vicenda è quella del fumetto costituito dalle immagini televisive e dai post sui social network. È del tutto evidente che questa giustizia pop non vive delle regole del codice, ma vive di altro. È accaduto quanto avvenne con “la svolta paesaggistica” di Leonardo che ha sfilato il meta-uomo e l’essere divino dall’arte, per calare il soggetto nel “suo mondo”, senza distinzione tra individuo e paesaggio. Questa non è solamente una mossa estetico-artistica ma una svolta cognitiva. È l’affondo al problema della giustizia come individuato da Kubrick. Assai spesso l’aula del tribunale smaterializza il diritto quando invece le scienze neuro-cognitive hanno un approccio heideggeriano. Per questo la giustizia rischia di non essere recepita come giustizia giusta. La Pop Justice è come il quadro di Leonardo. Ma il paesaggio della giurisdizione cambia. Diventa un thriller da libro giallo.

Luca D’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]

The Young Pope: Sorrentino sui limiti della Chiesa di papa Francesco

Un papa che fuma in continuazione. Una suora, che lo ha cresciuto, appassionata di basket e che come pigiama indossa una maglia con la scritta “I’m virgin, but this is a very old shirt”. Un cardinale di stato tifoso sfegatato del Napoli, che va su tutte le furie se qualcuno allude alla dipendenza da cocaina di Maradona. Come sempre Sorrentino calca la mano sulle assurdità dei suoi personaggi, per renderli più umani, più vicini. Ma The Young Pope, la sua nuova serie tv, è anche una riflessione, seria e profonda, sulla Chiesa.

Al centro dell’opera vi è Lenny Belardo, eletto a 43 anni al soglio pontificio. Malgrado la giovane età, Lenny ha delle idee conservatrici: è duramente contrario all’aborto, vuole cacciare gli omosessuali dalla Chiesa e ristabilire la messa in latino. Il papa di Sorrentino sembra quasi istaurare un dialogo a distanza con Papa Francesco, per negare tutte le sue modernizzazioni.

Infatti sin dalla scelta del nome, papa Francesco ha inaugurato una Chiesa di amore e misericordia, che ha affrontato temi tabù per aprirsi alla modernità e risultare accogliente per tutti. Una scelta vincente, visto che Francesco ha invaso televisioni e giornali, risultando ad esempio l’uomo più amato dagli italiani nel 2014.

Eppure la Chiesa è davvero cambiata? Prendiamo le ormai famosissime dichiarazioni di Bergoglio sull’omosessualità: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». La frase è stata letta come una storica apertura, peccato però che nel recente dibattito riguardo alla legge sulle unioni civili in Italia il cardinal Bagnasco abbia parlato del rischio di «compromettere il futuro dell’umano» e lo stesso Francesco abbia affermato «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione».  Ecco allora che la bella e potente frase rimasta nella memoria di tutti assomiglia più a uno slogan vincente che a una nuova linea della cristianità.

Concentriamoci ora sulle alcune dichiarazioni ancora più recenti, tramite cui il pontefice ha permesso a tutti i sacerdoti di assolvere l’aborto. Anche questa è stata letta come un’apertura memorabile, ma basta soffermarsi un secondo sulle parole di Bergoglio per capire che la condanna della Chiesa all’interruzione di gravidanza non è cambiata poi molto. Nel suo discorso Francesco ha infatti precisato «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente». La condanna della Chiesa quindi non è mutata, semplicemente si è concesso un paternalistico perdono alle donne incappate in questo “grave peccato”.

Il punto insomma è che la Chiesa di Belardo, nel suo rigore fuori moda, appare molto più coerente di quella di Francesco, che cerca di correre verso la modernità senza muoversi davvero. Le dichiarazioni di Bergoglio sembrano spesso un modo per nascondere dietro una vernice colorata una sostanza che permane immutata. Francesco presenta una Chiesa che si sforza di accogliere tutti con contenuti facili. Pensiamo per esempio al discorso in piazza San Pietro in cui parlò della misericordina, una scatola a forma di medicinale contenente un rosario e la presentò come una medicina necessaria allo spirito. Banalizzare in questo modo i contenuti per renderli appetibili a tutti, trasformando il concetto di misericordia in una trovata pubblicitaria, probabilmente attrae più fedeli in piazza, ma rischia di mettere in secondo piano il vero contenuto della Chiesa, il senso del sacro.

Lo stesso Belardo nella serie tv afferma «le pubbliche piazze sono riempite, ma non i cuori». Pio XIII insiste per avere una Chiesa amata da meno persone ma con più intensità, che metta al centro il mistero perché il dubbio e la sofferenza sono necessarie per cercare Dio. Il rischio di una chiesa così pop è che questa sia abbracciata superficialmente da un gran numero di persone, ma sentita da poche. È un pericolo che anche alcuni all’interno della cristianità stanno avvertendo, come il cardinale Burke che, mettendo in dubbio la linea perseguita dal papa, afferma «La fede non può adeguarsi alla cultura, ma deve richiamarla alla conversione. Siamo un movimento ‘contro culturale’, non popolare».

 

Lorenzo Gineprini

 

[Immagine tratta da una scena della serie]

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Evgeny Morozov: internet, la nostra privacy e i signori del silicio

Un guastafeste, un bastiancontrario. In quarta di copertina del suo nuovo libro Silicon Valley: i signori del silicio, Evgeny Morozov è descritto proprio come quello che arriva tardi a una serata e rovina il divertimento, e la festa è la Silicon Valley. Ha l’aria tranquilla di chi sa di sapere, rimane seduto con le gambe accavallate senza scomporsi mai, ma quando tocca a lui non le manda certo a dire, ai colossi californiani soprattutto. Il sociologo bielorusso, giornalista e saggista, 32 anni, già quattro libri pubblicati in Italia, è considerato come uno dei massimi tecnoscettici, parola con cui si vorrebbero comprendere molte cose e che non vuol dire niente. Quel che si può dire, specificando meglio, è che Morozov è un esperto e studioso dei nuovi media e di internet, è molto critico riguardo il nuovo tipo di capitalismo sdoganato dalle aziende della Silicon Valley e riguardo l’uso che fanno e che potranno fare dei nostri dati. Se questo è essere tecnoscettici, allora sì, lo è, e molto.

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Comunque sia, l’incontro e il dibattito che ha tenuto al Teatro Comunale di Ferrara il primo ottobre durante il Festival di Internazionale era gremitissimo, con molte persone in coda già un’ora prima dell’inizio. L’incontro si chiamava Fatti nostri con il sottotitolo Privacy, diritti e libertà ai tempi dei big data, ed era inserito non a caso nella categoria diritti. Morozov avrebbe dovuto dialogare con Stefano Rodotà, che ha rinunciato però all’ultimo. A rimpiazzarlo Paul Mason, giornalista del Guardian e autore di Postcapitalismo, da poco uscito in libreria. La discussione è stata così più tecnica e basata sulle implicazioni politiche ed economiche della tecnologia odierna. L’ora e mezza è stata densa di temi e il dialogo (in inglese) molto serrato, tanto che le traduttrici a fatica riuscivano a stare dietro al ritmo con cui le parole di Morozov uscivano dalla sua bocca. L’assunto da cui partono e concordano sia Mason che Morozov è la visione di internet come di uno spazio (cyberspazio) scollegato dalla realtà, un posto speciale e in quanto tale con regole proprie, invece che una semplice, ma nuova, infrastruttura. Di fatto, spiega il sociologo, questo permette alle nuove aziende che operano in questo scenario, vedi Uber e AirBnb, di sfruttare la deregolamentazione che esiste in materia, non sottostando alle leggi normali. E inoltre di rispondere alle accuse che vengono mosse nei loro confronti ergendosi a paladini di internet, gridando alla censura, come se pretendere delle regole mettesse in discussione la libertà stessa di queste aziende e della rete. Morozov infatti mette in guardia dalla retorica che ci fa credere che le innovazioni tecnologiche, tutte, siano sinonimo di progresso e che le critiche ai punti oscuri del nostro mondo digitale (e ce ne sono) siano invece ostacoli, tacciando chi le formula di essere antiprogressista. Quello che auspica Morozov e che trova d’accordo anche il suo compagno di palco è quindi innanzitutto una regolamentazione democratica dello spazio cibernetico, inteso sia come contenuto che come struttura di internet.

 

Internazionale_ferrara_2016_la Chiave di Sophia-01Altro snodo cruciale sono poi i big data e le intenzioni che hanno a riguardo i nuovi giganti del capitalismo. Tema di attualità poiché siamo veramente solo all’inizio della raccolta e dell’utilizzo dei dati, e caro a Morozov che ne parla per esteso anche nel suo ultimo libro. La sua tesi è che tutti i servizi gratuiti o quasi che ci offrono aziende come Facebook, Google, Amazon, ma anche Spotify (come anche tutte le iniziative umanitarie sempre opera di questi colossi nel terzo mondo), non ci sono dati perché abbiamo a che fare con un nuovo tipo di capitalismo felice e inclusivo, e con gente che fa filantropia, anzi. Abbiamo a che fare con un’altra faccia del vecchio capitalismo che, impreziosito dalla retorica dell’infallibilità e del bene comune, in cambio di servizi si prende i nostri dati, ovvero la nostra privacy. Fin qui nulla di trascendentale, se non che l’enorme massa di dati che vengono processati ogni giorno da Facebook e Google, tra gli altri, hanno lo scopo di essere monetizzati, spiega Morozov. Quindi il miglior offerente si accaparrerà le nostre informazioni per mostrarci la pubblicità più adatta a noi al momento giusto. O i dati finiranno in mano di banche e assicurazioni, che sapranno meglio di noi quanto valiamo e se siamo o meno affidabili. Il problema è quindi non solo digitale ma politico ed economico, e il dibattito secondo Morozov deve spostarsi su questi piani per poter vedere e contrastare le implicazioni di questo tipo di mercato. Se questo è l’inizio Morozov immagina come, grazie ai nostri dati, le aziende possano impadronirsi poco alla volta del settore pubblico: dalla sanità via app, ai trasporti appaltati ad Uber fino ai MOOC (corsi online) al posto delle università. E se non si fa qualcosa saranno proprio lo stato e le città ad affidare ai privati queste incombenze. Il potere politico si sposterà quindi dai parlamenti ai consigli di amministrazione. Per il sociologo la partita inizia dai dati ma può mettere in crisi il welfare e lo stato sociale per come lo conosciamo oggi. E allora la nostra privacy sarà diventata un servizio a pagamento e non un diritto; è questo il pericolo più grave. Di fronte a tutto ciò Morozov afferma che c’è bisogno di un’alternativa statale e pubblica al monopolio delle aziende di big data, solo in questo modo potremo essere sicuri che i nostri dati siano usati realmente per il bene della collettività e non solo per generare profitti. Rispondendo infine abbastanza accalorato all’ultima domanda dal pubblico, rivolge alla platea un’altra domanda: “Vogliamo davvero che tutti i minimi aspetti delle nostre vite siano gestiti da Google tramite i nostri dati? Io no.” A noi la parola.

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Tommaso Meo

[Immagini di proprietà de La chiave di Sophia]

Identikit del crimine (mediaticamente) perfetto

<p>Close up crime scene investigation police boundary tape</p>

Di recente è stata emessa la sentenza in primo grado del processo contro Massimo Bossetti, accusato di omicidio. Al di là del significato specifico dell’evento di cui si è parlato anche troppo e che qui non ci interessa discutere, esso mi ha portato naturalmente a riflettere su l’interessante rapporto tra mezzi d’informazione, cronaca nera e pubblico. Siamo partiti dal caso Bossetti perché, come tutti i crimini che suscitano per anni interesse mediatico, ha un valore rappresentativo ed emblematico. Trovo un fatto curioso che certi fatti di cronaca emergono prepotenti su altri fino ad entrare nell’immaginario comune, il quale, in un certo senso, li ha eletti. Non penso si possa attribuire ciò alla scelta completamente arbitraria dei giornalisti, sembra anzi sottesa una logica molto simile alla dialettica domanda/offerta che anima il libero mercato. Esistono cioè delle dinamiche e delle situazioni che favoriscono il successo mediatico di certi crimini su altri. Vediamole insieme.

Regola N.1: Il crimine deve essere spregevole e infame, la persona mediocre.
Se l’identikit del criminale è quello – banalmente – di un criminale, l’interesse non supera al massimo un paio di giorni. Se esso invece combacia con quello del vicino di casa, così normale e anonimo che tutti abbiamo, allora nessuno è al sicuro. La paura è però filtrata e sopportabile: ci fa venire i brividi, ma da lontano.

Regola N.2: Un colpevole deve esserci, ma non subito.
Se l’assassino viene colto in flagrante, si costituisce o simili, i media non hanno più novità da centellinare, niente retroscena, rivelazioni improbabili, testimoni dell’ultima ora e mitomani dilaganti. Di conseguenza l’interesse scema. Se al contrario l’assassino si tarda a trovare e infine il crimine irrisolto, lo scandalo per l’inefficienza delle forze dell’ordine viene oscurato dall’assenza di novità. Il pubblico si annoia.

Regola N.3: Uno sfondo ideologico ha valore fondamentale a fini mediatici.
I simboli hanno il potere di rendere un fatto di cronaca qualsiasi qualcosa di metastorico, il cui significato resiste in un certo senso al consumo dello spettacolo. Essi mantengono forte presa sulla nostra immaginazione, e hanno il potere di appassionarci molto più dei meri fatti. Su episodi dal forte quoziente ideologico la classe politica si sentirà in dovere di esprimersi, e il popolo dovrà a sua volta intervenire e schierarsi in base a quanto indicato dai politici. In questo caso la ruota dello spettacolo si mantiene in moto da sé.

Regola N.4: Tempismo.
Anche Jack lo Squartatore sarebbe stato eclissato da una vittoria ai mondiali di calcio. Il crimine mediaticamente perfetto avviene nei caldi pomeriggi di agosto.

Regola N. 5: Il fattore X.
Poiché questo tipo di informazione si fonda sull’appeal mediatico che il fatto suscita, non tutto si riesce a spiegare razionalmente. Alcuni elementi riposano sul fondo oscuro dell’immaginario comune: alcuni tratti fisici, alcune situazioni – variabili per latitudine e contesto storico – colpiscono e perturbano oltre quanto riesce facilmente spiegabile, risultando così l’ingrediente segreto della ricetta qui brevemente abbozzata.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

Reddit e un romanzo horror: un mistero social o un caso letterario?

Di misterioso in questa storia c’è molto. A partire dal social network in questione: Reddit. Un oggetto non indentificato credo per la maggior parte degli italiani, ma non siamo soli, dato che la stragrande maggioranza del traffico che registra proviene dagli Stati Uniti, ma pare che anche in Australia vada forte. Intanto Reddit non è propriamente un social network, ma un social news. Si autoproclama the front page of internet per la velocità con cui propaga le notizie ed è un aggregatore dei più svariati contenuti. Gli utenti registrati (in maniera anonima solo con un nickname) possono postare link, messaggi di testo, gif animate o foto che in base all’indice di gradimento dato dagli utenti scalano la classifica della home page. Le cose giudicate più interessanti diventano quindi più visibili. Portate pazienza, all’apparenza non è così semplice ma dopo un po’di abitudine il meccanismo diventa comprensibile. La caratteristica di Reddit sono i subreddit, e cioè delle specie di forum creati dagli utenti e dedicati alle più diverse, e in molti casi specifiche cose. Ce ne sono moltissimi e per ogni gusto, letteratura, cinema, matematica, ma la cosa sorprendente è come un macro tema venga segmentato in tanti aspetti più particolari così da poterne discutere meglio.

Reddit è un social veramente strano ma, da neofita estremamente stimolante, perché si può leggere e imparare di tutto, volendo postare idee e contenuti e interagire, commentando, con persone che molte volte sanno quello che dicono (si non proprio come Facebook). Ah Reddit è la contrazione di Read e Edit (leggi e scrvi).
Questo excursus per dire che io neppure (seppur sapendo della sua esistenza) mi ero mai avvicinato a Reddit, ritenendolo una cosa troppo da nerd anche solo da provare, fino a che una storia non mi ha fatto incuriosire.

Andando a cercare e a leggere di qua e di là ho scoperto che non è la prima volta che da questo strano prodotto dell’internet emergono storie strane. Alcune molto inquietanti, e hanno a che fare con video lugubri pieni di segni e simboli macabri, altre che si sono rivelate essere solo campagne pubblicitarie sempre opera di quei geni degli americani. Insomma non è una novità che dalla front page di internet emergano cose curiose, ma questa storia è particolare, almeno finché non si scoprirà anche questa appartenere a un nuovo format di pubblicità.

Il 21 Aprile un utente che usa come nickname il nome  _9MOTHER9HORSE9EYES9, inizia a postare nei commenti ad alcune discussioni quella che sembra una storia. Commenti apparentemente slegati, e non inerenti ai temi di cui si tratta. Si parla di un programma segreto della CIA che prevedeva la somministrazione di LSD come base di studio, della guerra del Vietnam, della seconda guerra mondiale e del campo di concentramento di Treblinka, tra le moltissime altre cose. Ma soprattutto l’utente anonimo cita le flesh interfaces, ovvero interfacce di carne: dei portali (fatti di carne appunto) che permettono il passaggio, non senza conseguenze, ad un’ altra dimensione, e di come furono creati e usati. Una storia di sci-fiction, dalle punte horror, apparentemente sconnessa, e narrata da vari punti di vista e ambientata in diversi contesti temporali. Molto misteriosa, molto intrigante. Alcuni utenti di Reddit la trovano molto interessante e vi si appassionano, e nel frattempo gli episodi di quella che è stata ribattezzata The Interface Series continuano. Il racconto riunisce teorie del complotto, elementi di terrore e altri di fantascienza; alcuni dicono sia ispirato a Lovecraft, a Phil K. Dick, altri che sia solo un racconto del genere creepypasta: ovvero un tipo di storie horror che hanno a che fare con leggende metropolitane o controversi episodi storici che girano molto su internet. Sta di fatto che il numero di post cresce di giorno in giorno così come gli appassionati, che creano un subreddit per seguire lo sviluppo della vicenda e organizzare i commenti di 9M9H9E9 in ordine cronologico, commentarli e scambiarsi opinioni. La storia ora consta di 82 mini episodi e la community conta seimila iscritti.

Mistero alimenta mistero e il nostro fantomatico autore si mostra egli stesso con un messaggio, sempre su Reddit, poi cancellato, nel quale dichiara di essere un normale uomo americano sulla trentina, con un passato (e un presente?) di droghe. In un altro quasi chiede scusa per il modo in cui la sua storia sta emergendo dalle pieghe della rete ma, dice, non ha trovato nessun altro modo per far leggere il suo racconto in modo che la gente ne fosse incuriosita, e aggiunge che le cose che scrive non sono finzione, sono fatti accaduti veramente o molto verosimili.

Ecco, a prescindere dal valore letterario della scrittura, che io non mi sento in grado di giudicare, ma che alcuni ritengono di buon livello e altri  solo di medio, quello che racconta (per quello che ho letto finora) è estremamente interessante. Sembra un viaggio nel tempo nella storia, da quella più remota a quella più prossima, in un turbine di invenzioni, cambiamento di luoghi, tempi e narratori. Come ha scritto qualcuno: pare di leggere un racconto enciclopedico, Wikipedia che si è fatta un acido. L’elemento più sorprendente e catalizzatore, ovvero queste interfacce-portali di carne, probabilmente è un novello Mc Guffin: un trucco con il quale si concentra l’attenzione su un oggetto secondario per poi parlare d’altro, e cioè di quello che interessa davvero (tecnica usata da Hitchcock e Trantino per il cinema).

Comunque stiano le cose e di qualsiasi cosa tratti veramente questo racconto, se diventerà un caso letterario o solo le esternazioni di un pazzo, la sua peculiarità è stato il modo con cui l’autore ha deciso di raccontarsi. Semplicemente ha sfruttato un social e la passione e la curiosità dei suoi utenti, famosi per essere amanti dei misteri e un po’ paranoici delle cospirazioni. In questa tecnica io ci vedo un po’ l’antico romanzo a puntate, che usciva sui giornali, aggiornata ad un’era in cui i nuovi quotidiani sono in rete. Inoltre questo modo permette di mantenere alta l’attenzione del pubblico, come una serie tv, che però diventa parte del romanzo in formazione, impegnandolo a scovare e rimettere insieme i pezzi della storia. Poi una storia così frammentata, senza una vera trama lineare, si presta bene di per sé a questa segmentazione: si possono contare fino a sedici narratori diversi e molteplici cambi di prospettiva. I fan hanno anche creato un audio libro e un ebook per garantire una migliore e più semplice lettura.

La domanda a questo punto è: è questo il futuro della letteratura o solo un caso isolato e particolare? Propenderei per la seconda, ma l’interesse che ha suscitato fa pensare che non si possano escludere emulatori o altri innovatori. Intanto c’è solo una cosa da fare: aspettare che venga messo il punto all’ultimo capitolo di questa strana storia.

Tommaso Meo

(immagini tratte da Google immagini)

 

Balotelli, l’ultimo dei romantici

Ieri sera si è giocata Udinese Milan, prima da titolare nella sua nuova avventura al Milan per Mario Balotelli, figliol prodigo atterrato a Malpensa questa volta con l’etichetta di oggetto misterioso, e subito sotto, sulla confezione regalo, un’altra scritta che recitava “last chance”, con tanti saluti da Liverpool.

A Mario bastano però solo cinque minuti per riaccendere la luce sul palcoscenico della sua carriera. Punizione dai venti, venticinque metri. Rincorsa corta e destro potente a girare, con la palla che finisce la sua corsa nell’angolo alto alla destra di un Karnezis immobile.

Io non sto seguendo la partita e vedo il replay del goal su internet praticamente in diretta e mi chiedo: è questo un momento-Mario? È un (altro) punto di svolta nella breve ma già abbondantemente ondivaga carriera di Balo? Cosa significa questo bellissimo goal? È giunta finalmente la redenzione, la maturità personale e calcistica che tutti si aspettavano da lui? Oppure non significa niente e sarà solo un altro fuoco di paglia, con i giornali che si scaglieranno sulla prima bravata del numero 45, e l’inizio di una nuova stagione deludente e tormentata?

Queste domande me le sono fatte io ma penso se le facciano un po’ tutti gli amanti del calcio, tifosi milanisti in primis. Per me è stato un altro tassello della mia storia d’amore travagliata con Super Mario, sbocciata in tenera età -di entrambi- tifando Inter. Il gol all’Udinese è una rete da fuoriclasse (come si chiamavano una volta), di un fuoriclasse che spesso si dimentica di esserlo, per molti motivi difficili da rintracciare e spiegare compiutamente da gente che non abbia uno straccio di laurea in psicologia. E allora cosa è andato storto e cosa nel verso giusto nella carriera di un giocatore capace di far innamorare e farsi odiare in egual maniera? Un calciatore che al giorno d’oggi divide -in Italia sì, ma chiedete anche in Premier- come pochi altri. Ne faccio esperienza quasi quotidiana con i miei amici: chi lo incensa e chi lo definisce sopravvalutato, spesso per partito preso più che sulla base di dati oggettivi; e come in ogni storia di alti e bassi talvolta prevalgono gli uni, talaltra i secondi. Dipende da dove tira il vento e dove tira lui.

Ho scritto nel titolo che Balotelli è l’ultimo dei romantici e intendo sia in senso letterario che calcistico. Se la vita di Mario fosse un libro sarebbe sicuramente un Bildungroman (romanzo di formazione) di metà Ottocento, alla Foscolo o Goethe, bello lungo, nel quale però a metà racconto questa benedetta formazione non pare arrivare; o meglio sembra si arrivare ma non arriva mai.

Anche perché Mario a 25 anni di vite ne ha vissute già fin troppe: dall’affido alla famiglia Balotelli a Brescia da parte dei genitori ghanesi, alle giovanili nel Lumezzane e all’esordio in Seria A a 17 anni con l’Inter. Da lì non è più stato un giocatore normale. Grandissimo talento controbilanciato da problemi comportamentali dentro e fuori dal campo che dividono l’opinione pubblica. Mario è un caso quando subisce insulti razzisti dai tifosi, quando gioca male o quando reagisce a provocazioni in campo. I media contribuiscono montando storie su ogni cosa che lo riguardi. Diventa così ancora giovanissimo un’icona e uno dei personaggi più chiacchierati e discussi del panorama sportivo e non solo. Vive di alti e bassi, momenti esaltanti alternati a periodi bui e bravate, sempre puntualmente rinfacciategli da giornali e tifosi. Ma la storia di Mario è fatta di montagne russe, vittorie, fallimenti, grandi occasioni buttate e nuove occasioni da sfruttare. Per questo mi sento di paragonarlo all’archetipo dell’antieroe letterario, in balia della sua personalità contrastata, che rischia di oscurarne il talento, e delle alterne fortune. Romanzescamente fa’ fortuna, vince (Inter e Man City), ma poi cade e delude. C’è sempre chi è pronto a scaricarlo e chi a dargli una seconda possibilità.

In un calcio moderno di star e giocatori fisicamente perfetti, automi strapagati e duri da incrinare, Balotelli incarna il ruolo del giocatore-divo nella sua versione piena di contraddizioni, prima personali-caratteriali e dunque calcistiche. Coniuga le due facce della medaglia come pochi negli ultimi decenni. Rare volte si era vista una giovane promessa così frequentemente sul punto di esplodere, ma puntualmente tornata sui suoi passi. Un giocatore dal potenziale che a inizio carriera non si faticava a definire illimitato. E come tutte le cose vaghe e indefinite, come diceva Leopardi, questo eterno incompiuto ci stuzzica assai. Moltissimo si è scritto e detto sul talento inespresso e sulle potenzialità del giocatore Balotelli che andando avanti nella sua carriera è sempre più diventato un facile bersaglio se le cose andavano male e un nome da titolone in caso contrario. Romantico quindi perché in conflitto, con se stesso e col mondo; e perché anche il suo modo di giocare -da molti criticato soprattutto tatticamente- è prettamente figlio dell’emozione, della voglia di stupire e confermare prima di tutto a sé che non è un giocatore normale. Colpi estemporanei, imprevedibili e incalcolabili che stonano con i tatticismi ad oltranza odierni. Goal di stordente forza mista a bellezza: vedi i due contro la Germania nella semifinale degli Europei del 2012; altro momento-Mario, forse il punto più alto finora della carriera di Balotelli, e la sera nella quale ho pensato che si finalmente era arrivato il SUO turno. Lì doveva spiccare il volo, ma anche quel momento durò una notte.

Veniamo al problema di fondo che ci pone di fronte il ritorno di Balo al Milan, dopo un’annata molto deludente al Liverpool, e il suo primo goal in Seria A 2015/2016. Può Mario Balotelli, ultimo discendente della tradizione romantica trovare un suo posto nel mondo del pallone di oggi o rimarrà un anacronismo, un giocatore dalle gesta folgoranti, ma in definitiva impalpabile? E se un posto per lui c’è, e fidatevi che c’è, come fare per ottenerlo e tenerlo stretto. A parer mio Mario non può né dovrà rinnegare la sua natura, bensì bisognerà inserirlo in un contesto diverso, che lo protegga, valorizzando i suoi colpi all’interno di un sistema di gioco che non gli richieda di improvvisare sempre, ma senza negarglielo a prescindere. Lui deve solamente avere di nuovo voglia di dedicarsi al calcio e trovare costanza di rendimento e fiducia, tutto il resto viene dopo. Perché come disse un mio caro amico: “Non venitemi a dire che Balotelli è scarso”.

Io, comunque vada, continuerò a seguire le gesta di Mario sperando trovi finalmente la zolla giusta perché, in fin dei conti, che gusto c’è a stare dalla parte di chi vince sempre?

Tommaso Meo

[immagine tratta da Google Immagini]