Non dovremmo essere fedeli come i cani

Dovremmo imparare a essere fedeli come le arvicole della prateria, non come i cani. I cani amano un padrone per abitudine: se lo ritrovano in custodia e guarda caso questo padrone è anche un distributore automatico e gratuito di cibo. E così diventano fedeli. Stanno al suo capezzale se sta male, lo riconoscono e lo cercano con devozione, certo, ma sotto sotto c’è un po’ di opportunismo evoluzionista.

Ma cosa sono invece queste arvicole della prateria? Dei roditori, dei piccoli criceti che si amano alla follia e praticano la monogamia più dei cristiani.

Secondo uno studio pubblicato su Nature, condotto presso la Emory University ad Atlanta, in Georgia, il desiderio di fedeltà e della classica “relazione stabile” deriva da un collegamento nervoso, che rafforza gli scambi tra l’area decisionale e quelle della gratificazione e del piacere. Ho scritto “desiderio di”! Non “obbligo di una relazione stabile”. Perché ormai la stabilità è vista come una gabbia, un matrimonio che ci costringe alla fedeltà (almeno a quella manifesta e dichiarata).

Invece questi piccoli roditori − e anche qualche sporadico caso nel mondo − sentono proprio il desiderio di stare con un loro simile, e uno soltanto. Di amare quello e basta.

In questo caso il cuore non c’entra niente: l’amore non sta lì dove passa il sangue che viene pompato nel resto del corpo. Quello batte, continua a battere e al massimo cambia ritmo. Ma è un ritmo dettato dal cervello, dai nostri condizionamenti e da quel flusso più o meno inconscio di pensieri che ci accompagnano in ogni istante della giornata.

Quando un pensiero è piacevole, l’area del cervello della gratificazione si accende, lavora, intensifica le trasmissioni tra neuroni. Cresce.

I ricercatori statunitensi hanno analizzato le connessioni nervose degli esemplari femmina di quei criceti, in particolare tra la corteccia prefrontale (che riguarda la sfera decisionale) e il “nucleo accumbens” (ovvero il centro della gratificazione e del piacere). Dai risultati di questo studio è emerso che più le due aree comunicavano tra loro, più la femmina desiderava una relazione duratura con il maschio.
E quindi? Quindi più le scelte che si prendono portano anche piacere e gratificazione, più la relazione sarà duratura. Non è scontato. C’è di mezzo una stretta connessione tra le scelte che si fanno per se stessi e il relativo benessere che ci portano. Se scegliamo per noi e questo ci porta un grande piacere, di conseguenza aumentano le probabilità di una relazione monogama, e per di più felice.

Poi bisogna vedere se il cervello delle arvicole della prateria funziona come quello degli esseri umani.

Dai test su questi roditori è comunque emerso che la base fisiologica dell’amore e della fedeltà si trovano nel cervello. Quindi è un amore che passa per la decisione, per la scelta. Non una fedeltà da cani, legata all’abitudine e alla ricerca di un padrone. No, niente di tutto ciò, nessun padrone in amore, ma solo decisioni rafforzate dal piacere.

Questa potrebbe essere insomma una delle chiavi per risolvere i problemi di coppia. Smetterla con ‘sta cosa della monogamia per forza, per promessa o per morale. Quella non porta alcun legame con la gratificazione. Buttiamoci invece nelle scelte personali, consapevoli, libere e assaporiamo il piacere che ne deriva.

Perché non è detto che funzioni come sosteneva Goethe: «La fedeltà è lo sforzo di un’anima nobile per uguagliare un’altra più grande di lei.» La scienza alcune volte spazza via anche le frasi più romantiche, i racconti a cui era bello credere. Non ci sono anime di serie A e di serie B. Ci sono decisioni e responsabilità da cui derivano emozioni e sentimenti. E pure il battito del cuore a cui siamo tanto legati in amore.

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

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Sibilla Aleramo, “Una donna”

Ogni opera letteraria è un messaggio che deve incontrare i propri lettori, e questo destino non è mai prevedibile. Una donna (1906), romanzo d’esordio di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960), dopo un discreto successo e un lungo periodo d’oblio, fu riscoperto nel 1975 e incontrò un nuovo, straordinario favore di pubblico perché i tempi erano più favorevoli: i temi apertamente femministi che l’autrice aveva anticipato di molti decenni erano adesso oggetto di un dibattito acceso.

Una donna  elabora in forma di romanzo le esperienze giovanili dell’autrice. Da subito ci viene incontro una figura vivace e aperta al mondo: «La mia fanciullezza fu libera e gagliarda», una ragazza affascinata dal padre, che vede come un esempio di forza e indipendenza, mentre non trova mai una sintonia con la madre debole e sottomessa al marito.

Quando il padre accetta la proposta di dirigere una fabbrica in un paese del sud, la protagonista è entusiasta, e dà una mano in ufficio nonostante la giovanissima età, creando scalpore in paese, dove «regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia tra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli, tranquillamente; molte madri sopra tutto subivano sevizie in silenzio, (…) l’ipocrisia era stimata una virtù. Guai a parlare contro la santità del matrimonio e il principio della autorità paterna! Guai se qualcuno si attentava pubblicamente a mostrarsi qual era!».

Ma il padre ha una relazione con un’altra donna: la moglie, quando lo scopre, tenta il suicidio gettandosi da una finestra. Sopravvive, ma una forma di demenza progressiva impone il suo ricovero in un manicomio.

Intanto la protagonista, nemmeno sedicenne, è attratta da un giovane impiegato della fabbrica: le loro schermaglie si risolvono un giorno quando «accanto allo stipite d’una porta (…) fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: delle mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava».

L’unica soluzione è un matrimonio “riparatore”, ma ben presto la protagonista scopre quanto il marito è meschino e incapace di capire la sua personalità. L’unica consolazione è la nascita di un bambino, su cui la ragazza riversa tutto il suo affetto.

La vita famigliare risulta noiosa, soffocante, finché la protagonista, corteggiata a una festa da un giovane uomo, finisce per rispondere alle sue attenzioni dopo averlo inizialmente respinto. Scoperto il fatto, il marito la maltratta e la segrega in casa finché lei, in un momento di sconforto, tenta il suicidio ingerendo del laudano.

Si salva, e la famiglia si sottrae alle chiacchiere trasferendosi a Roma. Lì la protagonista, sempre più convinta di doversi esprimere anche al di fuori della famiglia e conquistare una vita indipendente, collabora con una rivista femminile. Il marito la ostacola, e quando lei propone di separarsi, lui la ricatta rifiutando di lasciarle il figlio. Ma quando lei scopre che il marito ha una relazione con un’altra, se ne va comunque. Il libro che ha scritto forse permetterà al figlio, un giorno, di capire la sua scelta e il tormentato cammino che l’ha portata a quel passo: «Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore!».

Una storia autobiografica, dicevamo; ma, per l’autrice, un esempio di vita nel quale altre donne possano riconoscersi. Il titolo stesso, così generico, va in questa direzione; e anche la singolare scelta stilistica, per cui tutti i personaggi sono indicati per il rapporto che hanno con la protagonista (il padre, il marito, la direttrice…) senza mai usare dei nomi propri.

Si potrebbe forse definire un romanzo di formazione, ma con una sostanziale differenza: mentre in questo genere, di solito, le esperienze giovanili preludono a una consapevolezza che porta i protagonisti a accettare un posto nel mondo, qui il percorso sembra inverso. La protagonista si sforza in ogni modo di adattarsi alle convenzioni, non discute mai il principio, all’epoca ovvio, per cui a una donna spetta solo «amare, sacrificarsi e soccombere». Il matrimonio e la maternità sono accettati come passi obbligati, ma la consapevolezza che «la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana», la spingono a infrangere fino in fondo le convenzioni, in nome del rispetto per se stessa. Una sfida, una prova da affrontare, capace ancora – pure in un linguaggio che suona ormai antiquato, di provocare i lettori.

Giuliano Galletti

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Io sono tuo marito, un po’ di analisi logica

In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – 2015

Io sono tuo marito – soggetto, copula, predicato nominale. Ma se quel tuo marito fosse un complemento oggetto? Dovremmo cambiare prospettiva, spostarci da un’analisi che implica solo le parole a una che includa il rapporto fra gli esseri parlanti e il linguaggio.

Io sono tuo marito. Potremmo usare qualsiasi altra espressione – Io sono uno psicoanalista, un operaio – o ribaltare la forma – Tu sei mia moglie, ecc. – conservando inalterato il rapporto. Più che la parola in sé e sebbene ci sia un tu, cose su cui torneremo, importa la condizione in cui si trova quel io ogni qual volta usi il verbo essere, consapevolmente o meno: è indicato all’Altro, con il verbo che funziona da copula per un predicato nominale, o è portato a un altro, con il verbo a funzionare da predicato verbale per un complemento oggetto (Lacan, 1954 – 1955)?

Facciamo un esempio: una cosa è vedersi recapitare delle rose – attenzione – senza la persona che le ha inviate, altra faccenda è quando la persona che manda quelle rose è attaccata a esse. In un caso funzioneranno da metafora del mittente, suo predicato nominale (in psicoanalese: saremo in un registro simbolico), nell’altro saranno parte del suo corpo, ne saranno il complemento oggetto, prova della sua esistenza nelle mani dell’altro.

Veniamo al secondo termine, chi o che cosa, essendoci, tiene in piedi per il primo la possibilità di chiudere la frase Io sono. Nei predicati nominali, cioè dove il simbolico funziona, questa trova ancoraggio nel discorso – in psicoanalese: un S1 chiama un S2 che retroagisce fermando un significato (Lacan, 1957 – 1958).

Quando il secondo termine è un oggetto le cose sono semplici. Immaginate un’impresa: ci si può battere perché sia in un certo modo. Una persona invece resta con difficoltà nel modo in cui viene messa. Recalcitra, vede quanto chi la vuole in quel modo ne possa tollerare la mancanza. La posizione di oggetto è cioè problematica per l’essere umano, che si vive come preda di qualcosa a cui non si può sottrarre (Lacan, 1951 e 1955 – 1956). Sarebbe da chiedersi perché il rischio di questa condizione funzioni per molti da centro di gravità: “Voglio essere la sua ossessione” – disse una ragazza.

Torniamo al primo termine. Cosa succede quando il complemento oggetto, essendo anch’esso un soggetto, inizia a recalcitrare? Succede che la frase Io sono, non presa in un discorso, apre su un baratro. Lo specchio, potremmo dire usando un registro che in psicoanalisi si chiama immaginario, invece di riflettere il riconoscibile, apre su un’incognita (Lacan, 1949 e 1955 – 1956). L’esperienza del ciglio di questo baratro, del margine di questo specchio, ha un nome preciso: angoscia. Attenzione, l’angoscia non è il precipitare o il non riconoscersi ma è la percezione dell’imminenza di questo accadere (Lacan 1962 – 1963).

Se un soggetto non si pone in rapporto a un predicato nominale ma a un complemento oggetto, anche l’angoscia seguirà la medesima logica: se non diluita nel discorso, sarà inaggirabile. Cioè delle due l’una: o siamo presi in una articolazione di linguaggio (in psicoanalese: catena significante) e allora potremo spostarci da un predicato nominale all’altro – c’è da dire: restando sempre un po’ insoddisfatti – oppure saremo il complemento oggetto dell’Altro che si pone come soggetto nei nostri confronti e da questa posizione sarà difficile uscire. Da una parte la metonimia, dall’altra la confusione (Lacan, 1957).

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Equilibrati, equilibristi e squilibrati.

Coinvolgete Dio. Scomodate il prete. I fiorai. Gli srotolatori di tappeti bianchi. Le risaie. Lo zio d’America. Il centrotavola di calle in tinta con quei 12 giri di tulle in cui siete immerse dalla vita in giù. Coinvolgete noi. Che dobbiamo comprarci vestiti che non metteremo mai più, scarpe col tacco che da ubriache togliamo perdendole e tornando a casa scalze. Noi che mentre voi con passo fiero da “ce l’ho fatta” percorrete quella navata, pensiamo soltanto ad una cosa: “ Sei una meringa ambulante”.

Ci date bomboniere che verranno buttate appena dietro l’angolo della sontuosa villa con arazzi, palme e colonne doriche, ioniche e corinzie in cui siamo stati sequestrati da cascate di prosciutto, canzoni da esterna di Uomini e Donne, lancio di bouquet e vino scadente.
Ci ammazzate con foto di voi in viaggio di nozze mentre fate quell’attività adrenalinica chiamata snorkeling.
E poi? Dopo manco tre mesi, ancora con la fede giallo Puff Daddy larga 5 centimetri al dito, cominciate la vostra vita da equilibristi.
Lui che mette e toglie la fede che manco Copperfield. Lei che se la guarda compiaciuta mentre il marito le ha appena comunicato un’ennesima fondamentale riunione alle 23. Lei che appena lui si butta sotto la doccia per eliminare tutte le prove olfattive di consumato adulterio, passa a setaccio tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. E ci becca sempre qualcosa. Quasi sempre un capello lungo e nero corvino. Ma lei è bionda e col caschetto. Giorno dopo giorno il capello diventa una parrucca. Le riunioni finiscono alle 4 del mattino. Lui, sospettoso dell’altrui sospetto, comincia a spostarsi tra gli ambienti di casa portandosi dietro una carriola con dentro tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. D’altronde, chi è che non ha bisogno di spazzolare un tablet in corridoio? Mese dopo mese lei, sagace come un mandrillo, comincia a notare che il marito fa più riunioni di Obama, che ogni volta che entra dalla porta d’ingresso lascia una scia di vaniglia, cocco e iris, che la schiena è piena di graffi che lui farà passare per sante stigmate, e che forse, ma forse, anche se “ieri mi ha detto ti amo togliendosi la ruchetta dall’incisivo”, “sente ogni tanto” un’altra. Sono passati mesi. Lui nel frattempo si è fidanzato con tutta Milano, Londra, Miami e zone limitrofe. Ha le chat intasate di emoticon che fanno occhiolini, cuori pulsanti e frasi da picco glicemico. Ha cambiato più letti di una hostess dell’Alitalia. E lei si è illuminata: “ Ti stai sentendo con una”.

La genialità, a volte.

A questo segue la fase della negazione di lui. Dei ricatti di lei, che credendo di essere una fine stratega, non lascia ma fa scontare. Dei continui ed indisturbati tradimenti di lui. Che credendo di essere un fine stratega non lascia ma cerca di farsi lasciare.

Scopo: procacciarsi/evitare  il mantenimento. A seconda del ruolo.

Segue l’autoconvincimento di lei che le cose si siano messe apposto. Segue, esattamente in questo frangente, come da protocollo, la nascita di un figlio. passa qualche mese di finto equilibrio. E poi ciak, si ricomincia. Continui ed indisturbati tradimenti di lui. Autoconvincimento di lei. Ricatti. Bugie. Squallore. Nascosto squilibrio. Quotidiano equilibrismo.

Questi appena descritti, sarebbero per la società, anche ed ancora del 2015, “equilibrati”, in quanto sposati, con figli, casa e magari un cane.

Poi ci sono quelli che vengono visti come “squilibrati”.
Sono quelli che al massimo coinvolgono l’Ikea, per una convinvenza.
Sono  “single”, “soli”, “zitelle”, “scapoli”, “un po’ strani”, “frivoli”.
Sono quelli il cui mantra è “no non sono sposata, no non sono divorziata, no non sono lesbica”.
Sono quelli che si sono sposati a 38 anni per convinzione e non a 25 per convenzione.
Sono quelli che non fanno figli per risolvere una crisi coniugale.
Sono quelli che non dicono “mio figlio” ma “nostro figlio”.
Sono quelli che non dicono “la madre di mio figlio”, ma “Lei”, con la L maiuscola.
Sono quelli su cui gli equilibristi si appoggiano senza pietà per trovare l’equilibrio della loro squilibrata coppia.
Sono quelli che non è che fino ad ora non si siano sposati perché nessuno se li è caricati. Ma perché sposarsi è una roba seria. Come i figli. Come l’amore. Come il tradimento. E proprio perché è una roba seria, non si calcola, non si analizza, non si programma. Non si finge. Sono quelli che potrebbero sposarsi in due mesi, e per questo “squilibrati”. Perché loro l’amore lo riconoscono a chilometri. Così come riconoscono quelli che non sanno stare soli.

Sono quelli che hanno scelto. E che non si sono fatti scegliere. Sono quelli che non generalizzano. E che chiedono che non si generalizzi.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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Ti sposo. Ti guardo. Ti lascio.

 

L’altra mattina mi sono svegliata leggendo una notizia in cui si diceva che un uomo dell’Arabia Saudita aveva chiesto il divorzio la notte stessa del matrimonio dopo aver visto per la prima volta il volto della propria sposa e aver risposto: “Non sei come mi ero immaginato che tu fossi”.

Dopo il primo minuto in cui un accenno di sorriso scappa a tutti (perché ammettiamolo, il fatto è tristemente comico), ecco che subentrano perplessità, rammarico e anche un po’ di rabbia.

La cultura saudita (e ci tengo a specificare che si tratta dell’Arabia Saudita, quindi non di tutti i paesi del Golfo e non di tutti i paesi islamici) concede ai due promessi sposi di vedersi una volta prima del matrimonio.

In questo caso i due pare avessero rinunciato a questa possibilità, si fossero giurati amore eterno (o quello che si giura in un rito islamico) e al momento di scattare quello che doveva essere il primo di una lunga serie di ritratti di famiglia lo sposo si sia tirato indietro.

Chiaramente dopo la divulgazione della notizia, i commenti sono stati tanti, moltissimi. La maggior parte dei quali sottolineava il fatto che l’amore va oltre alla bellezza. Il marito prima di chiedere il divorzio avrebbe dovuto almeno provare a conoscere la donna. Nessuno lo aveva obbligato a sposarsi pertanto avrebbe dovuto assumersi le sue responsabilità

Ma premesso che è vero, sono d’accordo, “la bellezza non è tutto”, “ciò che piace a me può non piacere a te” e che “ogni scarrafone è bello a mamma sua”, davvero nessuno lo ha obbligato a sposarsi? Come ha fatto allora a scegliere spontaneamente una persona senza nemmeno averla mai vista e conosciuta?

Però mi chiedo anche se davvero, qualora la coppia avesse usufruito della possibilità di vedersi prima del matrimonio, la storia sarebbe stata diversa? Quell’unica volta avrebbe cambiato il loro destino?

matrimonio-saudita

Se parliamo su un piano puramente estetico, si, probabilmente entrambi i promessi sposi avrebbero potuto stabilire in anticipo di piacersi o meno, senza aspettare la richiesta del fotografo rivolta alla sposa di alzarsi il velo…

Ma un conto è vedersi. Altro discorso è conoscersi.

Se è vero che non basta una vita intera per conoscere una persona, è altrettanto vero che prima di dire il fatidico SI personalmente vorrei capire se io e il mio futuro marito condivideremo gli stessi ideali.

Ma forse nel caso di matrimoni sauditi, questa fase può essere tranquillamente superata dato che difficilmente ci saranno

discussioni su chi dei due dovrà lavorare. Su come distribuire obblighi e ruoli all’interno della famiglia. Su come crescere i figli.

Però un’altra domanda mi sorge. E se fosse stata la donna a rimanere delusa dell’aspetto del proprio marito? Cosa sarebbe potuto succedere?

Dubito che questa domanda riceverà mai una risposta.

Chiara Amodeo

 

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“Ali spezzate”

È domenica mattina. Mi piace stare a letto a pensare, a ricordare. A casa ci siamo solo io e mio marito. I ragazzi ormai sono grandi, non abitano più con noi. Le lenzuola di seta. Mi è sempre piaciuto sentirle sulla pelle. Sono sempre stata una bella donna. Fin da giovane.  Capelli lunghi, biondi, ricci, folti. Occhi azzurri, grandi, espressivi. Bel fisico. Gambe lunghe e affusolate. Vita stretta al punto giusto. Mi piaceva guardarmi allo specchio. Stavo ore a fissarmi, a studiarmi. La bocca carnosa, scarlatta, a cuore. Un naso piccolo all’insù. Gli uomini impazzivano per me. Anziani, giovani, sposati, single, colti e meno colti. Erano tutti uguali. Chiunque fosse, appena mi vedeva, perdeva la testa. Io, naturalmente, mi lasciavo desiderare. Mi divertiva la cosa, per me era un gioco. Sentivo di poter far di loro ciò che volevo. Ancora oggi è così. Ancora oggi cammino per la strada sentendomi puntati gli occhi addosso. Sorrido sorniona. Testa alta. Cammino con un passo leggero ed elegante. Sono sempre stata molto elegante. Fin da giovane. Read more