Verità e approssimazione: perché gli alieni potrebbero scambiarci per scimpanzé

Gli studi di biologia e di genetica ci hanno insegnato, ormai da tempo, che la nostra specie (Homo sapiens) condivide con gli scimpanzè (pan troglodytes) il 98,5% del patrimonio genetico (C. Tuniz, P. Tiberi Vipraio, La scimmia vestita 2020). La differenza fra queste due specie è sorprendentemente piccola, da un punto di vista statistico. Partendo proprio da questo dato, invito il lettore ad un piccolo esperimento mentale. Supponiamo che sia l’umanità che gli scimpanzé, per qualche ragione, scompaiano improvvisamente dalla Terra. Poco tempo dopo una specie aliena, simile a noi dal punto di vista mentale, nonché tecnologicamente avanzata e capace di leggere e interpretare correttamente la nostra cultura scientifica e storica, scopra questa percentuale di “somiglianza” genetica fra gli esseri umani e i primati. Come già accennato, dal punto di vista statistico, gli alieni potrebbero sostenere che si tratta di due specie pressoché identiche, se non addirittura la stessa.

Calato in un altro contesto, dire che qualcosa la si fa al 98,5% (anche se generalmente si dice al 99%) significa concedere una possibilità assai remota che quel qualcosa abbia dei problemi tali per cui non possa andare a buon fine. Generalmente lo si dice, appunto, quando si è praticamente certi che qualcosa accada.

Questo dato ci mostra come, tuttavia, anche nella rigorosità del metodo scientifico vi sia un approssimarsi alla realtà senza che questa possa essere colta così com’è (cfr., fra gli altri, K. Popper, Logica della scoperta scientifica, 1970). Si tratta di una consapevolezza che scienziati e filosofi della scienza (o chiunque segua un metodo scientifico) sanno, una verità che tengono bene a mente. Tale approssimazione può avvenire, generalmente, per due ragioni: per mancanza di osservazioni sperimentali atte a confermare una certa teoria, o per mancanza di un linguaggio appropriato, in grado di descrivere un certo fenomeno in maniera esaustiva. A titolo di esempio si pensi al paradosso quantistico del gatto di Schrödinger: posto all’interno di una scatola insieme ad un meccanismo in grado di rilasciare del veleno nocivo, il cui sistema di avvio dipende dal decadimento di un atomo radioattivo che lo azionerà (ma non si sa quando), è possibile concludere che l’animale sia vivo e allo stesso tempo morto. Questo stato sarà tale finché nessuno aprirà la scatola per osservare le condizioni del nostro povero gatto (si ricorda al lettore che si tratta di un esperimento mentale, e che non è mai stato compiuto davvero). Senza addentrarci in questioni di fisica dei quanti è evidente come delle volte sia necessario, anche con il massimo della rigorosità scientifica, l’utilizzo delle metafore per descrivere una realtà concettualmente “indisponibile” al nostro intelletto nell’esperienza di tutti i giorni. Sebbene la matematica, in particolare dai primi del Novecento, sia venuta in soccorso alla fisica nella descrizione di realtà “impossibili” da immaginare comunemente, se non descritte tramite equazioni, lo stesso Einstein di domandava quanto questo fosse specchio del reale:

«Com’è possibile che le matematiche, le quali dopo tutto sono un prodotto del pensiero umano, dipendente dall’esperienza, siano così ammirevolmente adatte agli oggetti della realtà? È forse la ragione umana, indipendentemente dall’esperienza, e solo col pensiero, capace di toccare a fondo le proprietà del reale?» (A. Einstein, Geometrie ed esperienze, 1921)

Un tale quesito, così squisitamente filosofico, non ha ancora trovato risposta. Determinare la verità nel reale pare un fardello quasi impossibile da risolvere ma con cui lo scienziato e il filosofo non possono fare a meno di avere a che fare. Tali dissertazioni si ripercuotono sul nostro quotidiano e sul nostro linguaggio, ma anche sul modo in cui immaginiamo possa funzionare il mondo. Naturalmente – è bene ribadirlo – la scienza non ha la pretesa di etichettare come verità i prodotti delle sue ricerche o il modo con cui osserva la natura, ma il suo approssimarsi al reale (in altri termini: il tentativo di cercare la verità) spiega indirettamente quella minuscola differenza dello 1,5% di patrimonio genetico fra noi e gli scimpanzé. Questo potrebbe essere utile un giorno futuro, nel caso una specie aliena venuta a trovarci ci chiedesse in cosa ci distinguiamo, di preciso, dai nostri cugini primati, dato che ai loro occhi potremmo apparire pressoché identici…

 

Stefano Aranginu

 

[Photo credit Francesco Ungaro via Unsplash]

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Infinity and beyond: la matematica incontra la filosofia

pensare-linfinito-costantini_la-chiave-di-sophiaPresentazione di Pensare l’Infinito. Filosofia e matematica dell’infinito in Bernard Bolzano e Georg Cantor di Filippo Costantini (Mimesis Edizioni, 2016)

 

Chi non si è mai perso, magari da bambino, a guardare le stelle durante quelle meravigliose sere d’estate, in cui si resta letteralmente ipnotizzati al di sotto di quella miriade sterminata di puntini luminosi? Forse è proprio in quell’occasione che ci siamo misurati per la prima volta con la sensazione dell’immenso, dell’infinito. Abbiamo provato a portarci con la mente verso le più remote lontananze, percependo un giramento di testa una volta giunti troppo in là. Ecco, questo testo prova a darci un antidoto contro quel giramento di testa, contro quelle vertigini spesso interpretate come un’impossibilità dell’uomo di rivolgersi a tale profondità. In effetti, l’uomo può provare a pensare all’infinito! Molti matematici e molti filosofi ci hanno guidato e ancora ci guidano in questo cammino. Certo, un buon antidoto non può essere solo composto da belle parole e frasi accattivanti: ci vuole un buon equilibrio tra questa sfera e quella più tecnica riguardante i meccanismi con cui possiamo interpretare, per esempio, i numeri e gli insiemi; altrimenti sarebbe solo un placebo.

Filippo Costantini si avventura in una parte di questo percorso e, con competenza, ci porta per mano lungo una via che, giunti alla fine, forse non ci toglierà del tutto il senso di spossatezza di fronte alla sterminatezza dell’Universo, ma sicuramente ci farà sentire più liberi di godere, con cognizione, di quella dimensione ampiamente studiata per vie diverse e con diversi risultati. Chi non sia avvezzo alla Matematica e alla Filosofia della Matematica, forse potrà meravigliarsi di quanti spunti possano dare per rispondere alle fatidiche domande che ci siamo tutti posti da bambini cercando di farci descrivere il mondo e le cose. Non stiamo parlando della risposta definitiva, è ovvio. Ma spesso, quando la Matematica e la Filosofia viaggiano a braccetto, si resta sorpresi dalla lucidità con cui queste due cugine riescono a coinvolgerci nel cercare di esaminare e spiegare le parti più profonde del sapere umano. Anche se il percorso avrà dei tratti tecnici, una volta arrivati alla fine ci si sentirà più completi riguardo alla percezione di ciò che possiamo provare a conoscere.

Il testo prende le mosse cercando di farci capire in modo chiaro a cosa ci si può riferire quando si parla di “infinito” e ci guida da subito nel cercare di farci capire quale tipo di infinito anima la sua ricerca. Una possibile mappa tracciata da questo percorso si fermerà su alcune tappe suggestive disegnate a partire dalle riflessioni di Bernard Bolzano e Georg Cantor.  

La prima è rappresentata dalla ricerca di una teoria riguardante i fondamenti della matematica e la definizione di numero infinito che, per essere coerente, deve spingersi oltre la mereologia verso gli albori di quella nozione di insieme che interpreta i numeri infiniti come oggetti composti da infiniti elementi, una molteplicità la cui unità costituisce un nuovo oggetto.

Altra tappa di suggestiva importanza sarà quella che si sviluppa lungo la riflessione bolzaniana a proposito della gerarchia tra moltitudini infinite dotate di diverse estensioni. I risultati della riflessione di Bolzano, danno lo spunto per avvicinarsi alla diversa teoria di Cantor sullo stesso tema. Attraverso una interessante analisi degli studi sulla non numerabilità dei numeri Reali si arriva ad assumere una gerarchia tra infinito numerabile e non numerabile e a porre le basi teoriche per l’individuazione di quel transfinito che rappresenta una delle più importanti eredità del logico russo-tedesco. Questa parte rappresenta sicuramente una tappa di alto valore speculativo e il lettore non esperto e curioso non potrà che rimanere affascinato e interessato nel comprendere in che modo si possa parlare sensatamente di infiniti più grandi di altri. Ciò dà anche lo spunto per capire che l’infinito può essere anche pensato come qualcosa che si annida in maniera sinergica con il finito, come nel caso dei numeri irrazionali e dei numeri transfiniti. Un infinito che è quindi in una certa misura catturabile dalla ragione semplicemente perché ne è una parte costitutiva. Nonostante queste considerazioni, il valore speculativo del testo è ritrovabile sia nella difesa della posizione di Cantor, quando questi riesce a mostrarci delle buone ragioni per pensare ad una sorta di infinito attuale; sia nell’ ammissione della non conclusività della posizione cantoriana, quando si badi al fatto che l’universo dei numeri infiniti, nella sua interezza, non può far altro che rievocare il carattere potenziale dell’infinito.

Sempre a proposito del rapporto vigente tra molteplicità ed unità, ampio spazio del testo sarà dato all’esame di alcuni fondamentali paradossi logici: si evidenzierà la struttura logica che essi hanno in comune sfruttando, per esempio, alcune intuizioni di Bertrand Russell e di Graham Priest. Questa sezione tematica è sapientemente costruita per supportare la tesi dell’esistenza di concetti indefinitamente estensibili e mostra come i paradossi in questione siano generati dal considerare il tutto come un insieme e quindi come un oggetto. Il risultato della riflessione ci porterà a comprendere come l’unità in cui consiste l’intero sia un’unità che contempla anche il lato intensionale oltre a quello estensionale; unità che, per questo, sarà diversa da quella insiemistica. Lasciamo a chi voglia avventurarsi in questa lettura il piacere di scoprire i dettagli delle tematiche accennate suggerendo alla fine che, una volta approfonditi tali dettagli, il guardare verso le stelle sino alle porte dell’infinito dovrebbe farci sentire un po’ a casa.

 

Evan Battistel

Evan Battistel si è laureato in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sulla concezione dell’esistenza e della contingenza nella Filosofia Analitica. Ha svolto attività di docenza in Filosofia e Storia nelle scuole secondarie di secondo grado e attualmente collabora con un gruppo di ricerca della stessa Università occupandosi di questioni legate alla logica modale.

Filippo Costantini (Dolo (VE), 1989) si è laureato in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sulla teoria degli insiemi. Presso la medesima Università sta ora conducendo un Dottorato di Ricerca sulla questione dei paradossi logici e della “quantificazione non ristretta”. Ha trascorso periodi di studio presso l’Università di Tubinga (Germania), l’Institute for Logic, Language and Computation (ILLC) dell’Università di Amsterdam, l’Università di Oslo e l’Università di Oxford.

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Anima gemella e matematica

Chi non ha mai fantasticato sull’anima gemella? Esiste? Chi sarà? Sarà mai possibile trovarla? Insieme ad altre varie domanducce.

Ovviamente non possiamo dire di conoscere un modo per poterla trovare in anticipo (o addirittura in assoluto), diremmo noi, ma c’è chi cerca di attivarsi in senso contrario e di abbozzare diversi metodi per trovarla. L’ultimo esempio è di quella ragazza che ha messo un annuncio con un’espressione matematica e il cui risultato sarebbe stato il suo numero di telefono. Chi l’avrebbe risolta sarebbe stato, secondo la ragazza, abbastanza intelligente da poter meritare di essere il suo ragazzo.

Lasciamo che alla ragazza tocchi il suo destino tranquillamente e auguriamole il meglio, ma facciamo una piccola considerazione: per quanto ancora l’ideale medio di intelligenza dovrà essere accostato all’intelligenza logico-matematica?

La ragazza evidentemente pare cadere nel tranello per cui intelligente è chi innanzitutto di matematica ne sa. Ma come, solo questo richiedi al ragazzo con cui vorresti passare la vita? Non pensi in questo modo di trovare un ragazzo abile, competente, capace, ma non per forza intelligente? Non credo ancora di essere l’unico a credere che questa idea di intelligenza sia un po’ riduttiva: il modo umano di comprendere, interpretare, risolvere, pensare, contiene sì il linguaggio logico matematico – linguaggio per altro estremamente antico, direi originario, e che comunque non trova esempio solo in un’espressione algebrica – ma non ne è esaurito completamente. E sembrerà sì banale come pensiero, anzi lo è e basta, ma è così che ancora vengono formulati e proposti molti test, quiz, valutazioni personali più o meno spicce. Persino i bambini nei loro giochi amano porre domande matematiche per capire quanto sveglio è il proprio amichetto (quante volte ho miseramente toppato quelle domande…).

La complessità e in parte l’ineffabilità delle questioni numeriche affascina nella loro astrattezza e in qualche modo si pone come base per la misura dell’uomo: fino a dove si può elevare la tua mente?

Fin qui tutto giusto, ma pensavo che con l’età adulta i presupposti e i metodi di giudizio si ampliassero un po’, giusto quanto basterebbe per comprendere la vastità e la difficoltà di avvicinarsi al senso della capacità mentale di un uomo. La matematica resta appunto un linguaggio. Chi ne richiede la padronanza per il supposto valore intellettivo è come se richiedesse la conoscenza del francese per potersi dire intelligente. La questione va affrontata a livello culturale, cioè quasi a livello ultrasottile, nei modi in cui quasi ci si scambia battute o si giudica a pelle qualcuno. Una missione impossibile?

Quanto a te, cara ragazza anonima, per me resterai tale. Non so risolvere quell’espressione. Dopo sei anni di liceo scientifico le mie già precarie conoscenze matematiche non me lo consentono comunque. O forse non ho la voglia di sbatterci la testa e perderci tempo, sono pigro. Se non stupido, come insinui tu. In ogni caso spero tu abbia avuto fortuna e abbia trovato non solo un buon contabile ma anche un buon fidanzato, che non ti sottoporrebbe mai a un test simile.

Luca Mauceri

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Ritratto di Roma, città di prospettive

Lo sanno tutti, definire Roma come la capitale d’Italia, quantunque insindacabilmente corretto, risulta in un certo senso limitativo, perché Roma è molto più di una grande città e molto più di un agglomerato di sedi istituzionali. Non è certo un caso che nei secoli si sia guadagnata numerosi appellativi, quali “città eterna” e “caput mundi”, afferenti al suo essere centro gravitazionale delle attività politiche, culturali e artistiche dell’intero mondo occidentale. Infatti, a connotare la storia dell’Urbe e di conseguenza il suo aspetto visibile e tangibile, è la presenza pressoché continua e ininterrotta di poteri forti dai tempi di Augusto (ma anche prima) sino ad oggi, e la presenza di questi poteri (in primis quello pontificio) è sempre stata determinante per attrarre nella città importanti personalità che, mediante le loro elevate competenze artistiche e architettoniche, sapessero esprimere manifestamente quel potere medesimo, il quale, alla faccia dei predicati evangelici, doveva permeare in ogni angolo della città per mettere bene in chiaro a chi spettassero i privilegi del controllo e della gestione dello stato.

In questo senso, la creazione a livello urbanistico (e non solo) di grandiosi complessi prospettici che, mediante studiati accorgimenti architettonici, creassero spazi razionalmente ordinati secondo criteri di simmetria e punti di fuga corrispondenti con edifici di alto valore simbolico, è una delle principali manifestazioni visive della volontà, da parte di chi esercitava il potere, di esercitare forme di controllo anche sullo spazio. Questa affermazione si lega indissolubilmente con il concetto di Umanesimo, che si connota, nelle arti, anche con la capacità da parte degli artisti (e dei loro committenti) di controllare e gestire con razionalità lo spazio reale, nel quale l’uomo vive e opera. Questa centralità dell’agire razionale è palese in qualsiasi zona di Roma, a tal punto che le manifestazioni del potere spirituale riescono con fatica a celare l’ardire di coloro che, nell’atto di creazione o modifica di uno spazio, hanno osato indossare gli abiti della divinità e adottare il proprio ordine (quello umano) fondato essenzialmente sulle regole matematiche e geometriche.

Il risultato finale di queste operazioni è sorprendente e visitando Roma ci si accorge così che qualsiasi piazza o grande monumento è incorniciato da un insieme ordinato di volumi che ne amplificano l’importanza e che lo indicano come punto di fuga, come fulcro dello sguardo, come punto focale della scenografia in cui è inserito. Perché, effettivamente, Roma è un po’ un grande teatro, nel quale ci si può perdere passeggiando per le strade secondarie per vedere cosa succede dietro le quinte, per poi tornare sempre tra le grandi piazze e sentirsi “pubblico” in senso stretto, ammirando le grandi scenografie reali di cui è composta. Il Castel Sant’Angelo visto dall’altra sponda del Tevere, con gli angeli di Bernini che ci indirizzano lo sguardo verso la grande mole del fu mausoleo di Adriano invitando lo spettatore ad attraversare il ponte, oppure il Vittoriano, che si impone allo sguardo uscendo dalla stretta via del Corso, o ancora Piazza del Campidoglio, che si apre simmetrica una volta percorsa la scalinata di accesso, o infine la Basilica di San Pietro dal fondo di via della Conciliazione sono solo pochi esempi chiari e ben noti dell’applicazione consapevole e ragionata di questi espedienti.

Sarebbe sbagliato tuttavia pensare che questi si limitino al solo ambito urbanistico di vaste proporzioni. L’abile uso di complessi giochi prospettici è onnipresente a Roma ed è ben visibile anche in ambienti privati. L’esempio più lampante è senz’altro quello della galleria di Palazzo Spada, che, grazie alla maestria dell’architetto Borromini, sa ingannare lo spettatore e far sembrare lo spazio più dilatato di quanto sia in realtà. In questo caso, ovviamente, non vi è un’espressa volontà di manifestare il proprio potere e nemmeno quella di sottolineare l’importanza di un dato edificio, ma ancora una volta vi si ritrova la volontà (e la capacità) di gestire lo spazio a proprio piacimento sfruttando fino in fondo le regole della prospettiva e dell’illusione ottica.

Non vi sono quindi dubbi che Roma, più di qualsiasi altra città italiana, sia per eccellenza una città di prospettive, e in quanto tale una città creata dall’ingegno umano per la gloria umana, spesso però filtrata da un concetto di gloria divina che si configura più come giustificazione che come motivazione della creazione di questi spazi. E questo anche (e soprattutto) quando a essere inventato è lo spazio divino.

I soffitti delle due chiese barocche a mio parere più belle della città, quello della chiesa di Sant’Ignazio (dipinto da Andrea Pozzo) e quello della chiesa del Gesù (affrescato da Giovan Battista Gaulli), sono i massimi esempi di cosa significa in arte creare uno spazio fittizio mediante l’illusione ottica: folti gruppi di angeli e beati che volteggiano nel cielo persuadono lo spettatore dell’esistenza di un mondo parallelo, che si pone come (non) logica prosecuzione del mondo reale in cui egli vive e che, mediante l’estensione in pittura delle architetture esistenti (a Sant’Ignazio) o grazie alla rappresentazione di personaggi al di fuori della cornice dell’affresco intenti però a entrarvi (nella chiesa del Gesù), avvicina la sfera celeste al mondo terreno in modo sorprendente. Viene a crearsi così una sorta di “teatro celeste”, che altro non è, tuttavia, che un’altra grande invenzione dell’uomo, che eleva le proprie facoltà al punto di organizzare mentalmente e concretamente lo spazio divino come da lui pensato, e di porre dinanzi al visitatore uno spettacolo che, seppur totalmente umano, qualcosa di miracoloso pur sempre ce l’ha.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Dimmi la verità

“Dimmi la verità, dimmi la verità”, e tu boccheggi, t’inceppi, tossisci e farfugli qualcosa, non capisci se il tuo cervello riesce a raccapezzarsi, a scrutare quel niente che non comprende e tutto quello che avresti voluto dire si confonde, perde significato, annaspa in un marasma senza forma perché pieno di identità diverse. Ogni cosa è potenzialmente vera, tutto custodisce un segreto così pregno e fecondo di potenziali verità che non puoi non considerarlo nel momento stesso in cui si rivela; ma allora perché non rispondi, perché balbetti, perché ti ammutolisci di fronte a quella richiesta? Lo sai che è impossibile da soddisfare, la stessa plausibile risposta rimanda a un’infinità di altri interrogativi e già inizi ad avvertire quel senso di vuoto e perdizione che come un invisibile buco nero si allunga sul tuo mondo. Devi fermarti, prenderti del tempo per riflettere, per carpire la significanza dei tuoi dubbi, delle tue inquietudini, cerchi di ricordare e far riemergere quello che i grandi maestri ti hanno insegnato, le loro profonde riflessioni deposte tra migliaia e migliaia di pagine, ma nulla, nulla riesce a orientarti, a guidarti verso la risposta che tanto agogni, che tanto agogniamo, e con crescente affanno cominci a cogliere le clausole di quei ragionamenti, dei pensieri di quegli uomini immortali, le consapevolezze private, il peso di ciò che hanno taciuto, le parole non dette, evanescenti, lasciate tra le righe a chi è capace d’intendere, di sopportare, di abbandonarsi a un sorriso amaro di fronte all’abisso, parole riflesse solo nel buio perché troppo, troppo estranee e spaventose.

Ehi, ehi, andiamo con calma, la verità è un disvelamento, una luce che rischiara, come il sole che arriva a baciare la terra dopo l’oscurità della notte, dunque cos’è che illumina la mia mente, il mio pensiero, che scaccia l’oblio e la dimenticanza? Può essere l’arte, lo sfogo e l’esperienza estetica, può essere la logica, l’inattaccabilità della matematica e del ragionamento, può essere l’etica, il sentimento spirituale e compassionevole, può essere semplicemente l’ovvio, la prima idea, la prima parola, l’evidenza più palese, può, può, può essere qualunque di queste cose, ma può e basta, è potenzialità fumosa e intangibile che non sa dare alcuna certezza nella nostra esperienza del mondo, del tempo, figurarsi poi in una prospettiva cosmica: è anche lecito credere che là dove lo spazio, il tempo, la storia e la realtà si dilatano ed estendono infinitamente oltre la dimensione umana, tutto ciò che consideriamo attingibile e forte di (forse) verità impallidisca e si sbricioli in un lampo, divenga polvere antica persa in voragini tremende, che senso ha anche solo dare valore etico, umano e razionale a una stella, a una galassia, alle ere geologiche di questo o di un altro dei tanti, innumerevoli mondi che galleggiano negli spazi siderali? Se la verità è davvero luce, ha già perso in partenza, miliardi di stelle e l’universo è ancora buio.

“Dimmi la verità, dimmi la verità”, ma come puoi chiedermi una cosa del genere? La verità, il disvelamento, il disvelamento di cosa? Cosa dovrei smascherare? La bugia, l’inganno, che bugia, che inganno? Di cosa stai parlando? Intendi forse l’inganno di un dio burlone e pazzerello? Dio, dio, non importa quale significato tu dia a questa parola tanto fraintesa e sbeffeggiata, anche lui ha paura, scappa, si mostra ai cuori spauriti degli uomini, decanta la sua condotta infallibile e il suo giudizio giustissimo, apre le braccia, le distende oltre gli orizzonti in segno di maestosa magnanimità, ma non farti illudere, sta solo cercando di coprire ciò a cui lui stesso dà le spalle. Questo ideale grandissimo, così intenso e sconfinato, come un martire si addossa le angosce e i tormenti degli uomini, ascolta il funesto messaggio del cosmo che striscia fuori dalle profondità più ignote e malvagie, dai vuoti freddi e acquosi in cui vortica una natura immensa, apatica come un antico idolo violento: è lei che bisbiglia dovunque, non senti niente perché si lascia solo percepire, ma lei è la verità, la verità muta, silenziosa, un caso amorale che rimbomba tacito come un inquietante presagio. Dio è lì che sanguina, e come mai?, noi non ci fidiamo, è ovvio che nasconde qualcosa e così abbiamo squarciato il velo di Maya che aveva intessuto, lo abbiamo cacciato e calpestato come figli ingrati, alcuni hanno visto, hanno voluto tornare indietro, ma come puoi sperare di chiedere aiuto a un dio appeso alla croce?, puoi solo ascoltarlo gemere, implorare, sentilo mentre chiede il nostro perdono, lui sa di esser colpevole di averci celato questo infinito silenzio.

“Dimmi la verità, dimmi la verità”, poi zittisci chi te lo chiede e alzi un dito in segno di monito, gli dici di ascoltare, di ascoltare oltre le voci degli uomini, di ascoltare oltre i battiti dei loro cuori, oltre i loro pensieri, ascoltare oltre il canto della vita e il respiro del vento, ascoltare oltre le pagine della storia, oltre i ticchettii del tempo, oltre il mormorio sommesso delle stelle, ascolta, ascolta, e dimmi, senti qualcosa? No, nemmeno io.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini, dal film Gravity]