“La tentazione del muro”: da Recalcati una bussola per il presente

«Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori», scriveva Calvino nel Barone Rampante. È questa la posta in gioco quando si sceglie di rinunciare al “fuori”. Eppure inciampando in quel “pensa” si cade nella controversia di questa scelta: sarà proprio quel muro a stringere un doppio nodo con l’oltre lasciato fuori. L’esclusione non avviene soltanto attraverso barriere fisiche: può vivere anche e soprattutto nelle parole, in quel lessico in cui ognuno di noi viene naturalmente gettato. Il linguaggio ci dona identità, riconoscibilità, diversità. Ma il suo più grande dono è l’apertura.

Lo psicanalista-filosofo Massimo Recalcati nel suo libro ci pone davanti una tela di contrasti: la tentazione di alzare un muro è una pulsione assai frequente soprattutto nel lessico civile, quello della dimensione sociale, lo stesso che per sua natura incoraggia la relazione con l’Altro, senza il quale non potrebbe esistere. L’imprevedibilità del non conosciuto innescherebbe, infatti, l’insicurezza, la paura del nuovo. Per chiarirlo, Recalcati introduce il concetto simbolico di confine, depurandolo dalla rigidità con cui siamo soliti pensarlo: ognuno di noi nasce in uno spazio di massima sicurezza nel quale il proprio Io è libero di fiorire lontano da ogni rischio di contaminazione. Questo non luogo ha un perimetro, una linea di transito immaginaria che, pur rappresentando un limite, apre a un significato più ampio: il superare – valicare – per esporsi all’esperienza, al nuovo.

Ogni confine è quindi un potenziale muro: l’equilibrio sopravvive proprio in questa consapevolezza. Un confine stimola l’impulso all’esplorazione, fortifica quello della protezione: con un muro davanti a noi, al contrario, ogni possibilità risulterebbe serrata. Il superamento di questa impasse può verificarsi solo delineando «confini porosi» che ci assicurerebbero di vivere nell’orizzonte relazionale, preservando la nostra identità. La porosità per Bion, psicoanalista britannico, è il primo vero attributo del confine: una «barriera di contatto», un filtro che separa l’interno dall’esterno. Una porta che apre agli infiniti non-Io.

Recalcati potenzia l’eco di questa immagine: la forza del confine, scrive, risiede soprattutto «nello scambio, nella transizione, nella comunicazione con lo straniero: ogni confine definisce un’identità solo mettendola in rapporto con una differenza»1. In questo consiste la porosità che, venendo meno, lascia spazio alla staccionata, al filo spinato, al muro.

Da un punto di vista politico, «la singolarità appare continuamente impastata nella dimensione sociale»2: l’Io e l’Altro esistono grazie alla relazione che li definisce tali. Nel contesto sociale, quindi, la tentazione del muro intreccia inevitabilmente la pulsione alla libertà. Questa per Recalcati è una parola fondamentale, «se non ‘la’ parola fondamentale»3. È la forza centrifuga che ci spinge oltre il confine. Del resto, per dirla con Sartre, siamo da sempre condannati ad essere liberi: fin dalla nascita siamo «gettati nella libertà»4. L’Altro però, in questo contesto, gioca rispetto a noi un doppio ruolo. Vorremmo conoscerlo ma lo temiamo: sappiamo che è un «luogo di perturbazioni minacciose»5, eppure è grazie a questa alterità che riconosciamo la nostra identità. Nell’Altro che releghiamo dietro un muro si nasconde una parte di noi stessi di cui non eravamo a conoscenza, per timore respinta ma con la pulsione naturale a risalire a galla: noi stessi siamo altri nella misura in cui ospitiamo una piccola traccia di alterità e ne siamo contaminati. È questo il filo di Arianna che ci porta dritti al cuore del paradosso, alla rottura di ogni barriera: la libertà individuale è allo stesso tempo libertà degli altri, e non sussisterebbe senza lo slancio ad uscire dal confine dell’autoconservazione, della difesa del sé.

Al fianco della libertà, sul piano sociale, entra in gioco una seconda componente: la verità. Se nella dimensione collettiva scegliamo di reprimere verità alternative alla nostra, eleggendola ad unica valida, permetteremmo ad un regime totalitario di pensiero di minare pericolosamente il campo d’azione di ogni libertà. Una verità “roccaforte” non ammette confini porosi o differenze: la lezione proviene dagli anni del fascismo, in cui si è consolidata la tensione «a preferire l’obbedienza alla libertà, il muro al mare, la schiavitù alla responsabilità, l’ignoranza alla conoscenza, l’inciviltà dell’odio alla civiltà del patto e della parola»6.

L’impalcatura di un lessico così pensato che insegna a riconoscerci con e in quanto altri crolla come sabbia sotto la lente dell’attualità. Oggi una pandemia ha scansato via ogni porosità di confine: la tentazione del muro è diventata necessità per una ragione socialmente prioritaria, la protezione di tutti. Il lessico civile deve fare i conti con queste nuove disposizioni: libertà e verità individuali sono state chiamate ad autoregolarsi davanti alla legge. Il rischio è alto: la rinuncia dell’Altro, quindi di parte di noi stessi, e un ritorno seppur temporaneo al perimetro dell’individualità. È tutto qui il peso di questo contrordine: guardare alla libertà attraverso il vetro opaco di un muro, mettendo in sospeso l’animale sociale di matrice aristotelica che è in noi.

 

Manila Tortorella

Manila Tortorella, classe 1991, è laureata in Lettere moderne e in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Padova, con un focus particolare sul rapporto tra linguaggio e filosofia politica. Lettrice appassionata, si occupa oggi di comunicazione e ufficio stampa a Milano.

 

NOTE
1. M. Recalcati, La tentazione del muro, Feltrinelli, Milano 2020, p. 15
2. Ivi, p.10.
3-4. Ivi, p.60.
5. Ivi, p.4.
6. Ivi, p.9.

[Photo credit unsplash.com]

All’origine della crisi della scuola: sul caso Galli della Loggia

«Marco, dimmi un po’. Ora ti è venuta voglia di leggere un libro?». Il ragazzo è al terzo anno di un istituto tecnico, vive in un quartierino di provincia come tanti altri, con mamma infermiera e papà impiegato. Ci vediamo una volta la settimana, a ridosso delle verifiche più imminenti. Matematica, inglese, italiano: qualche problema con la grammatica, rifiuto totale per la lettura. Avanzo la domanda dopo aver studiato assieme un paio di poesie siculo-toscane del XIII secolo, d’uno specialismo linguistico da laureato magistrale in Lettere. «Neanche per sogno» risponde lui schietto, mentre con le mani chiude l’antologia di mezzo migliaio di pagine. La copertina tutta stropicciata.

Che ci sia qualcosa di sbagliato nel funzionamento della scuola lo capisco dalla risposta di Marco, e da quell’antologia pesante e autoreferenziale che dovrebbe creare affezione crescente per il libro come tecnologia della conoscenza, non certo rigetto! Un paradosso sconfortante, forse all’origine delle tante proposte di rinnovamento che scuotono oggi l’istituzione scolastica.

L’ultima in ordine di tempo è quella firmata dallo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia nella sua Lettera sulla scuola, apparsa online il 4 giugno scorso, sezione Opinioni del Corriere della Sera1. Cattedre più alte per i professori, gite scolastiche solo in terre nostrane, abrogazione definitiva della rappresentanza parentale negli istituti: un decalogo polemico e saccente, destinatario simbolico il neo Ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Per lui dieci semplici misure da adottare «già dal prossimo settembre», così da dare l’idea «che qualcosa stia veramente per cambiare nella scuola italiana».

Impensabile passasse inosservato, il vademecum per programmatori scolastici messo a punto da Galli della Loggia piove sul dibattito pubblico a pochi mesi di distanza da una serie sconcertante di episodi di bullismo perpetrato da giovani studenti – o, peggio ancora, dai loro genitori – a insegnanti di mezza Italia, in un’escalation di violenza che nell’era delle reti sociali e degli smartphone perennemente a portata di mano si propaga velocissima fuori dalle mura scolastiche.

In un clima di tensione accesa sul nervo scoperto della scuola, il decalogo di Galli della Loggia ha restituito, secondo molti, l’immagine stucchevole di una filosofia dell’educazione paternalistica, retrograda, deteriore. Un’idea logora di scuola che non ha certo trovato d’accordo il fisico e professore universitario Carlo Rovelli: «Non dobbiamo avere nostalgia di un mondo passato che non era migliore del nostro, non si educano i giovani con autoritarismo ottocentesco», commenterà acido e sessantottino nel suo contro-editoriale2.

Ennesimo screzio di una frizione pregressa, quella tra Galli della Loggia e Rovelli, con botta e risposta consumati sulle pagine della stessa testata, divenuta terreno di scontro virtuale tra le due forme della conoscenza che regolano la nostra civiltà: da una parte la cultura scientifica, interessata al movimento, alla trasformazione e all’innovazione permanente; dall’altra quella umanistica, che celebra invece l’estetica del fermo, della resistenza tradizionale alla distruzione creatrice del progresso (non sono forse cambiamenti retrogradi e anti-progressisti, quelli proposti da Galli della Loggia per contenere all’odierna deriva dei costumi culturali?).

Oltre il conflitto dialettico tra la cultura scientifica e quella umanistica, articolate nelle rispettive ragioni dai due editorialisti del Corriere, le proposte contemporanee per salvare la scuola non tengono in minimo conto una riflessione filosofica sulla crisi del discorso educativo lunga quasi due secoli, e capace di andare al di là del manicheismo partigiano di chi difende il sistema educativo tradizionale e di chi vorrebbe invece rovesciarlo.

Sarebbe infantile – scrive Theodor Adorno in Theorie der Halbbildung (1959) – pensare che basti riformare i programmi didattici per sanare le lacune melmose su cui poggia il sistema educativo. Dibattere la reintroduzione del predellino nelle aule scolastiche non ha alcun senso se nulla facciamo per neutralizzare l’avanzata inesorabile del «potere extra-pedagogico», la presa asfissiante alla gola dell’educativo da parte di ciò che a esso dovrebbe rimanere esterno. Un esempio? Il mercato, che vuole l’educazione prona alle sue esigenze strutturali – profitto, competenza, produzione, innovazione – ma anche la politica, che della scuola tende sempre a fare strumento d’indottrinamento di massa, dispositivo disciplinare nelle mani di un preciso progetto d’obbedienza morale.

Ecco che il compito della filosofia dell’educazione, come scritto da Mino Conte ne La forma impossibile (2016), dovrebbe essere quello di sottrarre la scuola a ogni forma di «riduzionismo (o tentazione) tecnicistico-amministrativo-commerciale». Una presa di posizione netta e necessaria contro la mano invadente e molesta del mercato (e della politica), anche a costo di tenere la scuola all’oscuro di ciò che accade nel mondo: è dall’oscurità che sgorgano le forme di vita, non solo vegetativa.

Sottrarre la scuola al richiamo suadente dei poteri extra-pedagogici vuol dire anche superare il «falso principio» su cui essa si fonda, ovvero l’idea che il sapere abbia natura accessoria, bagaglio cognitivo da amministrare e trasmettere attraverso una burocrazia didattica che ha perso ogni rapporto erotico la conoscenza. Un sapere che non espande il raggio d’azione e di vita di chi vi s’immerge, un sapere che non diventa personalità cosciente.

Necessario che gli insegnanti, scrive Massimo Recalcati ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (2014), tornino a trasformare i corpi teorici – libri, teoremi, quadri, poesie (anche quelle siculo-toscane del XIII secolo) – in corpi erotici, capaci di accedere il desiderio della conoscenza. Questa la condizione prima per pensare la scuola oltre la sua crisi.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. E. Galli della Loggia, Lettera sulla scuola, in “Corriere della sera”, 4 giugno 2018
2. C. Rovelli, Il predellino? No, ai docenti serve dignità, in “Corriere della sera, 6 giugno 2018

 

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Il coraggio filosofico di sporcarsi le mani. Intervista ad Antonio Calò

Antonio Silvio Calò è un professore di filosofia che insegna al liceo classico Antonio Canova di Treviso, da sempre molto amato ed apprezzato. Negli ultimi anni si è parlato moltissimo di lui per la sua scelta di accogliere sei ragazzi richiedenti asilo provenienti dall’Africa nella sua casa della provincia di Treviso; i sei ragazzi si sono aggiunti al professore, alla moglie Nicoletta, e ai quattro figli della coppia, andando a formare una grande famiglia allargata della quale abbiamo avuto il piacere di parlare in occasione della nostra rivista #5 – Le dimensioni dell’abitare.

Anche in questa occasione, il professor Calò ha saputo dimostrare (e ancora riesce a farlo) che la filosofia non sta rinchiusa nei libri, che la coerenza tra quello che si dice e quello che si fa è un valore fondamentale e che i ragazzi, quei ragazzi perennemente descritti (bollati frettolosamente) come viziati e svogliati, di questo se ne accorgono: per questo hanno bisogno di modelli. Questo è infatti il vero significato della parola educatore e dunque della missione di professore: costituire una guida, fare da conduttore e, in altre parole, fare da esempio.

 

Che cosa significa per lei essere professore di filosofia? Come vive quotidianamente la relazione con i suoi studenti e che influenza può avere la filosofia su di loro, oltre che su di lei?

Per me il ruolo della filosofia è proprio la meraviglia, lo stupore. Di fronte al mondo avere il coraggio  – perché ci vuole del coraggio – a meravigliarsi e stupirsi, attraverso quell’esercizio molto semplice ma desueto che è domandarsi il perché, porsi domanda. La filosofia insegna a capire che l’uomo è tale nel momento in cui ha il coraggio di porsi in questo modo; la capacità di rendersi conto che le cose non sono così scontate e andarci dentro può stupirti in positivo e in negativo, può farti vedere un mondo che tu pensavi non fosse tale. Poi la filosofia non è soltanto la domanda e il perché ma è il tentativo della risposta, perché non credo in una risposta definitiva, credo nel tentativo di dare una risposta a seconda del momento storico, tentativo che non sempre poi può essere così costruttivo, tante volte quella risposta può essere destrutturante, distruttiva, ma la grandezza è nella domanda.

Riguardo la filosofia nella scuola e in relazione ai miei studenti, invece, penso che stia nella coerenza tra quello che fai e quello che pensi. Il filosofo non è grande non appena ha elaborato una sua teoria, né l’insegnante di storia della filosofia è grande perché riporta il pensiero dei singoli filosofi in maniera corretta. Grande è il docente che attraverso queste figure pone le domande fondamentali. Ma lui stesso si è messo in gioco e gli studenti se ne rendono conto, se ne devono rendere conto perché la stima non può essere basata soltanto sul fatto di essere capaci nel declinare il pensiero di un filosofo ma è lasciarsi immergere nella dimensione filosofica, però ancorandola profondamente all’oggi e alle questioni personali. Secondo me la filosofia vera è quella che ha il coraggio di sporcarsi le mani con la storia. Quindi il docente deve avere questa funzione, la filosofia deve essere anche educatrice, la filosofia che non insegna dei valori, che non ha il coraggio dei valori, che non ha un rigore – perché anche il rigore è necessario e riporta di nuovo alla coerenza – ha poca forza, incide poco. Invece secondo me la filosofia deve avere il coraggio di  giocarsi questa partita, sapendo che magari a volte si perde.

 

Interessandomi oltre che di filosofia anche di pedagogia e pensando che anche per ogni professore non debba mai essere disprezzato tutto il piano pedagogico-educativo, una delle grandi domande che mi pongo anche per il futuro è quali possono essere veramente le prospettive di interventi educativi, il fatto di diffondere senza l’obbligo ma col sorriso la passione per la lettura, la passione per lo studio e la sua “erotizzazione” come direbbe Massimo Recalcati.

Innanzitutto devi essere tu il testimone. Non puoi continuare a dire ogni volta: “fate, fate, fate!” ma devi far vedere che leggi, che approfondisci, che studi, che sei in ricerca, ti muovi e interroghi te stesso e gli altri. Insomma dimostrare che sei vivo, per prima cosa devi essere tu il protagonista. Il docente deve trasmettere prima di tutto una testimonianza di coerenza tra quello che dice e quello che fa.

Coerenza del docente, della persona per come si pone nel mondo. Pensiamo, difatti, alla base dell’educazione e della formazione ove v’è il grande tema della relazione. Relazione vuol dire avere il coraggio di mettersi in gioco, di discutere, di confrontarsi e, spesso e volentieri, al docente – magari c’è tutto il sapere del caso – manca questo aspetto fondamentale, quello della relazione, appunto.

Terza cosa fondamentale: il docente deve essere una persona curiosa, deve trasmettere quello che chiamiamo volgarmente “passione”. La cosa fondamentale è un’altra: avere il coraggio di insegnare a questi ragazzi che per arrivare a pronunciare parola o giudizio o opinione intorno a un tema bisogna sporcarsi direttamente le mani. Per lo studente vuol dire andare a intervistare, come state facendo voi, ma anche leggersi una rivista, un giornale. I miei studenti sono interrogati ogni martedì sull’attualità, sono obbligati a leggere i quotidiani. Non è possibile che un liceale esca fuori dal liceo senza avere idea del mondo che lo circonda: bisogna assolutamente confrontarsi con la realtà. Però, ripeto, tu per primo devi essere il testimone perché il ragazzo ti segue fino all’inferno e in paradiso ma ti segue volentieri se capisce chi è il condottiero. Chiaro che se sacrificio diventa divertimento non sembra più sacrificio; se l’insegnamento è prima di tutto anche divertimento, perché il sapere e la conoscenza sono un divertire nel senso più profondo dell’etimo, allora non ti accorgi neanche della fatica che stai facendo, fai volentieri e vai avanti fino in fondo, ti giochi tutte le partite.

 

Siamo figli di un’epoca di crisi esistenziale e valoriale capace di portare a prospettive profondamente nichiliste. Oggi, in misura diversa dal passato, fare il professore, ricoprire una carica e testimonianza pedagogica comporta una responsabilità e una forza nuove. Nei professori che ho avuto la maggior parte delle volte ho visto rassegnazione e senso di desolazione riguardo agli orientamenti e al senso del proprio agire, del proprio essere nel mondo privi di appigli, liberi o fin troppo prigionieri di ideologie. Quali sono i suoi metodi e che cosa propone per il futuro dei giovani?

Intanto sono d’accordo con te. Il docente comunque deve ricordarsi sempre che è un educatore. Se educhi conduci, dalla radice, il conducere, accompagnare nella formazione di una persona. Il sapere non è un mero sapere mnemonico, è un sapere vissuto quindi che si incarna, che chiaramente segna e incide. Allora questo sapere secondo il mio punto di vista è un sapere educante, cioè è un’azione educativa, e la prima educazione come ho già detto è il tuo modo di agire, è la dimensione etica che ognuno di noi vive. La dimensione etica è una dimensione che ha delle regole, l’etica di suo ha delle regole, però le regole di oggi sono regole sempre più soggettive ma a questo punto mi domando: una regola soggettiva può essere considerata una norma? Io penso di no e che l’etica abbia una sua consistenza quando si rapporta con l’Altro, quando crea relazione e quando questo avviene comporta sempre un atto di responsabilità. Ecco la funzione del docente, ovvero la capacità di rendersi conto che qualsiasi relazione vera è sempre un atto di responsabilità, a maggior ragione quando trasmettono saperi e conoscenze. La stragrande maggioranza delle persone non vuol più sapere, perché il sapere implica una conoscenza e una responsabilità. Ecco la radice di quell’ignoranza diffusa, ecco la radice di questo fuggire da un’etica seria, quindi da un sapere valoriale dove anche i valori entrano in gioco. Non essendoci più un’etica non ci sono norme se non quelle soggettive che non hanno più una valenza che non sia utilitarista.

Vi è sempre questo processo di giustificazione che ha ucciso qualsiasi norma che relaziona. Oggi non si trasmette più niente, perché? Perché ogni cosa che viene trasmessa è messa in discussione nel giro di pochissimo tempo, non c’è neanche lo spazio per poter finalmente far proprie le norme stesse, le nostre responsabilità. I ragazzi se ne rendono conto e ne stanno pagando le conseguenze. Loro pensano sempre che alla fin fine tutto sia possibile, invece bisogna saper mettere dei paletti. Io fin dai primi cinque minuti della prima lezione del triennio metto i paletti etici, cioè il modo in cui ci dobbiamo comportare perché solo con delle regole sul comportamento è possibile una vera trasmissione di conoscenza, una vera educazione che sia continua, non un momento, un giorno isolato. Quello diventa il presupposto per qualsiasi tipo di avventura conoscitiva: se non c’è questa base è finita. Anche per questo dico sempre ai miei studenti che non sarò mai loro amico. Questo nulla toglie che poi all’interno dei giusti ruoli il docente non si pieghi in due pur di far capire, pur di ascoltare, pur di conducere ma questo non vuol dire che debba perdere la sua funzione di educatore.

Per essere docente la trasmissione può avvenire se c’è un sapere conclamato e una persona che ha bisogno di quel sapere conclamato, però devono esserci ruoli e chiarezza, altrimenti è chiaro che la sensazione è che tu possa comunque sapere senza sapere. Ormai siamo tutti tuttologi, tutti parlano, parlano, parlano senza aver mai fatto un’esperienza diretta. I miei studenti parlano solo a due condizioni: o hanno fatto un’esperienza diretta o hanno una bibliografia di riferimento per cui possono parlare a riguardo, altrimenti tacciono.

 

Proprio a questo proposito vorrei sollevare una questione di cui si discute molto, soprattutto ultimamente, ovvero il ruolo che hanno nell’educazione i nuovi mezzi di comunicazione. O meglio: questi nuovi strumenti hanno migliorato o peggiorato il nostro rapporto con la conoscenza?

Secondo me dobbiamo avere il coraggio di dirlo: i mezzi tecnologici attuali e i mass media sono pessimi su un piano educativo. Uno che guarda la televisione che cosa riceve a livello educativo? Si può urlare, si può insultare, interrompere continuamente, si può fare tutto quello che non si dovrebbe fare secondo un codice minimo di educazione. Tutti pensano che si possa fare tutto. Non c’è l’umiltà della conoscenza, non c’è il coraggio di inginocchiarsi di fronte al sapere e il sacrificio del sapere è inevitabile, il sapere è in salita, non è in discesa. Eppure in televisione si dà per scontato che tutti possano disquisire su tutto. Questa è proprio la maleducazione, l’educazione fatta male. La conseguenza la vediamo tutti i giorni, il ragazzo che interviene sul voto, il genitore che lo sostiene. Qua il problema sono i genitori incapaci di dire un no al proprio figlio, i genitori che anche loro sono convinti di poter parlare su tutto. Se un genitore viene e mi mette in discussione, io il giorno dopo sono nel suo ufficio a controllare che cosa sta facendo. Non ti puoi inventare docente: ognuno deve stare al suo posto. Il peccato di questa società è che ormai nessuno si fida dell’altro e questo non fidarsi crea delle continue interruzioni. In questo ha fallito la società, ha fallito la famiglia, ha fallito la scuola come luogo, ha fallito il docente che tra l’altro non è in grado di gestire la classe.

 

A proposito di ruoli, dato che ha parlato di ruoli della società e considerata la sua esperienza in canonica, qual è il ruolo della fede nel rapportarsi alle persone?

Io credo che la crisi abbia colpito anche la dimensione della fede. I casi li abbiamo intorno, stanno “saltando” anche i preti, in primis perché c’è una solitudine profonda, una grande solitudine che non ha senso. L’ho visto in questi quattro mesi, vedo come due sacramenti così importanti come il presbiterato e anche la famiglia alla fine sono complementari, si aiutino a vicenda, diventino una forza completamente diversa. Innanzitutto si sostengono a vicenda in momenti di crisi e poi diventano quel luogo familiare perché sono due entità che alla base della loro validità hanno l’ascolto, la narrazione, l’accoglienza. Un prete che non sa ascoltare, che non sa relazionarsi, è meglio che faccia un altro mestiere; per la famiglia però, nel caso quindi dei genitori, vale lo stesso. Il problema fondamentale è nella formazione di queste figure, per esempio sono i seminari che andrebbero rivisti e corretti. Secondo me, e qui faccio solo un esempio, sarebbe bellissimo che ci fossero sei/otto mesi d’obbligo di vita in famiglia, che si sia obbligati a stare in canonica a fianco ad un famiglia per capire le problematiche, perché altrimenti vivono in un altro mondo, poiché il mondo della pastorale non è il mondo. Per sporcarsi le mani bisogna entrare in quelle che sono le dinamiche familiari vere, quelle che vediamo. Quindi secondo il mio punto di vista il messaggio è quello di far capire che se vogliamo salvare la famiglia e la fede, esse devono allearsi; all’interno della Chiesa queste due figure sono complementari e si aiutano a vicenda e tale prospettiva, su un piano profondamente religioso-costruttivo, crea comunità, quello spazio di ascolto e relazione di cui abbiamo bisogno.

Oggi il tema religioso è paradossale: col vuoto a livello generale e la solitudine spaventosa che ci sono oggi, il cristianesimo – straordinario attraverso i Vangeli, un messaggio bellissimo per l’uomo – non incide, e questo perché gli uomini che dovrebbero testimoniarlo non sono in grado di farlo. Per testimoniare il cristianesimo ti devi sposare con l’umanità, come dice Papa Francesco, e devi sapere l’odore delle tue pecore. Ma le pecore chi sono? Sono le famiglie. Dunque come fai a sapere l’odore del tuo gregge se stai arroccato nel tuo mondo, fatto poi di un’organizzazione rigida e di questioni amministrative? La fede non è una sicurezza, paradossalmente la fede vera è una dimensione precaria, è affidarsi, e anche il prete si deve affidare a Dio. Il Signore ha detto che ti bastano dei sandali e un bastone, il resto viene perché tu ti poni con lo spirito dell’amore, dell’ascolto, della misericordia e a quel punto la gente ti viene dietro perché il mondo di oggi è affamato di relazione, di accoglienza. La critica però vale anche per la famiglia, per noi genitori: le famiglie che nascono senza un autentico perché, che si generano secondo forme di egoismo. Ormai la famiglia è portatrice di un egoismo sociale. Non lo dico con tristezza, lo dico con consapevolezza e una dose di autocritica.

Perché dico che il cristianesimo è ancora grandissimo? Perché abbraccia l’uomo in cammino, ovvero l’uomo precario, del relativismo totale, del nichilismo di cui si parlava prima; è solo e incapace, mentre tu cammini cadi, chi ti raccoglie dunque? Nessuno, non interessa a nessuno. Per questo il buon samaritano deve ritornare nel mondo: devi fermarti davanti all’uomo che cade e condividere con lui. Il problema però è più grande e non voglio essere nostalgico o reazionario, no: in passato era un disastro comunque. Una cosa che però aveva un senso un tempo era il canone. Senza il canone l’uomo è un atollo e non vi sarà nessuna relazione, nessun noi, nessun tu, ci sarà sempre e solo un io. Per forza poi che assistiamo a certi accadimenti. Inutile nascondercelo, per me era giusto mettere in discussione il canone precedente ma non si può pensare di discutere un canone e di non sostituirlo poi con un altro. La verità è che negli ultimi 50-60 anni non si è trovato il coraggio di creare un canone nuovo e senza il canone come fai a dire che una cosa è giusta o meno? Ciò che manca è il canone, che non vuol dire rimpiangere il canone precedente, altrimenti come decidiamo della validità delle cose? Per uscire fuori da tutto ciò abbiamo bisogno di un nuovo patto, un nuovo contratto sociale, un nuovo canone.

 

Alvise Gasparini

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Festivalfilosofia: la Filosofia torna alle sue origini riscoprendo il valore della Piazza

Anche quest’anno il comune delle città di Modena, Carpi e Sassuolo ha dedicato tre giornate, dal 16 al 18 settembre, alla filosofia, invitando sul palco i grandi pensatori, nazionali e internazionali, della nostra contemporaneità.

L’agonismo è stato il tema centrale non solo delle lectio magistralis tenute in occasione di questa sedicesima edizione del Festival, ma anche di laboratori e concerti in piazza, attività e giochi per i bambini, nonché spettacoli di danza e teatro che hanno animato le piazze di queste tre cittadine dell’emiliano.

Festivalfilosofia 2 - La chiave di SophiaLe vetrine dei negozi, come ogni anno, presentavano cartellini rossi e bianchi – i colori del Festivalfilosofia – con gli aforismi dei più noti pensatori che si sono espressi in termini di agonismo e conflitto, ma anche di pace e riconciliazione.

Sì, perché per agonismo non si intende unicamente quella forma prettamente negativa di antagonismo distruttivo tra due o più individui in conflitto, ma soprattutto quell’energia positiva che può avere origine dal confronto della competizione.

Il filosofo Andrea Riccardi ci ha parlato di un antagonismo che muove guerre mondializzate spingendo l’individuo a lottare per la pace. Remo Bodei, direttore del Comitato Scientifico del festival, si è concentrato piuttosto nella lotta più feroce di tutte: quella contro se stessi, ovvero contro le infinite possibilità e scelte che l’esistenza ci offre e che talvolta ci spingono a rincorrere un ideale di perfezione che, come ha sostenuto la filosofa Michela Marzano durante la sua lectio sul “Management dell’esistenza”, non fa altro che imprigionarci in una “gabbia dorata”.

Quella in cui viviamo è senza dubbio una società della competizione, una società in cui il sano agonismo rischia sempre più frequentemente di trasformarsi nell’esaltazione dell’egoismo individualistico. Se da un lato come sostiene bene il filosofo francese Georges Vigarello, lo sport è diventato una sorta di mito che permette di “credere e far credere” («croire et faire croire») nelle immagini di un nuovo tempo presente cui è possibile conformarsi, attraverso la proiezione di un ideale sociale spesso rincorso con sacrifici e sforzi e che spezza la società in falliti e vincitori, dall’altro lato Massimo Recalcati esprime il suo “elogio” del fallimento tentando di spiegare come le cadute e le fasi di “fallimento sociale” siano necessarie per ritrovare la giusta direzione da seguire, permettendo dunque a ciascuno di riempire di senso la propria vita.

Festivalfilosofia 1 - La chiave di Sophia

Questi sono solo alcuni degli incontri che hanno dato respiro alle piazze di Modena, Carpi e Sassuolo, facendo ritrovare persone provenienti da tutte le regioni d’Italia, unite da una stessa passione. Un’occasione questa per condividere e ascoltare, riflettere e confrontarsi, ritrovando nel proprio piccolo il senso profondo del fare filosofia attraverso lo stare insieme.

Un’occasione, quella del festival, per far capire come questo amore-per-il-sapere può toccare un pubblico più amplio, e come ognuno può dare il suo piccolo contributo. Un’occasione per ascoltare ed ascoltarsi. Per respirare la magia delle parole e per ritrovare quelle che abbiamo perduto.

Un’occasione, quindi, che permette di arricchirsi di nuovi spunti e di incontrare quei grandi maestri conosciuti attraverso i libri dell’università, oppure di ascoltare dal vivo quelli che ci hanno accompagnato nel nostro percorso di studi. Quelli che abbiamo amato e perché no, anche poco apprezzato. Riconquistandoci poco a poco con le parole, e donandoci un pezzetto della loro storia attraverso un pensiero diventato vicino, incarnato, non più distante e astratto.

Ognuno lasciando una traccia di sé e del proprio vissuto. Frammenti di esistenze ricuciti insieme dal filo rosso del pensiero. Un pensiero che talvolta si ingarbuglia, facendosi complesso e intricato, e che balbetta per poi sciogliersi davanti ad un pubblico capace di accoglierlo e “abbracciarlo”.

Perché in fondo che cosa significa fare filosofia se non assaporarne le infinite sfaccettature e declinazioni, facendola diventare una pratica quotidiana?

Ogni anno il Festivalfilosofia cerca di trasmetterci, attraverso delle pillole tematiche, il valore contemporaneo di una pratica che può entrare nelle case di tutti, invitando ciascuno all’uso del ragionamento critico.

Malgrado il maltempo di venerdì scorso, le lezioni sembrano aver registrato un numero di presenze da record, e un tale successo non fa che ben sperare per la prossima edizione.

Non ci resta quindi che attendere il prossimo settembre, anno dedicato alle “arti”, la nuova parola tematica del festival.

Sara Roggi

Pordenonelegge 2016: festa del libro, festa della vita

PNLegge 1 - La chiave di SophiaHo scelto questo titolo un po’ retorico perché in realtà è stata proprio questa l’impressione generale che ho tratto da questo festival, che dal 14 al 18 settembre ha festeggiato la XVII edizione tingendo Pordenone di giallo. Un giallo solare e vitale – “acuto”, direbbe Kandinskij, punzecchia – che sventolava a festa su ogni strada, sopra le teste di tutti, ma anche il giallo negli occhi del gattone nero Proust che dalle vetrine dei negozi osservava sornione passanti curiosi ed organizzatori indaffarati.
Sì, la città tutta era attiva ed entusiasta: gli “angeli” volontari, i cittadini e gli ospiti affamati di eventi, la cameriera della locanda con il suo librone dove da anni colleziona le dediche degli autori di passaggio. E poi sì, anche gli autori, e tutto quello che ci hanno lasciato nella mente e nell’anima.

C’è vita nelle storie di suor Rosemary Nyiumbe, che con ago e filo ricorda alle donne d’Uganda sfuggite alle grinfie dei ribelli che una dignità l’hanno ancora e che è preziosa; la vita, secondo lo psichiatra Eugenio Borgna, va ricercata in parole silenziose e sguardi invisibili; c’è vitalità e amore nella musica di Francesco De Gregori e nel segno di Luigi Boille – perché nemmeno le mostre d’arte mancano in questa edizione del festival. C’è un mondo di spunti da scoprire nel racconto di vita di Dacia Maraini, c’è la vita dell’arte raccontata dal sociologo Alessandro Del Lago, e c’è l’architettura che dà la vita negli scenari di guerra, come quella dell’architetto Raul Pantaleo. Ci sono i valori della vita quotidiana che la cruda modernità sembra spingerci a dimenticare, come ci fa notare la filosofa Roberta De Monticelli, ed allo stesso PNLegge 3 - La chiave di Sophiamodo un altro filosofo, Leonardo Caffo, c’invita a ricordare la dignità degli animali e a dare più valore alle loro vite. Poi ci sono le storie dall’Arabia Saudita di Raja Alem con la sua piccola Khatem, una bambina divisa tra un corpo femminile ad una sessualità maschile, così come il cucciolo di tigre siberiana uscita dalla penna di Susanna Tamaro si ribella ad una vita che si declina entro schemi fissi e ripetitivi; la giornalista Concita De Gregorio dà voce alle ragazze, dai 5 ai 90 anni, ai loro pensieri più o meno inaspettati ma assolutamente autentici. Il giornalista Bruno Arpaia ci spalanca gli scenari di vita futura, quella durissima vita che ci toccherà se non prenderemo sul serio il cambiamento climatico, quella che stanno già subendo i migranti di cui ci parla anche la giornalista Lilli Gruber; cambiamenti di cui pure il meteorologo Luca Mercalli offre una prospettiva. Il letterato Nuccio Ordine ci ha ricordato come i classici della letteratura possono trovare vita e valore anche nella nostra quotidianità, un po’ come lo psicoanalista Massimo Recalcati ha elogiato la lettura come conoscenza del sé e degli altri, principio che vale per noi adulti così come per i bambini e i ragazzi: molti eventi erano dedicati proprio a loro, che sono infinite fonti di energia e creatività – e l’hanno dimostrato.

C’era anche, e giustamente, molta attualità: si è parlato di “caos geopolitico” causato dalle guerre e dalle migrazioni, calandole nel contesto attuale senza marginalizzare la memoria storica e senza dimenticare i cambiamenti che tutto questo provoca all’interno della nostra visione d’orizzonte, il modo in cui essi toccano il PNLegge 4 - La chiave di Sophianostro sentire, la nostra coscienza; ugualmente per il terrorismo, quel mondo islamico che comincia a farci paura e al quale invece dovremmo rapportarci con più coscienza, con forza di spirito e non fisica, viscerale. Non a caso il festival ha richiamato voci straniere (e voci italiane a parlare di cultura straniera), perché il confronto con l’altro possa aiutarci a convivere più serenamente su questo pianeta. La prospettiva mondiale poi è stata giustamente affiancata da quella locale, dunque sono state condivise storie legate al nostro territorio, il suo paesaggio, geografia, politica, gastronomia. Si è parlato molto anche di tecnologia e del modo inevitabile in cui ha modificato le nostre vite, perciò è stato spesso evidenziato il pericolo nel nostro modo di usarla ma anche quanto sia scorretto demonizzarla come strumento.

Ad intervenire sono stati davvero in tanti, fare una selezione è davvero complicato. Citerei però per concludere la docente della LUISS di Roma Francesca Corrao, che ci ha offerto un po’ di conoscenza dell’Islam citando in particolare Le mille e una notte, questa storia terribile di un re persiano che fa giustiziare le sue spose perché spaventato dal genere femminile, a lui estraneo – finché non arriva Shahrazad: con i suoi racconti, lei gli insegna che esiste anche un mondo bello e delle persone buone: il racconto, la condivisione e la conoscenza sbriciolano i muri della paura ed anche il re finisce per cambiare idea – in un certo senso, guarisce. Noi siamo quel re, e per sbriciolare la paura dobbiamo continuare a cercare storie.

Parlare di cultura è parlare di vita. E quando la cultura si raccoglie insieme, con tutte le sue innumerevoli sfumature e in un’atmosfera di festa, non puoi fare a meno di sentirti più vivo, ed anche più ricco.

Giorgia Favero

Un desiderio per una stella

Ogni anno, un po’ come quando a Natale si aspetta con ansia la mezzanotte della vigilia per scartare i regali, la notte di San Lorenzo rappresenta un’occasione da non perdere.

Ci si distende sulla spiaggia e si guarda il cielo, con lo sguardo un po’ perso nel vuoto.

Si attende la scia luminosa di quella stella che traccia, sul cielo scuro, un disegno dorato.

Si esprime quel desiderio, meditato nei giorni precedenti, nella ferma convinzione che qualcosa potrà cambiare, che davvero ci sarà una svolta. Read more

Grida in silenzio

Siamo un grido nella notte.

Così Massimo Recalcati, uno dei più noti psicanalisti italiani, definisce l’individualità umana ne Il complesso di Telemaco.

Ciò che fin dalla nascita anima la vita umana è il desiderio, il cui oggetto si identifica con l’Altro.

Ognuno di noi è irrimediabilmente esposto, aperto e alla ricerca disperata di qualcuno in grado di rassicurarci. Quella che noi ogni giorno gli rivolgiamo è una domanda d’amore, come ciò che dà senso alla vita.

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