Sull’inutilità della cultura umanistica

Nei giorni scorsi è tornata a galla sui giornali una polemica antica e che periodicamente riemerge sottoforma di dibattiti sterili e passeggeri: l’inutilità delle materie umanistiche e la loro possibile gestione con il numero chiuso nelle università. Chiudendo l’accesso libero alle facoltà umanistiche (che non si specifica mai cosa comprendano) sarebbe possibile arginare il flusso di giovani laureati che poi ovviamente non può trovare lavoro, colpevoli di una scelta di studi sbagliata da un punto di vista organizzativo, gestionale.

La questione rientra in quel tipo di problematiche di cui non si sa mai se ridere a crepapelle o disperarsi. Quali sono infatti i criteri che stabiliscono l’utilità di qualcosa? Come riescono tutti a parlare in modo così sicuro e risoluto di cosa significhi che qualcosa non serva? Da dove viene l’idea che l’utilità sia il criterio per cui decidere della vita o della morte di qualcosa? Forse l’inutilità si associa facilmente alle facoltà di lettere? Di filosofia? Di storia dell’arte? Possibile, ma allora perché non a quelle di fisica? Che sfornano personaggi al quanto bizzarri, come quel fisico americano che ha stilato un percorso di dieci fasi attraverso cui l’uomo dal suo stato attuale arriverà a controllare l’intera energia della Terra, poi del sistema solare, poi dell’intero universo, fino a condurlo allo stato di vero e proprio Dio, in cui con la mente potrà controllare ogni parte dell’essere presente, passato, futuro (!).

Perché non si parla mai dell’inutilità sociale dello studio della matematica pura? E ha per caso qualche utilità per la nostra vita una qualche missione satellitare ai confini del sistema solare, come quelle di Voyager o Pioneer? O lo studio della cristologia? O della criptozoologia? O degli Oopart? O delle armonie di Messiaen?

Forse si dovrebbero continuare coraggiosamente le insinuazioni di chi pretende di conoscere le chiavi del sapere e della sua utilità e affermare che l’unico sapere oggi ritenuto valido è quello pratico ed economico: che offre la possibilità di fare, costruire, modificare, il primo, e di gestire, amministrare, le risorse possedute e create il secondo. Tutto il resto non è che un contorno accessorio di ottimi passatempi. L’antica unione dei saperi, cioè di diversi saperi uniti nel segno del rigore, della chiarezza, della verità del loro contenuto, che avrebbe reso risibile la moderna divisione in cultura scientifica e umanistica, è oramai persa. Da Vinci era scienziato o artista? Platone filosofo o matematico?

L’indecisione stessa, ad esempio come quella manifestata nel Corriere da Gramellini1, nel trattare l’argomento dell’inutilità dei saperi è essa stessa un sintomo del tipo di cultura in cui già viviamo: non si tratta nemmeno quasi di pensarci, di valutare idee sparate a caso da qualcuno che non è nemmeno toccato lontanamente dal problema culturale. Il fantasma ideologico che ci affligge è quello per cui si crede di poter gestire la cultura e i flussi di persone nelle loro scelte e nel loro essere. Allo stesso modo di come si gestiscono le cose (per chi ha il cosiddetto senso pratico) o il denaro (per chi amministra).

Ipotizzare soltanto di poter creare un controllo su cose simili significa avere la presunzione di conoscerle, di conoscere qual è il bene per qualcuno, che la strategia di gestione sia efficace nei confronti dell’obiettivo della riduzione della disoccupazione. Oltre al fatto, ancora più radicato, di non avere minimamente idea o di campare di una idea semplicistica all’inverosimile, che la cultura inutile sia solo quella umanistica.

Lasciamo che tutto sia come sempre è stato allora: che ognuno scelga quello che è destinato a scegliere e a voler essere. E piuttosto si formino ancora meglio quelle teste, si renda più rigoroso e duro il percorso, lo si specializzi, lo si renda pure chiuso ma solo per la ricerca della più alta qualità e non per chissà quale potere gestionale (la differenza di approccio c’è): così da rendere più solido e forse più elitario un percorso, quello umanistico, che sta perdendo dignità e forza sotto i colpi degli ignoranti.

 

Luca Mauceri

 

NOTE

1. M. Gramellini, Numero chiuso, in “Il Corriere della Sera” 18/5/2017 > link

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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È la democrazia bellezza (?)

Ovvero ha senso considerare accorgimenti al suffragio universale per un migliore funzionamento della democrazia? O forse bisognerebbe ragionare d’altro?

Se ne sta discutendo in questi giorni successivi all’incredulità di buona parte dell’opinione pubblica e dei media di fronte all’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti d’America.

In un sistema democratico tutti gli aventi diritto, esprimendo il loro voto, scelgono dei rappresentanti affinché facciano quello che li ha eletti: il bene comune, l’interesse della comunità, regione o nazione che sia. Se però i votanti non decidono per l’alternativa che appare la migliore e la più utile a tutti, il problema è del sistema, degli elettori o sta a monte?
Questa discussione parte da un presupposto abbastanza unilaterale che chi voti partiti estremisti e/o reazionari, xenofobi o solo populisti sia un ignorante. In realtà non è così, ma molto più complicato, come si è visto dalla vittoria di Donald Trump. Comunque sia alcuni ricominciano a chiedersi se il voto di questa persone debba valere come quello di una persona mediamente istruita e consapevole o meno.

La democrazia funziona solo se informata, come disse Franklin Delano Roosvelt,  ma allora che valore ha un voto se un terzo dei cittadini americani non sa nominare uno dei tre rami nei quali è suddiviso il potere in America? Il voto di una persona intelligente può valere come quello di un ignorante? Queste e altre domande si susseguono, nella corsa a capire le responsabilità e le reali volontà di una vittoria non pronosticata. E per capire che strada dovrà prendere la democrazia di qui in avanti.

Dopo questa scioccante tornata elettorale (si pensi anche a Brexit), si è ancora una volta ripreso a discutere se sia il caso di mettere dei paletti al suffragio universale così com’è inteso oggi. Prima di giungere ai saggi e alle proposte concrete di questi anni dobbiamo guardare a come funzionava la democrazia nei secoli. Il suffragio universale di per sé è una conquista relativamente recente  infatti, risalente al ‘900, mentre prima le restrizioni al suffragio erano molte: in base al sesso, alla razza e anche al censo (come in Italia), intese soprattutto a far rispettare uno status quo escludendo le minoranze dalle decisioni.

Già lì dove nacque la democrazia, nelle polis greche, fu Platone a teorizzare un governo di filosofi, intravedendo alcuni limiti del potere di tutti. Nel 1700 poi il filosofo americano John Stuart Mills pensò si potesse equilibrare il potere di voto permettendo di votare più volte alle persone più colte.

Cosa si propone adesso? Il più noto esempio, citato in questi giorni, è un saggio di Jason Brennan, Against Democracy, nel quale il giovane filosofo della Columbia University riprende queste idee e le soppesa per capire se potrebbero funzionare oggi. L’assunto da cui parte è il fatto che noi oggi vediamo il suffragio universale come un diritto inalienabile. Impossibile da mettere in discussione. Brennan dice invece che sì la democrazia è il governo migliore sperimentato finora, ma ciò non vuol dire che non sia possibile di miglioramento. Sulla scia di Platone propone quindi una forma ibrida: un governo di ben informati, grazie alla limitazione ad hoc del suffragio universale. Fino a qui si potrebbe essere d’accordo, ma quando si tratta di come realizzare questo sbarramento le cose si fanno più confuse. Scontrandosi con questa difficoltà la cosa per il professor Brennan più semplice da fare è selezionare i votanti guardando al livello di istruzione. Dato che può essere indicativo ma non assoluto (poiché uno stupido che frequenta una buona università molto probabilmente diventerà uno stupido istruito), oltre che potenzialmente di discriminatorio.
Come si è visto dalle ultime elezioni americane la Clinton è andata forte tra le persone con un PhD (dottorato di ricerca), mentre tra i laureati i votanti erano quasi equamente spartiti.

Qualcosa che non torna comunque c’è. Tutto il risentimento di molta gente per il famoso establishment, per il sistema politico che si incanala verso scelte drastiche, di rottura, molte volte dettate dalla paura di un mondo che sta mutando, non può e non deve rimanere inascoltato. Queste istanze ci dicono qualcosa, ci parlano della scarsa fiducia nella politica e nel suo sistema rappresentativo e non si può certo rispondere estromettendo direttamente parte dell’elettorato

Un bel articolo del New Yorker (A case against democracy) trattante questi temi a un certo punto si chiede: «But is democracy really failing, or is it just trying to say something?» La democrazia sta davvero fallendo o sta solo tentando di dirci qualcosa?

E se sì cosa ci sta dicendo?

Possiamo provare a capirlo solo se crediamo davvero che l’unica possibilità, perché una democrazia funzioni, sia che questa si basi su informazione e consapevolezza. E l’informazione è proprio ciò che è più in crisi oggi. Da una parte le difficoltà, economiche e di credibilità dei giornali, visti come parte dell’élite, dei quali non ci si può né ci si deve fidare, ma da osteggiare. Dall’altra contribuisce alla creazione di un’opinione pubblica poco e male informata il proliferare di bufale, notizie false o imprecise sui social network. Notizie che saranno certamente, come dice Mark Zuckerberg, una minima parte del traffico di Facebook, ma corrono molto più veloce della verità e arrivano a molte più persone, quasi autoalimentandosi. Se mettiamo in conto anche il fatto che si social siano la fonte unica o quasi di approvvigionamento di notizie di sempre più persone siamo di fronte a un cortocircuito.

Quindi sarebbe una buona e auspicabile proposta quella di un test di cultura e di educazione civica (in italia sostenuta da intellettuali come Massimo Gramellini) dietro il cui superamento ottenere il voto, ma l’educazione civica non si fa da sola. Bisogna istruire i cittadini se si vogliono cittadini consapevoli e bisogna informarli correttamente se li si vuole obiettivi. Luca Sofri, direttore del Post, che da anni si occupa di notizie fasulle e disinformazione ricorda che già Parise diceva che non si ha democrazia senza pedagogia. Ce lo si augura. E, in Italia almeno, vedere insegnata veramente l’educazione civica a scuola sarebbe un primo passo tangibile.

Tommaso Meo

[immagine tratta da Google Immagini]