Risposte globali per problemi globali

Il mondo contemporaneo si trova sul limitare di un crepaccio. Sotto di lui, come un torrente impetuoso all’interno di un canyon, scorrono i problemi e le sfide della nostra epoca; con un’azione di erosione, lenta ma continua, essi minano la stabilità della nostra posizione, facendoci rischiare la caduta nello strapiombo. Fuor di metafora, le Nazioni, la società e tutti noi – singoli individui – siamo di fronte a un bivio: trovare soluzioni per affrontare, o arginare, i problemi e le sfide del mondo contemporaneo o arrenderci e consegnarci nelle mani dell’inevitabile.
Per alcuni il punto di non ritorno è stato già superato: la crisi climatica avrebbe raggiunto una radicalità tale che le azioni che possiamo operare non possono fare nulla per evitare il declino dell’umanità. Per altri la situazione è drammatica ma, impegnandoci con decisione, potremmo essere in grado di limitare il problema nel presente e trovare soluzioni per risolverlo nel futuro. Per altri ancora, infine, un insanabile ottimismo li convince che l’apparato tecnico/tecnologico sia sicuramente in grado di affrontare la sfida, come in parte ha già mostrato di saper fare nel corso della storia umana.

Ma non esiste solamente la crisi climatica. L’uomo contemporaneo è accerchiato da una quantità tale di difficoltà, preoccupazioni e questioni da ritrovarsi la maggior parte delle volte disarmato e indifeso. Terrorismo, crisi migratoria, guerre economiche, assetti geopolitici instabili, scarsità di risorse, impoverimento culturale e crisi demografica sono solo la superficie di questa condizione terrificante.

Innanzitutto non bisogna lasciarsi sopraffare, analizzando con spirito critico ciò che ci si pone davanti. La prima riflessione che potrebbe emergere sarebbe quella di riconoscere la sostanziale interdipendenza che caratterizza questi problemi. Ciò è conseguenza necessaria della caratteristica sempre più complessa del mondo contemporaneo. “Complesso” non significa “complicato” ma intrecciato profondamente in un insieme di nodi, a formare una struttura resistente e compatta. Ciò significa che la prima azione da compiere è quella di riconoscere questa complessità, accettarla e capire che per affrontarla è necessario tenere conto delle infinite interconnessioni che formano – e non esauriscono – questo insieme.

Proprio questa caratteristica di complessità trascina la nostra seconda riflessione: questi problemi formano una matassa globale che nei suoi intrecci impatta sulla vita di tutti, nessuno escluso. Questa è anche una conseguenza necessaria della globalizzazione che ha contraddistinto lo sviluppo della società umana negli ultimi tempi e, riconosciuto questo fatto, dovrebbe allora risultare immediatamente chiaro che le azioni intraprese per affrontare queste questioni non possono che essere conseguenza di una risposta globale. Con buona pace dei sovranismi – la cui caratteristica intrinseca antistorica dovrebbe essere immediatamente visibile dopo la nostra, seppur breve, descrizione – risulta chiaro che risposte messe in campo a livello regionale, nazionale e “continentale” non possono più essere sufficienti per affrontare i problemi della contemporaneità e, anzi, si costituiscono esse stesse come nuovi problemi in quanto ostacolano una (se possibile) soluzione.

Ma come ottenere una risposta globale? Tentativi sono stati fatti – pensiamo alla COP21 a Parigi del 2015 e alle successive, come la COP27 che si sta svolgendo in questi giorni in Egitto – ma è evidente a tutti che finché gli accordi saranno siglati seguendo le disponibilità dei singoli Stati e con condizionalità ben difficili da far rispettare (basti vedere il ritiro degli Usa, sotto l’amministrazione Trump, dagli accordi di Parigi o, più recentemente, le posizioni di India e Cina) questi tentativi non faranno altro che rimanere tali. Il problema sostanziale è che non esiste una reale autorità che determini e regoli il gioco delle parti. Ogni singola Nazione (giustamente) tiene da conto i propri interessi individuali ma ciò la porta a mettere sul “piatto dei doveri” le minori risorse e il minor impegno possibili e a dedicarsi alla minor intraprendenza possibile. E può fare questo proprio perché non esiste un garante globale che obblighi ad un serio impegno i singoli Stati, avendo l’autorità di imporre reali sanzioni per il non rispetto degli impegni. In sostanza, un’unione globale di stati, che si articoli nei tre poteri fondamentali – legislativo, amministrativo e giudiziario – con tutte le controversie e proporzionalità del caso. Tentativi verso un’unione delle nazioni sono già stati intrapresi dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale, rispettivamente la SDN (Società Delle Nazioni) e l’ONU. La prima è già stata sciolta, mentre i problemi del mondo contemporaneo stanno sancendo il definitivo fallimento della seconda: il peso degli ammonimenti, delle (relativamente poche) azioni e delle indicazioni delle Nazioni Unite sono il più delle volte insignificanti su larga scala. Gli interessi particolari dei singoli Stati costituiscono una forza motrice troppo forte per essere minata da un organismo la cui autorità non è possibile da far rispettare, proprio perché non dispone né di sufficienti apparati volti allo scopo né di un reale principio valido per imporre quell’autorità.

La questione è ovviamente enormemente complessa ma risulta fondamentale iniziare a riflettere sulle sfide della nostra epoca a partire da un dato di partenza incontrovertibile: esse necessitano di risposte globali, essendo i problemi stessi globali.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit NASA via Unsplash]

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Una citazione per voi: Spinoza e Dio

 

DEUS SIVE NATURA

 

Quest’affermazione di Baruch Spinoza – filosofo olandese del XVII secolo – è ripresa dall’Etica, il suo testo fondamentale contenuto all’interno del volume Opera posthuma pubblicata nel 1677 pochi mesi dopo la morte dell’autore. Spinoza è uno dei pensatori fondamentali della modernità, che ha condizionato enormemente gli sviluppi futuri della filosofia, tanto che qualsiasi filosofo a lui successivo non ha potuto non confrontarsi con la sua dottrina.

Carattere peculiare di Spinoza è un assoluto determinismo, che verrà definito anche determinismo logico, poiché egli ritiene che è solamente la nostra ignoranza della catena causale che porta a un determinato evento a permetterci di parlare di “libero arbitrio” o di “finalismo”. Nonostante questa ferrea causalità, nell’Etica, Spinoza ritiene comunque di riuscire a dimostrare la non-schiavitù dell’uomo.

La sua metafisica si snoda intorno al concetto fondamentale di sostanza: «Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare». Data questa definizione, per Spinoza è allora inevitabile che esista un unica sostanza, Dio, che consta di infiniti attributi. Di questi attributi l’uomo conosce solamente pensiero ed estensione e tutti gli enti finiti esistenti non sono che modi, ovvero modificazioni di questa unica, eterna e infinita sostanza e dei suoi attributi. Si comprende immediatamente come il Dio di Spinoza sia assolutamente diverso da quello della tradizione ebraica e cristiana: in prima battuta sottolineiamo come non possieda i caratteri qualitativi classici (bontà, misericordia ecc). Anche questa diversità ha causato il suo allontanamento dalla comunità ebraica e accuse di eresia che non abbandonarono la sua figura se non dopo molto tempo. Il suo sistema, infatti, veniva accusato di panteismo, e la sua celebre citazione «Deus sive natura» ricalca quest’etichetta: essa, infatti, significa «Dio, quindi, natura»; «Dio, ovvero, natura». Un Dio, dunque, non antropomorfo; bensì un’unica sostanza infinita ed eterna nel cosmo, di cui noi non siamo altro che sue modificazioni.

Potrebbe sembrare una visione “fredda” della nostra vita ma tuffandosi nell’Etica si può scoprire come il sistema di Spinoza liberi l’uomo dalla sua condizione di mortalità e da legami granitici con le idee di “bene” e “male” (non per nulla Nietzsche sarà catturato dal filosofo olandese). Questo fa conseguire un’enorme carica di responsabilità da parte delle comunità e degli individui, infatti la produzione spinoziana non si limiterà a trattati metafisici ma anche polititi e teologici, promuovendo – semplificando – la laicità dello stato e la costituzione democratica.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Immagine modificata da Google]

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Vaccino, scienza e informazione: una sfida filosofica alla società

La notizia che è sulla bocca di tutti negli ultimi giorni è quella della sospensione precauzionale della somministrazione del vaccino AstraZeneca (AZ). Questa decisione – che, va sottolineato, è stata di carattere politico, ovvero presa dal governo Draghi, e non puramente scientifico, quindi non dettata da Aifa1 – è stata determinata da una segnalazione del Paul-Ehrlich-Institut (un’agenzia federale tedesca che si occupa di regolamentazione medica e di ricerche inerenti ai vaccini e alla biomedica). La segnalazione è avvenuta per un presunto aumento dell’incidenza di casi di una rara forma di trombosi venosa cerebrale, la trombosi della vena sinusale: 7 casi – di cui tre mortali – su 1,6 milioni di vaccinati tedeschi2.
Ora sarà l’EMA (l’Agenzia europea per i medicinali) a studiare approfonditamente la questione e a garantire delle risposte tempestive: come si può leggere nel sito ufficiale, «EMA’s safety committee (PRAC) […] has called an extraordinary meeting on Thursday 18 March to conclude on the information gathered and any further actions that may need to be taken»3.

Attendendo le conclusioni dell’EMA, però, prendiamo in considerazione qualche dato ufficiale e tentiamo due riflessioni necessarie su quanto sta accadendo.

Primo gruppo di dati. Sempre sul sito dell’EMA vengono riportati i casi tromboebolici occorsi fino al 10 marzo sul territorio dell’Unione, dato ripreso dall’Aifa e ripubblicato sul suo sito: «Al 10 marzo 2021, sono stati segnalati 30 casi di eventi tromboembolici tra quasi 5 milioni di persone vaccinate con il vaccino COVID-19 AstraZeneca nello Spazio Economico Europeo»4, ovvero lo 0,000006%. Questo dato non sembra essere degno di particolare attenzione, tanto che, nello stesso documento, troviamo scritto che «The number of thromboembolic events in vaccinated people is no higher than the number seen in the general population»5. Infatti, nel mondo, la trombosi colpisce in media ogni anno una persona su 1000; proporzionando questo dato ai 5 milioni di vaccinati in Europa con AZ si ottiene una stima di 420 casi al mese su 5 milioni.

Secondo gruppo di dati. Il Paese che, nel continente europeo, ha effettuato più somministrazioni del vaccino AZ è la Gran Bretagna: oltre 11 milioni di dosi. Finora, come si apprende da un articolo del Sole 24 Ore6, in UK, tra i vaccinati AZ sono occorsi «15 casi di trombosi e 22 casi di embolia polmonare, una percentuale inferiore a quella della popolazione non vaccinata». Fa sorridere se si combina questo dato con il seguente: sempre in Gran Bretagna sono stati somministrati anche circa 11 milioni di dosi di vaccino Pfizer; tra queste persone 48 hanno avuto un episodio di trombosi. Perché non si è sentito dire che Pfizer causa trombosi?
Sempre nel sopracitato articolo leggiamo una dichiarazione del professor Anthony Harnden, (vicepresidente della Joint Committee on Vaccination & Immunisation britannica):

«In media ci sono 3mila casi di coaguli di sangue nella popolazione e dato che stiamo immunizzando così tante persone è inevitabile che ci siano casi di coaguli in contemporanea ai vaccini ma non dovuti ai vaccini».

Almeno due riflessioni sono necessarie.

La prima riguarda l’informazione italiana. Venerdì 12 marzo questo era il titolo a caratteri cubitali della prima pagina de la Repubblica: «AstraZeneca, paura in Europa». A valanga seguono la maggior parte degli altri giornali, sia cartacei che digitali (con l’esclusione di Domani e del Post). Ora, prendendo come esempio l’articolo di Repubblica, leggendolo si sottolineava il fatto che le tre morti non fossero state assolutamente relazionate con il vaccino e che verifiche erano in corso. Ma non si può non notare una certa, per lo meno, dissonanza tra titolo e contenuto dell’articolo. Come sappiamo bene, il dover catturare l’attenzione del lettore è ormai troppo spesso un fine che giustifica i mezzi più deontologicamente, se non “scorretti”, almeno discutibili. Un’informazione seria porrebbe l’accento, fin dal titolo, sul fatto che la correlazione sia ancora totalmente da dimostrare. Il rischio, altrimenti, è quello di supportare (anche involontariamente) ragionamenti che non rispecchino il modello razionale critico necessario in queste occasioni.

Qui si inserisce la seconda riflessione, più squisitamente filosofica: il nesso di causa-effetto. Analizzando la nostra quotidianità, questo principio causale è una delle basi fondamentali del nostro fare esperienza: da bambini impariamo che se avviciniamo la mano al fuoco ci scottiamo, crescendo capiamo come mantenere l’equilibrio per evitare di cadere, fino ad ampliare questo principio non solo a situazioni “materiali” ma facendone un vero e proprio caposaldo che contamina totalmente la nostra mente. E, a ben vedere, non può che essere così: grazie ad esso capiamo come evitare pericoli, come svolgere azioni in vista di un fine, come raggiungere determinati obiettivi.
Alcuni dei nostri mantra sono una sua esplicitazione: “chi dorme non piglia pesci”, “volere è potere”, “se ti impegni otterrai risultati”.

Ma chi ci assicura che il nesso causa-effetto sia effettivamente reale? Osserviamo una proposta filosofica in controtendenza con la certezza di questo principio. David Hume, filosofo empirista inglese del XVIII secolo, a questa domanda rispose in maniera sconcertante: la relazione di causa-effetto non è un principio della ragione, ma una pura e semplice credenza che si basa sull’opinione che non vi possa essere un cambiamento senza una causa. Per Hume, infatti, è assolutamente vero che quando vediamo un cambiamento pensiamo ad una causa che l’abbia generato, ma ritiene che ciò sia una conseguenza dell’abitudine umana ad associare le idee, unico modo che le persone hanno a disposizione per conoscere il mondo. Ma cosa vediamo in realtà? Hume ci dice che non vediamo altro che una successione di eventi in un arco temporale e – al massimo, per cambiamenti che si ripetono spesso – una ripetizione costante di questa successione. Ma questo è sufficiente a dire che l’evento A ha causato l’evento B? Per Hume no, manca la connessione necessaria (quel legame per cui dati due eventi A e B, non potrà darsi A senza B e viceversa). La necessità, insomma, starebbe nelle nostre menti e non nel mondo “esterno”.
Con ciò non vogliamo dire che Hume avesse ragione ma che il suo dubbio è necessario per affrontare adeguatamente la questione. Il nesso di causa-effetto, infatti, è alla base non solo del nostro fare esperienza quotidiano ma anche del metodo scientifico. Senza di esso non avrebbero senso le evidenze sperimentali e, a ben vedere, qualunque scienza umana lo ha come sostrato (un semplice esempio è un certo modo di intendere la Storia: quante volte pensiamo o abbiamo sentito dire, semplificando, che un determinato evento storico ne ha causato un altro?) La forza di questo principio è talmente elevata che sopravvive anche ai cambiamenti che interessano le scienze: se pensiamo all’evoluzione delle teorie fisiche e matematiche, che vedono sempre più spesso l’abbandono del principio univoco di verità a favore di uno probabilistico, osserviamo sorprendentemente che il nesso causa-effetto non viene minimamente scalfito da questi progressi.

Ora, assumiamo invece che esso esista effettivamente (con buona pace di Hume), cosa possiamo trarne per la vicenda vaccini? Innanzitutto che non va applicato indistintamente e senza ragioni: visto che, come abbiamo detto, in UK l’incidenza della trombosi è minore nelle persone vaccinate con AZ rispetto alla popolazione non vaccinata, potremmo anche essere sorprendentemente portati a ritenere che esso aumenti la protezione dalla trombosi. Sarebbe una fallacia logica.
In secondo luogo, dobbiamo evitare che la consecutio temporum (il fatto che un evento avvenga dopo un altro) ci tragga in inganno; troppo spesso, infatti, la successione temporale non è sufficiente. Un semplice esempio lo verifica: a Bari una donna è morta investita dopo che le era stato somministrato un vaccino7. Questo, ovviamente, non ci permette di dire che il vaccino aumenti le possibilità di essere investiti.
Infine, si rende necessario un recupero della fiducia verso l’autorità scientifica. Non in senso paternalistico, è infatti sicuramente auspicabile una capacità di comprensione scientifica sempre maggiore da parte dei cittadini. Ma bisogna anche fare i conti con la realtà e la situazione attuale, soprattutto in Italia. La speranza è che tutta la società dovrebbe collaborare per non creare inutili allarmismi. La farmacovigilanza è una garanzia e un traguardo irrinunciabile, su questo nessuno dovrebbe avere dubbi: lasciamo dunque la scienza a svolgere il suo compito pretendendo, certamente, rigore, tempestività e trasparenza.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. A dichiararlo è Nicola Magrini, direttore generale dell’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco), in un’intervista a Repubblica del 15 marzo (leggi qui).

2. La notizia qui.
3. Letteralmente: «Il comitato per la sicurezza dell’EMA (PRAC) […] ha convocato una riunione straordinaria giovedì 18 marzo per arrivare a una conclusione circa le informazioni raccolte e su eventuali ulteriori azioni da intraprendere» (leggi qui).
4. La notizia qui. Per la notizia ufficiale dell’EMA leggi qui.
5. Letteralmente: «Il numero di casi tromboembolici nelle persone vaccinate non è più alto di quelli registrati nella popolazione generale [non vaccinata]» (ivi).
6. La notizia qui.
7. La notizia qui.

[Photo credit Mat Napo via Unsplash]

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Un’America mai così divisa e divisiva: tre riflessioni sulla democrazia

«Insurrection in Washington following Trump encouragement»: questo uno dei titoli che scorre sul canale della CNN nella notte italiana. All’interno di Capitol Hill1, il Congresso si riuniva in sessione plenaria per confermare l’elezione del presidente eletto Joe Biden; all’esterno, migliaia di manifestanti pro Trump si erano radunati per contestare questo passaggio costituzionale formale. Vistosi “tradito” nelle sue richieste di capovolgere il risultato elettorale al Congresso sia dal leader dei repubblicani in Senato Mitch McConnel, sia dal suo vice presidente Mike Pence, Trump ha infiammato i manifestanti confermando la sua narrazione di elezioni truccate, affermando che «Non ammetteremo mai la sconfitta» e che «È la fine del partito repubblicano, non la nostra». Poco dopo, quegli stessi manifestanti hanno sfondato i cordoni della polizia e preso d’assedio il palazzo, riuscendo a entrare e ad arrivare praticamente indisturbati all’interno delle aule parlamentari e dei rappresentanti.

Migliaia di persone si erano riunite – con il benvenuto dello stesso Trump – per quella che si pensava fosse la sua passerella d’uscita, e che si è invece trasformata nella macchia più imbarazzante al processo elettivo democratico americano. Era addirittura dal 1814 che il parlamento americano non veniva violato, a quell’epoca dagli inglesi. I manifestanti, divenuti rivoltosi, si sono scagliati anche contro i giornalisti. Se, da un lato, si sono viste scene tragicomiche con persone travestite da vichinghi, a petto nudo o vestiti di sole bandiere (per non parlare di un Batman ripreso tra il fumo dei fumogeni che Nolan ha probabilmente applaudito dalla sua poltrona); dall’altro si è assistito alla presenza di vari gruppi di estrema destra – ognuno con i suoi simboli e i suoi rituali – che hanno risposto in forze alla chiamata di Trump con propositi molto più violenti. Vesti da guerriglia urbana, dotati di armi da fuoco, maschere antigas e – confermato dalle forze dell’ordine – pipe bomb2. Questo mostra un’organizzazione che va ben oltre il semplice e sacrosanto diritto a manifestare sancito dal primo emendamento ma piuttosto una predisposizione allo scontro e alla resistenza. Si sono riconosciuti, tra gli altri, il gruppo Qanon (l’uomo vestito da vichingo la cui foto ha fatto il giro del mondo è uno “sciamano” di questo gruppo) e quello dei Proud Boys: gli “hooligans trumpisti” il cui leader è stato da poco arrestato mentre bruciava una bandiera dei BLM e dai quali Trump ha impiegato molto tempo per prendere ufficialmente (?) le distanze.

Rimane tuttora da chiarire come sia possibile che i rivoltosi siano riusciti ad entrare con così tanta facilità a Capitol, che dovrebbe essere uno tra gli edifici più inaccessibili al mondo. Molte immagini hanno mostrato una resistenza leggera da parte delle forze dell’ordine, mentre in qualche caso isolato è stata invece molto dura: una donna ha perso la vita per un colpo d’arma da fuoco in dinamiche ancora da chiarire. Successivamente il conto delle vittime sembra essere salito a quattro, oltre a decine di poliziotti e manifestanti feriti e decine di arresti.

Durante l’attacco, Biden ha chiesto pubblicamente a Trump di esortare le persone a desistere, ma i tweet a cui poi il tycoon ha affidato le sue parole hanno lasciato la maggior parte degli osservatori esterrefatti. Per prima cosa Trump ha registrato un video in cui ripeteva di comprendere il nervosismo e il furore dei suoi sostenitori per le elezioni frodate, invitandoli a tornare in pace a casa ma affermando di amarli (per ciò che stavano facendo?) e descrivendole come persone speciali. Poi ha scritto in un secondo tweet: «These are the things and events that happen when a sacred landslide election victory is so unceremoniously & viciously stripped away from great patriots who have been badly & unfairly treated for so long. Go home with love & in peace. Remember this day forever!»3.

Quindi se, da un lato, praticamente tutti i leader americani e internazionali, i reporter, i conduttori televisivi chiedevano a Trump di normalizzare la situazione e, per lo meno, di farsi carico delle conseguenze delle sue parole (nello studio della CNN si è addirittura arrivato a parlare di «domestic terrorism by Trump supporters»); dall’altro, lui non accennava minimamente a prendere le distanze da quanto stava accadendo e, anzi, continuava a infiammare con le sue parole i rivoltosi. Ma Trump ci ha abituato a comportamenti del genere: basti pensare a quando aveva detto che lui potrebbe sparare a qualcuno in mezzo a Fifth Avenue e comunque non perdere voti4.

Ciò che è accaduto nel pomeriggio americano fa molto riflettere, in particolare per la tenuta del sistema democratico occidentale, che si mostra ogni giorno più traballante. Soprattutto,  sono tre i punti che vorrei brevemente affrontare.
Innanzitutto, abbiamo avuto la prova di come sia diventato imperativo smettere di sottovalutare fake news e gruppi estremisti. I rivoltosi di Capitol sono veramente convinti che Biden abbia rubato e frodato le elezioni (nonostante gli oltre cinquanta ricorsi persi da Trump, anche davanti alla Corte Suprema con sei seggi su nove repubblicani, tre dei quali nominati dallo stesso Trump). Gli appartenenti a Qanon sono veramente convinti, tra le altre cose, che Hilary Clinton, Biden, Obama, Beyoncé e Madonna comandino il mondo, rapiscano bambini e ne bevano il sangue per rimanere giovani. Gli appartenenti ai Proud Boys sono veramente disposti alla guerriglia urbana per impedire a Biden di “rubare la poltrona” a Trump. E queste convinzioni non sono solo colpa di Trump ma anche dell’intero sistema mediato occidentale che per anni ha permesso a qualsiasi politico di qualsiasi Paese di spararla ogni giorno più grossa senza conseguenze, di diffondere impunemente fake news senza essere inchiodato di fronte ai fatti, di de-responsabilizzare la comunicazione. Quest’ultima azione, in particolare, è sotto gli occhi di tutti, ogni giorno: la comunicazione si è trasformata in narrazione. Il populismo e il sovranismo si mantengono in forze grazie ad una narrazione che non ha più nell’informazione il proprio bilanciere, il proprio mediatore, il proprio contraltare. Questo è una comunicazione senza contraddittorio: semplice narrazione, ed è ciò che avviene anche nei nostri salotti televisivi italiani ogni pomeriggio ed ogni sera.

Secondo, dobbiamo porci una domanda seria, che riguarda la totalità del mondo e il futuro di tutti: il capitalismo mondiale ha ancora bisogno della democrazia? A ben guardare, l’ultimo decennio (per lo meno) sta mostrando di no. Al capitalismo imperante (e per certi versi imperialista) sono molto più congeniali gli abiti delle “democrature” che vediamo in Cina, Russia, Turchia, Egitto (ma anche Ungheria, per restare in seno all’Europa). La democrazia, se vuole sopravvivere, necessita di nuovi anticorpi per malattie che sono, appunto, nuove e non possono essere affrontate con mezzi e categorie appartenenti ormai al passato. Lo scontro frontale con i colossi aziendali internazionali, con quelli del web e con quelli della finanza sta sancendo definitivamente la morte dell’apparato democratico come siamo abituati a intenderlo. Al capitalismo del nostro secolo è molto più congeniale un Trump che non crede al riscaldamento globale, che mette in secondo piano i diritti e che cerca di rincorrere solamente lo sviluppo tecnologico ed economico. Forse è arrivato il momento di chiedersi cosa intendiamo con “sviluppo” e a riconoscere che la democrazia, per essere salvata, necessita dell’aiuto di tutti noi, ogni giorno.

Terzo, risulta necessario riconoscere che la grande spaccatura tra mondo virtuale e realtà può avere conseguenze, anche molto pesanti, per tutti. I rivoltosi di Capitol (come tutti i negazionisti, sovranisti e populisti di tutto il mondo) sono rimasti intrappolati e imbottigliati dagli algoritmi dei social network in bolle virtuali che sono sempre più distaccate dalla realtà. Queste si nutrono di teorie del complotto che a prima vista possono anche apparire innocue (il NWO, la terra piatta ecc.) ma che invece alimentano bias cognitivi e sentieri di ragionamento che poi vengono nel tempo reiterati automaticamente e portano alla totale perdita di giudizio e pensiero critico. Questo poi ha inevitabilmente ricadute sulla realtà – che non rispetta quanto essi hanno edificato all’interno delle loro bolle – e anche per questo lo scontro con il reale diventa poi violento e imprevisto, come abbiamo assistito questa notte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. La sede del governo degli USA che comprende Campidoglio, Senato, Camera e Corte Suprema.

2. Bombe artigianali, formate da un cilindro riempito di esplosivo e, solitamente, frammenti taglienti.
3. Letteralmente «Questo è ciò che succede quando una sacra vittoria schiacciante è strappata in modo brutale dalle mani di grandi patrioti che per troppo tempo sono stati trattati ingiustamente e malamente. Tornate a casa con amore e in pace. Ricordiamoci di questo giorno per sempre!» (trad. mia).
4. https://www.ilpost.it/2016/01/25/trump-non-puo-perdere-voti/

[Photo credit  via Unsplash]

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L’opinione pubblica oggi: una riflessione

Due dibattiti piuttosto recenti mi hanno portato a riflettere su questo argomento: quello che si è creato al ritorno di Silvia Romano e quello sulla persona di Indro Montanelli a seguito dell’imbrattamento della sua statua a Milano. Non affronterò le questioni entrando nello specifico delle polemiche; questa riflessione ha a che fare con una dimensione più profonda del fenomeno, che contiene quelle fattispecie: l’opinione pubblica.

Vorrei partire da una domanda: cosa pensiamo, al di là di ogni ironia, dei nostri tempi? Personalmente, mi colpisce in modo particolare il fatto che ogni evento venga enfatizzato oltre ogni limite, che venga esaltato e sollevato a Unica Questione del momento. Salvo esaurirne la potenza nell’arco di qualche giorno e passare al fatto successivo dimenticandosi di ciò che prima era l’Unicità di dibattito. Questo processo è esponenziale, sia verso il fatto determinato sia per il processo in sé, e si auto-alimenta in una curva sempre più ripida.

Un primo tentativo di “limare” questa questione potrebbe essere quello di sollevare il nostro sguardo dall’interno del sistema all’esterno, provando a leggerla attraverso il filtro del tempo storico. La digitalizzazione e, conseguentemente, il dilagare dei social network sono processi relativamente recenti; potremmo, allora, ritenere che questa esponenzialità derivi dal loro carattere di novità e tentare di prevederne una normalizzazione di qui a un futuro determinato, appunto confinandola nel suo tempo storico.

In realtà, questa possibilità potrebbe essere annullata dallo stesso processo di esponenzialità: la società contemporanea, infatti, è sempre più votata alla “velocità”. Una conseguenza è che i tempi storici si stanno sempre più riducendo e questo radicalizza il problema: da un lato, si impedisce la riflessione sui mezzi nei quali si verifica il processo; dall’altro, la normatività non riesce a trovare categorie adeguate a contenere il processo stesso. La combinazione dei due potrebbe portare a inficiare la normalizzazione prima evocata e ne abbiamo una prova attraverso ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni: uno scontro frontale tra i colossi dei social network e le realtà statali – scontro che avviene su tutti i fronti: da quello finanziario (lo scontro sulle imposte) a quello legale (lo scontro sulle sedi) passando per quello etico (fake news, cyberbullismo, suprematismo ecc.).

Come agisce tutto questo sulle opinioni degli individui? Questo è il punto nevralgico della questione: come si dovrebbe costituire un’opinione pubblica che sia realmente tale? Un buon punto per affrontare il dilemma può essere quello di considerare il termine opinione pubblica a partire dal fatto che essa non sia altro che un nome collettivo e, in quanto tale, deve contenere e non annullare o incanalare in percorsi precostituiti le singole opinioni che la costituiscono. La mia paura è che il processo di esponenzialità che prima ho tentato di descrivere stia impedendo radicalmente questo fenomeno. E lo fa in maniera subdola, ovvero mascherando la realtà e facendo sembrare che la sana dialettica che dovrebbe contraddistinguere l’opinione pubblica non sia scalfita. Se osserviamo il dibattito, infatti, esso appare assolutamente, per lo meno, polarizzato. Recuperando i fatti di apertura di questo articolo (e semplificando): pro e contro la persona di Montanelli; pro e contro il comportamento di Silvia Romano. Ma questa polarizzazione su quale terreno si costituisce? È questo ciò che intendevo inizialmente affermando di non interessarmi delle prese di posizione in sé ma di una dimensione più profonda. Perché l’opinione pubblica sia se stessa, le opinioni private che andranno a formare quella pubblica dovrebbero essersi già costruite (o almeno determinate) prima di entrare nella dialettica. E questo avviene se esiste un terreno pubblico su cui si innesti poi l’opinione pubblica. Ciò significa che, prima che una dialettica di opinioni, dovrebbe esistere una dialettica di sistemi, di categorie, di valori che costituiscono il terreno su cui radicheranno le opinioni private che poi, di nuovo dialetticamente, formeranno l’opinione pubblica. Ciò a cui assistiamo, invece, è una desertificazione di questo sostrato vitale che porta, di conseguenza, a un indirizzamento delle opinioni. Cioè: non opinioni private adeguatamente costruite ma preferenze a poli già preventivamente delimitati, che a quel punto non faranno altro che accogliere necessariamente le une o le altre.

Non si tratta, quindi, di evocare una sorta di “età dell’oro” in cui quanto descritto non si verificasse ma di riflettere adeguatamente sulla nostra realtà partendo dal chiederci: cosa pensiamo dei nostri tempi?

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit roya ann miller via Unsplash]

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Spunti estetici de “La nascita della tragedia” di Nietzsche

La nascita della tragedia è un’opera densissima, seppur relativamente corta. Pubblicato nel 1872, «Nessun altro libro di Nietzsche ha alle spalle una preparazione così lunga e faticosa. Per dieci anni, il giovane studioso vive tra i suoi libri, e dalle sue parole non si annuncia nessuna minaccia per la scienza. […] poi viene questo libro, dove tutto è contraddetto, dove nessuno allora riconobbe l’autore»1.

Fin dalle prime righe è chiaro l’intento di Nietzsche, che guiderà il lettore per tutto lo svolgimento dell’opera:

«Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco […]»2.

Il primo principio è immediatamente avvicinato al sogno, accostato al dio Apollo che, «come dio di tutte le capacità figurative, è insieme il dio divinante» e plastico, caratterizzato da «calma piena di saggezza»3. Ma, proprio in forza della realtà sognata, è anche il dio dell’illusione, dell’apparenza. Il dionisiaco, invece, è accostato analogicamente all’ebbrezza, che sorge sull’orrore della perdita di fiducia nella ragione (come forma di conoscenza apparente) e quindi sulla violazione del principium individuationis:

«O per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinamento della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé»4.

Gli uomini, nei confronti di questi due principi naturali, non sono che imitatori e, su questa scorta, Nietzsche analizza la tragedia greca, espressione di quell’artista insieme e del sogno e dell’ebbrezza. Egli si perde «nell’ebbrezza mistica e nell’alienazione mistica» e il suo stato – ovvero «la sua unità con l’intima essenza del mondo» – «attraverso l’influsso apollineo del sogno, […] si rivela in un’immagine di sogno simbolica»5.

La trattazione affronta molte tematiche fondamentali: il dolore, la determinatezza, la società, la contemporaneità (di Nietzsche ma per certi versi anche quella attuale), la teoria e la praxis e molte altre. Molto interessanti sono i riferimenti a Socrate – già anticipati in parte da Nietzsche in Socrate e la tragedia6 – colpevole di aver influenzato Euripide e portato così a compimento la fase della decadenza della tragedia stessa. Socrate, infatti, identificando sapienza e virtù con la conoscenza, avrebbe spinto all’annullamento dello stesso elemento tragico e a un totale squilibrio:

«[…] scorgiamo la brama di conoscenza insaziabile e ottimistica, che appariva in Socrate esemplare, convertita ora in rassegnazione tragica e in bisogno d’arte; mentre invero la stessa brama, nei suoi gradi inferiori, doveva manifestarsi in modo ostile all’arte e principalmente aborrire nell’intimo l’arte dionisiaco-tragica»7.

A questo proposito, di importanza fondamentale, come ricorda Chiara Piazzesi, è il fatto che «La trasformazione degli equilibri estetici non si ha, dunque, soltanto nell’economia interna dell’opera tragica, ma anche in quella creatività artistica che la genera, dunque nel rapporto tra artista e opera d’arte»8.

Nell’edizione Adelphi, prima del testo stesso, troviamo un Tentativo di autocritica, scritto da Nietzsche anni dopo la pubblicazione de La nascita della tragedia. Il pensatore tedesco si scaglia con forza contro il giovane se stesso e la sua opera: «oggi per me è un libro impossibile, – voglio dire scritto male, pesante, tormentoso, […] molto convinto e perciò dispensato dal dimostrare, diffidente verso la stessa convenienza del dimostrare»9. Eppure, riconosce che «Qualunque cosa possa esserci stata alla base di questo [suo] problematico libro, deve essere stata una questione di prim’ordine, piena di fascino, e inoltre una questione profondamente personale»10; per concludere che «il più grande interrogativo dionisiaco, come [nel libro] è posto, continua sempre a sussistere anche riguardo alla musica: come dovrebbe essere fatta una musica che non fosse più di origine romantica […] bensì dionisiaca?»11.

D’altronde, è proprio Giorgio Colli nella Nota introduttiva a mostrarci il quesito fondamentale di quest’opera:

«E se la via dello spettacolo fosse la via della conoscenza, della liberazione, della vita insomma?»12

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. G. Colli, Nota introduttiva, in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1972 e 1977, p. XI.

2. F. Nietzsche, op. cit., p. 21.
3. Cfr. ivi, pp. 23-24.
4. Ivi pp. 24-25.
5. Cfr. ivi p. 27.
6. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Milano, Adelphi, 1973 e 1991, pp. 25-45.
7. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 104.
8. C. Piazzesi, Nietzsche, Roma, Carocci, 2015, p. 41.
9. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 6.
10. Ivi, p. 3.
11. Ivi, p. 13.
12. G. Colli, op. cit., p. XV.

[Photo credit Una Scholl via Unsplash]

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La libertà a misura d’uomo

Siamo liberi?

Questa è forse la domanda più profonda che attraversa la nostra esistenza. Quante volte ci sentiamo sopraffatti da ciò che accade, totalmente al di fuori del nostro controllo? Gli eventi che opprimono la nostra esistenza sono dei più disparati – perdite, sfortune, mancate occasioni – ma il peso che esercitano sulla nostra vita è sempre lo stesso: ci sentiamo impotenti, disarmati, a volte addirittura sbeffeggiati dal destino. A questo proposito, due sono le riflessioni che vorrei affrontare.

La prima, più “leggera”, riguarda una sottile ironia che pervade questo modo di interpretare le cose: com’è possibile che se accade qualcosa di negativo incolpiamo il destino mentre se quello che ci accade è positivo tendiamo a compiacerci in quanto fautori dell’accaduto? C’è una effettiva dissonanza. A questo proposito, utile potrebbe essere l’insegnamento pratico di Epitteto: «il sapiente deve essere in grado di distinguere con sicurezza ciò che è estraneo, e che dunque non appartiene al soggetto […], da ciò che invece è davvero sotto il suo controllo» (S. Maso, La filosofia stoica e la questione del “libero arbitrio”, 2014).
L’antico filosofo ci invita a prestare attenzione alla nostra vita e a quello che ci circonda, sforzandoci di comprendere cosa effettivamente dipenda dal nostro volere e cosa invece sia al di fuori della nostra portata. Questo potrebbe essere un utile, anche se preliminare, consiglio per rompere lo schema a cui prima accennavamo.

È possibile, in un certo senso, intravedere in questa proposta di Epitteto la più antica interpretazione della realtà di Protagora: «l’uomo è misura di tutte le cose». Cosa significa quest’ultimo contributo? Molte sono state le letture che se ne sono date, individuando almeno tre livelli di riflessione. Per quel che qui ci interessa, possiamo riconoscere un invito a prestare attenzione a ciò che ci circonda, costituendoci sì come sua “misura” (termine di paragone) ma non per questo necessariamente come suo “metro” (termine di giudizio). La differenza è sottile ma permette di riaprire la strada a quell’idea di interdipendenza e di riconoscimento a cui avevamo accennato in precedenza. Insomma, l’invito è a non adagiarci su facili interpretazioni della nostra vita e di ciò che ci circonda, che portano inevitabilmente a un’esistenza piena di delusioni e illusioni perché non tengono conto della realtà delle cose.

La seconda riflessione, riguarda ciò che, invece, realmente accade e non l’interpretazione che ne diamo. A questo proposito, molto utile potrebbe essere l’esempio proposto da Wittgenstein: «Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui e dica: “Guardate, io posso far andare Wittgenstein esattamente dove voglio”. Ha un meccanismo che regola con una manovella e voi vedete […] che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: “Eri trascinato qua e là? Eri libero?” Io dico: “Certo che ero libero”» (L. Wittgenstein, Lezioni sulla libertà del volere, 2006).

L’idea che emerge da questo passo è molto interessante; in un certo senso permetterebbe di conciliare determinismo e libero arbitrio, ma apre un grande problema. Infatti, visto che stiamo riflettendo su come stia effettivamente la realtà, e non su come venga interpretata, quale versione la rappresenta veramente: la stanza di Wittgenstein, la stanza sotto di lui o la visione delle due stanze nel loro insieme? L’esempio immediatamente successivo che ci propone il filosofo austriaco esprime magistralmente la questione: «Un uomo che può far scegliere a qualcuno la carta che egli voleva che scegliesse. […] Ognuno direbbe che quel qualcuno ha scelto liberamente, e tuttavia ognuno direbbe anche che quell’uomo gli ha fatto scegliere ciò che egli voleva scegliesse» (Ivi).

La questione non può certo essere risolta in questo breve articolo; l’importante è capire come la comprensione di ciò che da noi dipende può essere una via utile nello svolgimento della nostra esistenza e della nostra quotidianità. Ci permette di prendere le distanze da quanto può esserci d’ostacolo per la volontà e per le nostre decisioni; se poi questo rappresenti effettivamente la libertà, per ora, non ci è dato sapere.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit Mohamed Nohassi via Unsplash]

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La felicità e la saggezza nel “De vita beata” di Seneca

«Seneca è uno dei massimi pensatori del mondo romano e uno dei più rappresentativi protagonisti del tardo stoicismo»1. La sua vita è votata, insieme, alla filosofia e alla politica. Nasce a Cordoba tra il 4 e l’1 a.C; rientrato a Roma nel 31 dopo un periodo trascorso in Egitto, «lo stile dei suoi scritti, rapido, essenziale, apparentemente facile ma in realtà estremamente denso e fascinoso […] lo [rende] noto a tutti: come segnalerà Quintiliano […] “all’epoca, in pratica non c’era che lui a circolare tra le mani degli adolescenti”»2. All’età di cinquant’anni è pedagogo del giovane Nerone per poi diventare suo consigliere fino a quando l’imperatore non decide di assumere totalmente il potere e dare vita a un nuovo corso politico. A quel punto, nel 62, Seneca sceglie di ritirarsi a vita privata per poi accettare la condanna al suicidio nel 65.

Il De vita beata è composto prima del ritiro dalla vita pubblica, sotto il regno di Nerone, e in quest’opera Seneca «affronta la questione della ricchezza materiale e del suo rapporto con il concetto stoico di “virtù”»3, chiarendo anche la condizione del proficiens – ovvero quell’uomo che è in cammino verso la virtù, la verità e la giustizia ma non le ha ancora raggiunte e non è, quindi, ancora sapiens.

La prima parte del dialogo è dedicata al confronto con la dottrina etica epicurea, che pone al centro della vita il piacere, telos (fine) della vita saggia. Epicuro, infatti, aveva elaborato una proposta filosofica votata all’edonismo – ma dipendente comunque dalla razionalità – che Seneca critica perché «gli antichi ci hanno insegnato a seguire la via retta, non la più gradevole, affinché il piacere sia non guida, ma compagno della volontà buona»4. «Alcuni [infatti] sono infelici non per mancanza di godimenti, ma proprio a causa di essi. Questo non accadrebbe se il piacere fosse legato alla virtù»5. Seneca è coerente interprete della dottrina stoica, che pone come fulcro e telos della vita saggia la virtù, ovvero il vivere in modo coerente e secondo natura. La prospettiva fisica e metafisica stoica, infatti, propone una realtà formata da due principi – materia e logos – mai separati ma fusi insieme, in modo che ne derivi una materia insieme passiva e attiva grazie ad una logica produttiva, viva, che permea l’intero cosmo. Il vivere, quindi, in accordo con il principio razionale del tutto – logos – consiste nel vivere secondo virtù, e la felicità non è che una diretta conseguenza, in una prospettiva che lega strettamente fisica ed etica.

La felicità, allora, viene a configurarsi in collegamento diretto con la verità:

«Cerchiamo dunque ciò che è bene fare, non ciò che è fatto più frequentemente, quello che ci può mettere in possesso della felicità eterna, non quello che è approvato dal volgo, pessimo giudice della verità»6;

con la natura:

«Vita felice è dunque quella che si accorda con la sua natura, raggiungibile soltanto se lo spirito è, in primo luogo, sano e in perpetuo possesso di questa salute […]»7;

e con la virtù:

«[…] si può anche definire l’uomo felice come colui per il quale non esiste altro bene o altro male se non un animo buono o malvagio, colui che coltiva l’onestà e si contenta della sola virtù»8.

Questi tre termini – verità, natura e virtù – rappresentano il fulcro del repertorio etico di Seneca e dello stoicismo, una prospettiva che richiede all’uomo di mettersi in cammino verso la verità attraversando il sottile filo teso tra finitezza umana e perfezione del logos. Sapiens e proficiens hanno, infatti, a disposizione la capacità di giudizio razionale che permette loro di operare le giuste scelte, esercitando la loro libertà inserita all’interno di una prospettiva determinista, nel percorrere questa via.

Molto interessante è il tema della coerenza che viene affrontato da Seneca a partire dal capitolo XVII. Il filosofo romano affronta di petto una possibile critica che un ipotetico accusatore potrebbe muovere alla sua pratica di vita: «Tu parli in un modo e ti comporti in un altro»9. Questa obiezione, che riguarda particolarmente da vicino Seneca, viene affrontata magistralmente, mostrando tra le altre cose come, in realtà «[agli accusatori] conviene, infatti, che nessuno sia ritenuto virtuoso, perché per [loro] la virtù degli altri suona rimprovero alle [loro] colpe»10. Seneca invece, con grande onestà intellettuale, afferma:

«[nulla] m’impedirà di continuare a lodare la vita, non quella che conduco, ma quella che so di dover condurre; non m’impedirà di rispettare la virtù e di seguirla, sia pure arrancando da lontano»11.

Non abbiamo lo spazio per affrontare gli altri grandi temi presenti in quest’opera eterna nel tempo, perciò rinvio al testo stesso, grande miniera di riflessioni preganti anche – se non soprattutto – per il mondo contemporaneo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. S. Maso, Filosofia a Roma, Roma, Carocci, 2017, p. 147.

2. Ivi, pp. 148-149.
3. Ivi, p. 153.
4. L.A. Seneca, De vita beata, in Dialoghi morali, Torino, Einaudi, 1995, p. 139.
5. Ibidem.
6. Ivi, p.127.
7. Ivi, p. 131.
8. Ivi, p. 133.
9. Ivi, p. 163.
10. Ivi, p. 167.
11. Ivi, p. 165.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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Il secondo libro dell’Etica di Spinoza: il parallelismo

Avendo già affrontato il primo libro1, continuiamo allora la nostra analisi dell’Etica di Spinoza concentrandoci sul secondo.

Questa parte dell’opera è dedicata dal filosofo all’analisi della mente, in particolare al rapporto tra questa e il corpo. Una delle principali tesi che emerge è il cosiddetto parallelismo o corrispondenza, la proposizione VII recita:

«L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose»2.

Cosa significa? Lo sforzo spinoziano è tutto incentrato sullo sviluppo degli acquisti derivanti dalla prima parte. In particolare, come gli attributi divini di estensione e pensiero testimoniavano, in modo diverso, la natura di Dio – ovvero l’unica ed infinita sostanza esistente, che del Dio della tradizione ha solamente il nome – allo stesso modo, corpo e mente potremmo dire che esprimano una stessa ed identica natura. Mente e corpo sono infatti «modi» dell’unica sostanza, ossia manifestazioni della sua natura; rispettivamente, la prima è modificazione finita dell’infinito attributo del pensiero e il secondo modo finito dell’infinito attributo dell’estensione.

Risulta dunque chiaro come possano esprimere lo stesso «ordine»: mente e corpo sono due modi di intendere ed esprimere la stessa cosa, da due punti di vista differenti ma equivalenti. I due attributi esprimono infatti la stessa essenza, ed è per questo che c’è corrispondenza: all’interno di ognuno vige la rigida causalità determinista. Attraverso una proporzione matematica potremmo dire che come la causa sta all’effetto (corpo), così la conoscenza della causa sta alla conoscenza dell’effetto (mente). Spinoza infatti intende la mente come «[…] l’idea di una cosa singola esistente in atto»3, e visto che «L’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione in atto, e niente altro»4, allora per il filosofo la mente è idea del corpo. Per comprenderla risulta quindi necessario indagare il corpo, infatti dopo la proposizione XIII prende avvio quello che viene comunemente etichettato come il “Trattatello di fisica e fisiologia”, nel quale Spinoza si dedica alla descrizione di tutto ciò che concerne il corpo umano: «A partire da qui comprendiamo non soltanto che la mente umana è unita al corpo, ma anche che cosa si debba intendere per unione di mente e corpo. Veramente nessuno la potrà intendere adeguatamente, ossia distintamente, senza prima conoscere adeguatamente la natura del nostro corpo»5.

Cosa comporta il parallelismo? Il grande debito è nei confronti di Cartesio, che ne L’uomo aveva mostrato le grandissime capacità del corpo umano, attraverso una fisiologia che dimostrava l’inutilità della mente.
La tesi fondamentale che Spinoza vuole negare è infatti quella di considerare le azioni corporee come un effetto di cause mentali. Un’intuizione, questa, che ancora oggi siamo forse naturalmente portanti a condividere. Penso infatti che sia sentore comune quello di ritenere la mente come il “direttore” dell’orchestra corporea: noi decidiamo attraverso la mente di compiere un’azione, ad esempio alzare il braccio, e questo di conseguenza si muove. Il parallelismo spinoziano rompe completamente questo schema: mente e corpo non si trovano in una relazione di causalità (dove la prima è causa del secondo), piuttosto esprimono una corrispondenza, ovvero entrambi testimoniano il nesso causale che governa l’esistenza di ogni singola cosa, in cui il contenuto della mente umana sono allora le idee degli eventi corporei.

Chi in precedenza non riusciva ad accettare che la mente non obbligasse il corpo, secondo Spinoza, non si era mai reso conto di quale fosse il reale potere del corpo, degradandolo a mero esecutore materiale di volontà mentali. Riconoscere invece la tesi spinoziana, significa di conseguenza accettare che anche le emozioni umane, oggetto della terza sezione dell’Etica, non siano altro che una parte inserita all’interno della causalità naturale che regna nel mondo. Non per nulla, all’inizio del libro successivo, Spinoza affermerà:

«Tratterò dunque della natura e delle forze dei moti dell’animo, e della potenza della mente sopra di essi, con lo stesso metodo impiegato nelle parti precedenti su Dio e sulla mente, e considererò le azione e le voglie umane come si se trattasse di linee, di figure piane, o di corpi»6.

Indagare la mente significa, ovviamente, anche interrogarsi sulla conoscenza e Spinoza, all’interno di questa sezione, propone la famosa teoria dei tre (o quattro) generi di conoscenza. Chiaro è il debito verso Platone e la celebre “teoria della linea della Repubblica7. Non abbiamo qui lo spazio per approfondirla né per dedicarci agli altri grandi temi di questa parte dell’Etica; rimando perciò all’opera e consiglio di nuovo l’ottima guida di Emanuela Scribano8.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Lo trovate a questo link.
2. B. Spinoza, Etica, a cura di P. Cristofolini, Pisa, Edizioni ETS, 2014, p. 87.
3. Ivi, p. 93, eIIpXI.
4. Ivi, p. 95, eIIpXIII.
5. Ivi, pp. 95-97, eIIpXIIIc.
6. Ivi, pp. 151-153, eIIIpr.
7. Cfr. Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2010, pp. 721-729, 509d-511e.
8. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008.

[Photo credit Alina Grubnyak via Unsplash]

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Il vero motivo per cui l’ecologismo-ambientalismo fallisce

Rimango sempre sorpreso quando parlo con qualcuno dell’ambiente e delle cosiddette crisi che lo riguardano. Penso sia un dato percettivo comune quello di essere colpiti da quanta poca curiosità suscitino nelle altre persone queste tematiche, sempre che si possegga una sensibilità tale da permettere il sorgere di queste riflessioni. Ma non è questo ciò che mi sorprende. O meglio, ciò che mi sorprende è la causa del disinteresse comune nei confronti di quelle questioni.

Se volgiamo il nostro sguardo alle più grandi campagne di sensibilizzazione ambientale o alle semplici dissertazioni di un qualsiasi ecologista ci rendiamo immediatamente conto di come la tecnica argomentativa sia miseramente fallace. “Salviamo il pianeta”, “Difendiamo l’ambiente”, “Aiutiamo il mondo”. Tutti slogan condivisibili ma inutili, perché presuppongono qualcosa che non si può far finta di non accorgersi mancare se non in tutti almeno in molti: la sorgente empatica.

Si fa presto a dire che l’empatia sia assente nelle persone ma ciò che è necessario fare è chiedersi il perché di questo difetto. Io credo che l’empatia sia connaturata all’uomo; questo significa che ognuno la prova, dal medico volontario in Africa al comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Ciò che è diverso nelle persone, quindi, non è tanto il fatto di provare o meno empatia ma la situazione in cui scatta questo meccanismo.
Cos’è l’empatia? Cerchiamo su Google: Wikipedia sentenzia che è la «capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui», definizione deludente. Treccani già si dà più da fare: «Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro». Ma è – a sorpresa – il dizionario di Google a cogliere meglio la questione: «In psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Da questa definizione possiamo ricavare due lezioni. Innanzitutto il fatto che colui verso il quale possiamo provare empatia non è un generico “altro” ma «un’altra persona»; in secondo luogo, il fatto che provarla non significa automaticamente mettere in gioco dei sentimenti o delle emozioni.
Colleghiamo ora tutto ciò con la nostra questione.

Per quel che riguarda la prima lezione, pensare di coinvolgere chiunque attraverso l’empatia nei confronti di qualcosa senza trasformare questo qualcosa in un qualcuno, crea una situazione nella quale si richiede uno sforzo al destinatario del messaggio che non tutti sono disposti o in grado di fare.
Per la seconda, anche se quello primo step funzionasse, non si è ancora coinvolto emotivamente l’interlocuture, ma lo si è solamente interessato alla questione. Perché all’empatia segua un movimento emotivo di “avvicinamento” credo sia necessaria l’educazione.

Combiniamo ora le due: credere di riuscire a coinvolgere qualcuno facendo provare “pena” nei confronti di qualcosa ottiene l’esatto opposto: il totale disinteresse.

Ma non è ancora questo ciò che mi sorprende. Se scaviamo ancora più a fondo possiamo raggiungere quello che è il punto nevralgico della questione: l’egoismo. Non siamo abbastanza egoisti.
Potrebbe sembrare una frase paradossale e provocatoria ma non è assolutamente così. A ben guardare, infatti, ogni tentativo di salvare il pianeta, l’ambiente, il mondo altro non è che un tentativo – in ultima istanza – di cercare di mettere in salvo la nostra pellaccia. Ed è proprio su questo perno che bisogna far leva. Perché, in realtà, ciò che tutti – tutti – abbiamo a cuore di salvare non è quella particolare specie di animale, di pianta, quella particolare foresta, quel tratto di mare, l’ambiente, il mondo, ma noi stessi.
Inoltre, alla Terra, presa per se stessa, credo che poco importi dei cosiddetti “danni” operati dall’uomo: il pianeta che abitiamo si stima essersi formato circa 4,5 miliardi di anni fa. Ha sopportato – per quello che sappiamo – eruzioni vulcaniche inimmaginabili, piogge di meteoriti, sconvolgimenti superficiali, e non, devastanti; credere che noi possiamo danneggiarlo mi fa sorridere per quanto ci sovrastimiamo: non dobbiamo salvare il mondo, dobbiamo preservare noi stessi.

Rendersi conto che la propria vita è in pericolo: questo sì che ci smuove, purtroppo. Dico purtroppo per un motivo, egoista anche questo. Siamo talmente poco empatici ed educati alle emozioni che nemmeno l’idea di altre persone fa nascere in noi un sentimento di vicinanza e di aiuto. Questo significa che neanche la razza umana può essere un motivo di cambiamento di comportamento, ma neppure i nostri connazionali o il nostro vicino; nemmeno i nostri figli. No, neanche loro: distruggere l’ambiente significa creare condizioni peggiori per le future generazioni ma non mi pare che questo faccia la benché minima differenza.

Dovremmo essere più egoisti in quanto specie. La specie umana dovrebbe essere più egoista e pensare più a se stessa. Non per il rinoceronte, non per la tigre, non per le foreste, non per gli oceani ma per i nostri stessi figli, per noi stessi. Salvare l’ambiente significa salvare noi stessi, togliamo questo adesivo che abbiamo appiccicato sopra la verità e mostriamola! Magari con vergogna (per qualcuno necessariamente con vergogna) ma questa è la realtà. Meno individualismo e più collettivismo; si potrebbe dire meno nazionalismo e più internazionalismo, forse, intendendo con nazionalismo un singolo Individuo nazionale; ma questa è un’altra storia.

Ultimo appunto: fortunatamente, altre specie possono beneficiare di queste considerazioni, se messe in pratica. Questa è un una cosa fantastica – che ci dice molto su quanto la natura sia collegata tra le sue parti – che io personalmente valorizzo enormemente. Anzi, qualcuno potrebbe addirittura agire per altro oltre che per l’uomo ma non possiamo pretendere che la maggior parte agisca in questo modo. Non con questa società. Non con questi ideali. Non in questo tempo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit qinghill]

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