Medioevo e mass media: parliamo ancora di “secoli bui”?

Un recente articolo, comparso su “L’Espresso”, a firma di Helena Janeczek, titola: Febbre da Medioevo: Ritorna in tv “Il trono di spade” con stupri, tradimenti e torture. Una saga sul passato che intercetta lo spirito dei nostri tempi: incertezza sul futuro e predominio del più forte. Da alcuni mesi, articoli come questo si ritrovano su tutti i principali quotidiani italiani (a prescindere dall’orientamento politico), in rubriche che spaziano dalla critica culturale all’attualità politica, fino al commento su fatti di cronaca. Un fenomeno trasversale, certamente variegato, ma che può essere ascritto sotto la generica categoria di un “ritorno di moda” del Medioevo. Un fenomeno peculiare, che suscita stimolanti interrogativi: quali sono le sue caratteristiche? Qual è il suo nucleo d’origine? E ancora, come la stampa italiana ne viene influenzata?

Innanzitutto, alcune precisazioni. Primo: molte delle conoscenze sedimentate nell’opinione pubblica riguardo il Medioevo sono stereotipi, generalizzazioni, verità parziali. Quando non esplicite distorsioni ideologiche e ricostruzioni fittizie. Vale la pena citare l’esempio più eclatante: il medioevo dei “secoli bui”, un’età dominata da oscurantismo, immobilismo, assenza di cultura, violenza, in cui popolazioni “barbare” e arretrate vivevano sotto il giogo della superstizione e l’autorità di una Chiesa persecutrice e corrotta. In secondo luogo, è necessario sottolineare quanto tutte queste ricostruzioni fantasiose siano ormai completamente estranee agli orientamenti di storici di professione ed esperti di medievistica. Quale percezione invece hanno del periodo medievale i “non addetti ai lavori”? Nel 1979, una storiografa italiana notava quanto, benché l’accezione negativa del termine Medioevo fosse ormai stata estirpata dalla critica storica, essa fosse ancora in voga nel linguaggio giornalistico. A distanza di quarant’anni è interessante valutare se e in che misura le cose siano cambiate, ovvero se un atteggiamento pregiudiziale verso il medioevo possa dirsi eliminato a livello di mass media e cultura divulgativa. 

Apparentemente la tendenza giornalistica a utilizzare la parola Medioevo con accezione dispregiativa può sembrare in aumento, soprattutto nell’ultimo anno e soprattutto in Italia.  Ad una più attenta analisi tuttavia, in modo particolare nell’ambito della stampa online, è presente un approccio maggiormente consapevole alla questione. È significativo il drastico calo a livello mondiale dal 2004 a oggi della digitazione sui motori di ricerca di termini quali “secoli bui” (dati Google Trend). Ad articoli d’opinione che paragonano le storture del XXI secolo a un regresso verso l’anno mille, fanno da contraltare numerose analisi e fact checking che smascherano stereotipi e pregiudizi. Tutto ciò non esclude che permanga un ampio uso del termine “medioevo” in modo distorto. Inoltre, non siamo ancora in grado di valutare quanto questa tendenza sia radicata nel linguaggio colloquiale e presso le fasce meno istruite della popolazione. 

L’aggettivo medievale viene comunque utilizzato in modo diffuso, nel senso di regresso verso l’inciviltà, per numerosi titoli “caldi” da parte della stampa non specialistica. Il sussistere stesso di questa scelta presuppone che il lettore medio condivida l’equazione fra medioevo e decadimento di ogni manifestazione dello spirito umano. Una significativa opposizione contro l’irreggimentazione del medioevo si infrange sulla complessità, sulla poliedricità di un periodo lunghissimo (fra la caduta dell’Impero Romano e la scoperta dell’America trascorrono esattamente 1.016 anni!), costruito a posteriori, in modo artificiale sulla base dei differenti indirizzi storiografici.

In conclusione, il concetto di medioevo mostra con evidenza una peculiarità, ovvero il suo essere caleidoscopico. Proprio questa sua struttura intrinseca ci pone di fronte a un rischio: derubricare a mere sottigliezze erudite le tante, variegate interpretazioni – e strumentalizzazioni – riguardanti l’età di mezzo. È una tentazione forte, in particolar modo per il lettore non specialistico. Eppure, è una tentazione a cui bisogna resistere. Rifiutare la semplificazione è infatti un antidoto potente contro la manomissione delle parole (Carofiglio). Chi impiega il paradigma medievale per stigmatizzare l’attualità, non dimostra esclusivamente ignoranza del passato, né meramente distorce un vocabolo. Tramite preconcetti “storici”, infatti, sclerotizza il presente, per generare, a sua volta, nuovi stereotipi. 

Si può ipotizzare su quale terreno germini questo fenomeno di medievalizzazione del presente. Possiamo interpretare questa operazione come un tentativo di esorcizzare le paure della contemporaneità, nell’ottica di quello “spirito dei nostri tempi” citato in apertura. Stiamo innegabilmente vivendo un’epoca di profonde trasformazioni. Come in ogni periodo storico di cambiamento, si vedono i germogli di nuovi sistemi di valori, vengono generandosi nuovi ordinamenti politici, sociali ed economici. È inevitabile che la società risponda a queste modificazioni dell’ambiente circostante, rivedendo i propri metri di giudizio. L’adattamento, più o meno consapevole, è, in alcuni casi, incentivato dal riferimento, come modello da adottare o come esempio da rifiutare, a determinati periodi storici; è il caso del medioevo, il quale negli ultimissimi anni ha subito un vero e proprio revival. Come afferma lo storico Alessandro Barbero «ogni cosa che non ci piace ci fa gridare: ritorna il Medioevo. È il sollievo che il Medioevo sia finito che ce lo fa piacere».

 

Edoardo Anziano

Nato a Firenze, studia Filosofia all’Università di Bologna. È redattore del mensile culturale Edera e collabora con la testata online LucidaMente.

Uno sguardo diverso sul mondo Pop: l’esempio italiano

Roma, anni ’60, alcuni artisti sorseggiano una bevanda calda presso caffè Rosati, in piazza del Popolo, conversando sul loro tempo, sulle nuove tendenze culturali del periodo. Sono gli artisti che hanno segnato la storia della Pop Art in Italia: Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Giosetta Fioroni, Lucio Del Pezzo, Renato Mambor, Enrico Baj, Titina Maselli; uomini e donne che hanno dato nuovi sensi e significati all’arte contemporanea, interpretando un mondo in continua evoluzione, sullo sfondo di una capitale che è centro del dibattito culturale del periodo. Se la Roma degli anni ’60 manifesta una profonda ripresa economica dopo le Grandi Guerre, facendosi portavoce delle rivoluzioni mediatiche (dal cinema alla televisione), anche gli artisti emergenti sentono la necessità di esprimere la realtà del tempo, accordandosi con un momento storico in cui l’arte pretende una svolta, necessita di un forte cambiamento. Nascono in questo modo capolavori come gli Argenti di Giosetta Fioroni, le rappresentazioni del paesaggio urbano di Cesare Tacchi, le opere in plexiglass di Gino Marotta che, nella commistione tra materiali industriali e soggetti quotidiani, propongono uno stile nuovo, al passo con i tempi.

Un vento di cambiamento, dunque, quello che si respira nella Roma degli anni ’60, sebbene permane quella sensazione di una italianità che non rinuncia alle proprie origini pittoriche, come ben esprimono le opere di Mario Schifano, il “nostro Andy Warhol”. Una Pop Art diversa dalla sua controparte americana, più intimistica, legata all’ambiente in cui nasce e cresce e al passato culturale da cui trae le mosse e da cui non può prescindere.

Dai primi moti, fino al trionfo con i tre grandi artisti: Angeli, Festa e Schifano; dalle opere di piccole dimensioni fino a quelle monumentali: questo il percorso che è stato costruito all’interno della mostra situata presso il Museo Civico di Asolo, visitabile fino al 2 aprile 2018.

recensione mostra schifano pop art asolo_La chiave di Sophia

Un panorama composito che, nella varietà di volti, scolpisce con completezza un periodo storico, una corrente e una geografia. Il tutto coronato dalla presenza di alcune tra le opere più significative del protagonista di questo movimento: Mario Schifano.

Egli interpreta la realtà seguendo il gusto di colui che ha colto i sentimenti di un’epoca, senza rinunciare alle proprie origini e alla propria identità. Oggetto della sua indagine diventa tutto ciò che lo circonda, in primis la propria città natale, Homs, centro di molteplici rappresentazioni da lui realizzate. Ciò che colpisce di Schifano è la capacità di dare vivacità e dinamismo all’immagine, grazie all’utilizzo di colori vivi, abbondantemente distribuiti sulla tela. Non c’è risparmio di colore nelle sue opere, le pennellate colpiscono letteralmente il supporto, creando increspature, conferendo tridimensionalità e giochi di luce e ombra. Da ciò deriva quella “pittoricità” dell’immagine, come è stata definita dalla critica, che differenzia Schifano dal grande luminare del mondo pop: Andy Warhol.

Pur non estraneo dalle logiche di produzione in serie e dalle influenze dei mass media, Schifano sceglie di non emulare in tutto e per tutto Warhol, ma conserva la volontà di rimanere in primis pittore, abbandonando la scuderia di Leo Castelli, che gli chiedeva di realizzare loghi o paesaggi anemici, troppo riduttivi per il suo istinto artistico. Una figura cardine per capire dunque il paesaggio entro cui si sviluppa questa corrente, dai risvolti davvero significativi per la storia dell’arte.

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Il percorso prende le mosse dal primo piano del Museo Civico ed è corredato di fotografie storiche, che mostrano gli artisti immersi nel loro tempo. Il visitatore che sale è trasportato in una realtà a più livelli, varia anche nella tipologia di materiali che vengono utilizzati. Un viaggio emozionale che vuole scolpire il movimento Pop a tutto tondo, non tralasciando nulla di quelle che sono le caratteristiche dei protagonisti e della loro arte.

Tutto questo fino al 2 aprile, ad Asolo.

 

Anna Tieppo

 

[Tutte le immagini sono di proprietà dell’autrice]

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Dewey e la democrazia radicale, tra complessità e intenzionalità comune

La società umana si evolve nel segno della complessità. I saperi diventano più settorializzati e corrispondentemente meno accessibili e possiamo raffigurarci la crescita della complessità come una moltiplicazione di vocabolari i quali, a mano a mano che si sviluppano, diventano reciprocamente intraducibili, se vogliono mantenere la propria specificità. Una delle conseguenze più lampanti di tale processo è la frammentazione dell’opinione pubblica, cristallizzata in spaccature politiche a tratti mai tanto evidenti, che trova casa nell’individualismo montante nelle nuove generazioni, che si spinge fin nel cuore di quei mezzi che, idealmente, rispondono a un crescente bisogno di connessione e comunicazione (leggi: social media, ma anche l’internet in generale), ma che finiscono per rimanere intrappolati nelle distorsioni cognitive che ci portiamo appresso.

Parallelamente a tale frattura, possiamo riconoscere un trend interno al processo democratico che ha progressivamente allontanato l’elettorato dal legislatore e (a tratti) dalla figura dell’esperto, alleanza sempre più frequente e ben esemplificata dai numerosi governi tecnici cui abbiamo assistito nel recente passato.

Il tema fu portato al grande pubblico grazie al dibattito tra il filosofo americano John Dewey e il giornalista Walter Lippmann: quest’ultimo negava che il pubblico avrebbe potuto mantenere il proprio ruolo privilegiato all’interno della democrazia, poiché l’avvento dei mass media lo stava rendendo sempre più manipolabile e di conseguenza incapace di prendere decisioni autonome. La soluzione? Virare verso la tecnocrazia.

Nulla di tutto ciò suonerà particolarmente nuovo al lettore; Dewey fu un accanito difensore della democrazia, e propose utili riflessioni in proposito: nel suo Comunità e potere1, egli si concentra in particolar modo sulla transizione tra ciò che egli chiama «Grande Società» e la «Grande Comunità». Nel prosieguo dell’esposizione, tenterò di rendere intelligibile questo passaggio e di come questo si agganci alle tematiche attuali.

Innanzitutto, la democrazia per l’autore americano è da intendersi come etica, riprendendo l’idea greca di ethos come insieme di costumi, norme, atteggiamenti, sentimenti e aspirazioni che caratterizzano la vita di un popolo. Lo Stato non deve le proprie origini a una qualche causa trascendentale, bensì al fatto che la comunità di persone, diventando più numerosa e di conseguenza più vulnerabile alle manchevolezze dei propri membri, decide di tutelarsi dalle conseguenze indirette delle azioni individuali; vengono eletti dei pubblici ufficiali affinché gli interessi comuni vengano protetti e gli ufficiali, a loro volta, vengono vigilati dal pubblico, il quale controlla i loro appetiti egoistici attraverso il meccanismo dell’elezione periodica.

Il processo decisionale, tuttavia, non è riuscito a tenere il passo di una crescente complessità. Quella natura processuale della democrazia, ben descritta da Tocqueville nel suo La democrazia in America, si è ridotta progressivamente alla conta delle preferenze degli elettori, come su di un pallottoliere. Non che la democrazia come calderone di tutto ciò che porta alla definizione, sempre dinamica e a circolo aperto, di quelle opinioni sulle quali gli elettori si esprimono, sia venuta a mancare; ma il battage dell’expertise ha oscurato ulteriormente tale processualità, spostando i riflettori sulla figura dell’esperto e lasciando al pubblico il “mero” esercizio del voto.

Questo scollamento tra policy makers e pubblico annebbia la visione d’insieme: in primo luogo, come il recente caso Trump ammonisce, problematiche scientificamente ovvie – il riscaldamento globale – possono essere così lontane dalla coscienza del pubblico, che la sola conoscenza accademica non riesce a smuovere l’impasse. Rischiamo di alimentare un intellettualismo privo di braccia. In seconda battuta, la figura stessa dell’intellettuale e dell’esperto è stata a tratti sopravvalutata, non quanto alla risoluzione di teoremi o ad avanzamenti nanotecnologici, bensì quanto alla risoluzione di problemi pratici; attualmente, impieghiamo risorse mentali vergognosamente insufficienti per rispondere alla difficoltà dalle sfide contemporanee.

Allontanandosi da qualsiasi contrattualismo semplicistico, la società per Dewey non è un aggregato di individui, non una necessaria frizione di soggetti: si tratta di un organismo che agisce, guidato da intenzioni comuni. All’intenzione è pregiudiziale la comunicazione; di conseguenza, un volere diviso si rispecchia in una trasmissione di saperi altrettanto frammentaria. «Abbiamo strumenti materiali di comunicazione che non abbiamo mai avuto nel passato; ma i pensieri e le aspirazioni conformi a tali strumenti non si comunicano e quindi non diventano comuni a tutti. Senza tale comunicazione d’idee il pubblico rimarrà oscuro e informe, cercandosi spasmodicamente, ma afferrando e trattenendo la sua ombra anziché la sua sostanza. Finché la Grande Società non si convertirà in una Grande Comunità, il Pubblico rimarrà in uno stato di eclisse. […] La nostra non è una Babilonia delle lingue, bensì dei segni e dei simboli, in mancanza dei quali è impossibile un’esperienza comune»2.

Queste parole sono cariche di suggestioni e lasciano aperte molte questioni. Quali sono “i pensieri e le aspirazioni” dell’interconnessione contemporanea, forse la comunicazione universale, oltreché istantanea ed efficiente? Quali le forme che realizzano un’esperienza comune, oggi che abbiamo innalzato algoritmi a cementare le nostre tensioni monadiche? La complessità avanza, la velocità incalza, ma la dimensione dell’umano ci richiede di ritornare pazientemente sui nostri passi e di confrontarci con le questioni che ci toccano più da vicino: la nostra capacità di costruire in comune, accordando l’intenzione dei singoli a una visione più ampia, smuovendo le coscienze dal proprio torpore individuale, stando attenti a non sacrificare la ricchezza della particolarità singolare.

 

Alessandro Veneri

Mi piace pensare. Cerco di distillare i contenuti che mi attraversano la coscienza, affaccendandomi talvolta per metterli su carta o codici binari. 
Un mantra di questo periodo è sperimentare se le scelte difficili rendano la vita un po’ più facile. In attesa di scoprirlo, le giornate si arricchiscono di studio filosofico, copywriting, passeggiate, e della presenza di cari amici.

 

NOTE:
1. Cfr. J. Dewey, Comunità e Potere, La Nuova Italia, Firenze 1971. L’edizione originale in inglese, dal titolo The public and its problems, è del 1927.
2. J. Dewey, Op. cit., p.112.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Dalla fama, per la fama: Andy Warhol in mostra ad Asolo

Genio, sregolatezza, anticonformismo, tre parole per esprimere uno degli artisti più noti e amati della Pop Art: Andy Warhol. Fondatore della Factory, autore di famose serigrafie, Warhol ha scosso il panorama artistico americano degli anni ’60, esprimendo con innovazione la realtà del tempo, facendosi interprete di un mondo e delle sue contraddizioni. Marylin Monroe, Aretha Franklin, Mick Jagger sono solo alcuni dei volti riprodotti con ripetitività incalzante nelle sue opere, oggi visibili presso la mostra ospitata al Museo Civico di Asolo, aperta al pubblico dal 28 gennaio al 17 aprile 2017 e che segna i 30 anni dalla morte. Un evento da non perdere, che permette al visitatore di viaggiare nel tempo e nello spazio, per immergersi nell’America di cinquant’anni fa, negli anni del boom economico e del successo dei mass media.

Il percorso ha inizio nelle sale antistanti a Sala della Ragione, dove è situata la mostra vera e propria. Il turista viene dapprima avvicinato alla realtà di Warhol con una serie di immagini e didascalie che offrono alcuni scorci sul suo mondo e su quello dei suoi collaboratori, rivelando momenti di vita, aneddoti interessanti di un passato in fondo non così lontano da noi.

«Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti».

«Non è forse la vita una serie di immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?»

«La pop art è un modo di amare le cose».

Queste sono solo alcune delle citazioni che lo ricordano, che rendono indelebile l’immagine dell’uomo eccentrico, dai capelli color paglierino, che era solito indossare scarpe da tennis anche in situazioni ufficiali. Un uomo e un artista che ha fatto storia e che è riuscito a cogliere intimamente ciò che lo circondava, rappresentandolo in opere innovative. Da questi primi spunti, che si possono intuire già nella rassegna di fotografie all’ingresso, il visitatore è spinto poi ad addentrarsi nel cuore della mostra, dove sono ospitate più di cinquanta opere originali, quasi tutte serigrafie accompagnate da poche litografie, che ripropongono gli aspetti salienti della sua arte: dalla ripetitività alla riproduzione degli oggetti di consumo, dalla ritrattistica ad omaggi che ricordano i più famosi artisti dell’epoca. Si tratta di opere che provengono da tre collezioni private, due venete e una lombarda, non visibili in altri musei. Un evento che permette dunque di toccare la sua produzione da molte angolature, di conoscere a tutto tondo la sua arte, anche quella inedita, se non fosse soltanto per la presenza dei libri che occupano un intero angolo della grande sala.

Ma addentriamoci ora più a fondo nella sua opera: che cosa rende Warhol davvero Warhol? La serigrafia, innanzitutto: la tecnica di stampa da lui utilizzata per simulare la produzione in serie, la corsa verso la massima redditività e il massimo consumo, calzante rappresentazione dell’America del tempo; la scelta di soggetti noti, in secondo luogo, sia nell’ambito del cinema che in quello alimentare: da Marylin Monroe alle lattine Campbell, da Mao Tze Tung alla famosa Coca-Cola, la bevanda più nota agli americani. Tuttavia si può dire che Warhol non sia solo questo, ma molto di più: egli è ricerca profonda e sofferta della fama, unico antidoto contrapposto al fantasma della morte, è rottura con il pensiero artistico precedente, è infine interesse per gli affari: «essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante. Fare soldi è un’arte» diceva lui stesso. Un autore versatile dunque, dalle mille passioni, che è riuscito ad interpretare un’epoca e una realtà di cui noi siamo figli e da cui dipendiamo profondamente.

Tutto questo ad Asolo, con apertura al pubblico il giovedì e il venerdì dalle 15.00 alle 19.00, il sabato e  la domenica dalle 9.30 alle 12.30 e  dalle 15.00 alle 19.00. Qui per maggiori informazioni.

 

Anna Tieppo

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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LE DIVERTISSEMENT: la distrazione tra Pascal e Chomsky

«Vedo bene che, per render felice un uomo, basta distrarlo dalle sue miserie domestiche e riempire tutti i suoi pensieri della sollecitudine di ballar bene. Ma accadrà il medesimo con un re, e sarà egli più felice attaccandosi a quei frivoli divertimenti anziché allo spettacolo della sua grandezza?
[…] i re son circondati da persone che si prendono una cura singolare di evitare che restino soli e in condizione di pensare a loro stessi, ben sapendo che, se ci pensassero, sarebbero infelici, nonostante che siano re»1.

Ebbene sì, anche i re secondo Pascal, come tutti gli uomini, hanno bisogno di distrarsi dalle questioni serie della vita. La morte viene scansata, messa da parte come tutte le miserie umane, che da un tono cupo e nero acquisiscono un colore grigio tenue, quasi indifferente e ci sentiamo più sereni. Magari fosse così semplice, anche il valore della vita stessa viene scalfito: saranno passati secoli ma basti solo pensare già a Versailles e la sua funzione primaria di distrazione dei nobili verso le faccende politiche. Luigi XIV aveva già anticipato in parte il sistema per cui far perdere interesse nelle tematiche importanti in primo piano; di fatto feste in regge lussuose e banchetti sfarzosi, se si pensa, possono essere paragonati in forma easy dei nostri party all’aperto e alle apericene o buffet offerti oggi.

La distrazione è ciò che fa stare bene, ma solo per un determinato tempo, perché si è gettati nella realtà e non si può evitarla troppo a lungo. Soprattutto se non pensiamo a ciò che ci accade nella realtà, come possiamo riconoscerne il valore?

«L’uomo è chiaramente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo merito; e tutto il suo dovere consiste nel pensare come si deve. Ora, l’ordine del pensiero è quello di cominciare da sé, e dal suo autore e dal suo fine.
Ma a che cosa pensa la gente? Mai a questo; ma a ballare, a suonare il liuto, a cantare, a comporre versi, a infilzar l’anello nelle giostre, e cose simili, a battersi, a farsi incoronare re, senza pensare che cosa vuol dire essere re e che cosa vuol dire essere uomo».

Oggi poco è cambiato dal passato: si balza da Pascal alla più attuale teoria di Chomsky, che paiono ad un certo punto continuarsi e evolversi con i tempi e la cultura della propria epoca.

Secondo Chomsky infatti i mass media per ottenere consenso manipolano la volontà, distraendo la coscienza in modo costante e repentino, affinché non resti il tempo per pensare e interessarsi alle conoscenze essenziali, al di fuori delle proposte già date. Si basti pensare come l’attenzione sia stata tolta da eventi urgenti di ieri, come l’emergenza profughi o la crisi economica o la povertà emergente in Italia, di fronte ai risultati delle partite degli Europei di calcio, informazioni che davvero a confronto sembrano essere insignificanti.

Ora pensiamo alle nostre singole vite: anch’io personalmente, a volte preferisco non pensare a certe cose, ma quelle cose lì non si dissolvono. Quante volte si decide di non pensare e di distrarsi, credendo che così facendo si possa essere felici anche solo per un minuto? Distrarsi può essere, ma non è sempre un rimedio. A lungo tempo andare, abituandosi ad esso, diventa il male che ci fa ammalare della miseria più grande per Pascal: il non pensare. Il pensiero rende l’uomo quello che è e non può dimenticarsi una parte di sé.

Distrarsi dai problemi non li risolve, li mette solo da parte.

Bisognerà ritornare a pensare, un giorno o l’altro. Ma quando?

Intanto proviamo a ricominciare a pensare da qui.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1. B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pag 157.

«JE SUIS CHARLIE» A quasi 10 mesi dalla strage cosa abbiamo dimenticato?

Parigi, 7 gennaio 2015.
Rue Nicolas Appert, numero 10.
Sono le 11.30 del mattino, è in corso la runione di redazione.
Raffiche di arma da fuoco. Silenzio. Morte.
Due uomini armati di AK47 escono dalla redazione, il volto celato da passamontagna.
Scappano in tutta fretta ma incontrano una pattuglia di polizia e poi una seconda.
Altri scontri a fuoco. Ancora Morte.
Riescono di nuovo a fuggire ma poco dopo sono costretti ad abbandonare la macchina a causa di un incidente e si impossessano di un’altra auto
Miracolosamente, nella foga uno dei due perde la propria carta di identità.

Wittgenstein ci insegnava: «su ciò di cui non si può parlare è necessario tacere», e penso che nei giorni successivi all’attentato al giornale satirico francese egli avrebbe ribadito con forza il suo concetto.
Qual è il motivo che ci porta a strumentalizzare così facilmente una strage, a condividerne i video come pazzi sui social, ad alzare anche noi la voce al grido «Je suis Charlie» seguito da un molto meno pacifico «morte ai musulmani»? Perché semplicemente non esprimiamo il nostro cordoglio in silenzio, magari spegnendo televisori, computer e cellulari, meditando singolarmente su quanto accaduto?
Ma com’è che ora “nous sommes tous Charlie”?
Fino a qualche giorno prima, l’irriverenza della redazione aveva dato fastidio a chiunque: destra, sinistra, cattolici, ebrei e musulmani. Certo, a nessuno era venuto in mente di uccidere qualcuno, ma maledizioni, offese e minacce non erano certo mancate – basta pensare alle molotov lanciate contro la sede nel 2011.
Che dire dei giornalisti – e non solo – che di colpo si scoprono amanti della satira?
Che dire della frase che a partire dal 7 gennaio ha avuto tanta fortuna in rete: «non tutti i musulmani sono terroristi, eppure tutti i terroristi sono musulmani»?
Che dire di Mario Borghezio, che ha passeggiato per Milano attaccando copertine di Charlie Hebdo su ogni vetrina di Kebab?

Ma ci siamo chiesti cosa ne pensano loro – i musulmani – del gesto estremo compiuto da queste tre persone (sempre che solo di tre persone si tratti)?
Ecco degli estratti:
Dalil Boubakeur, Presidente del Consiglio Francese per il Culto Musulmano: «Ci inchiniamo davanti a tutte le vittime di questo dramma orribile».
Nabil al-Arabi, Segretario della Lega Araba: «l’Islam è contro ogni violenza».
Mohammed Mraizika, Segretario generale dell’Unione delle moschee di Francia: «Nulla, assolutamente nulla, può giustificare o scusare questo crimine».
A loro si aggiungono Tareq Oubrou, Rettore della moschea di Bordeaux, e l’Imam della stessa città, che invitano i musulmani tutti a partecipare alle manifestazioni per «esprimere il loro disgusto».

Tirando le somme, è fin troppo facile cadere in semplicismi o anche solo farsi trascinare dalla corrente, ma in questi momenti più che mai è necessario riflettere in modo “filosofico” (che non a caso in queste situazioni può essere sinonimo di “ragionevole”) ed analizzare in modo razionale la questione.
Non si può negare che il tragico atto sia stato “negativo” – almeno in quanto è stata fatta e subita violenza in modo oggettivo-razionalista, uscendo quindi da un’ottica etico-moralista. Ora, l’indagine filosofica di L.V. Tarca (ad esempio nell’opera “La filosofia come stile di vita”) ci insegna che negare una negazione significa riprodurla, dato che in ogni caso nego qualcosa, anche se quel qualcosa si tratta a sua volta di una negazione.
Nell’atto pratico, proporre una “soluzione” che sia in qualche modo “negativa”, almeno nella misura in cui si contrappone/opera violenza, non può essere una soluzione.
Testimonianza di ciò possono essere le reazioni del mondo arabo di fronte alla pubblicazione del nuovo numero di Charlie Hebdo, volutamente provocatorio. Come afferma l’Huffington Post: «Dal Pakistan all’Algeria, fino alla Giordania e alla Siria è un venerdì della collera quello che si è celebrato nel mondo arabo. Sotto accusa sono le nuove vignette su Maometto pubblicate dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo».
Le manifestazioni più violente si sono registrate in Pakistan, dove la polizia ha dovuto intervenire con i lacrimogeni; in Iran, a Gaza e soprattutto in Niger, dove sono state incendiate quarantacinque chiese, cinque hotels, trentasei ristoranti, un orfanotrofio, una scuola e un centro di cultura francese. (Fonte: Internazionale).

Come si può, quindi, rispondere in maniera positiva – nel senso del “puro positivo”, cioè quell’azione che differisce dalla negazione senza però riprodurla e quindi seguendo la teoria della “pura differenza? Un suggerimento di risposta ci può essere dato – paradossalmente? – da Izzed Elzir, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche italiane (UCOII) e Imam di Firenze: «il mio invito, adesso, di fronte a questo estremismo ed a questo terrorismo, è di rafforzare le energie per aumentare il dialogo ed il confronto».

  1. Severino, nella sua opera “Capitalismo senza futuro”, e gli articoli presenti del testo “Primum Philosophari”, a cura di L. V. Tarca e Laura Candiotto, ci mostrano come un’azione che voglia essere coerente con se medesima non può prescindere dall’analisi di mezzo e scopo: essi devono coincidere. Non si può ottenere un certo risultato se le nostre azioni si discostano da esso. D’altronde ciò ci era già stato mostrato ed insegnato da Gandhi: per ottenere la non-violenza è necessario sì predicarla ma soprattutto metterla in pratica.
    Ecco quindi il puro positivo: cercare il dialogo con chi ci ha “violentato”, perché altrimenti riprodurremo l’azione che abbiamo subito: combattendo la guerra faccio comunque guerra, combattendo un violento opero comunque violentemente, combattendo un ingiusto riproduco l’ingiustizia.

«L’omofobia, la xenofobia ed il razzismo NON sono satira. Anzitutto perché la satira ha come bersaglio il potere e, in generale, i carnefici, non le vittime. In secondo luogo, gay, neri, uomini con gli occhi a mandorla ecc… si nasce. Non è qualcosa che puoi scegliere. Credere o meno in una divinità, invece, è una scelta. In terzo luogo, il razzismo in Italia è reato (legge 654/1975) e la legge è il limite della libertà di espressione».

Questa la risposta di un navigatore della rete alla prospettiva di un ideale giornale satirico “Salvini League” dai toni xenofobi, omofobi ecc ipotizzato da un altro marinaio in risposta all’articolo apparso su Wired il 09/01/2015 intitolato “L’Italia senza satira e la strage di Charlie Hebdo” redatto da Marco Rizzo.

Ho evidenziato subito quale sia secondo me uno dei punti fondamentali dell’enorme minestrone di idee che ha iniziato la sua lenta cottura a seguito del terribile fatto del 7 Gennaio.
La legge è il limite della libertà di espressione, o, modificando leggermente la formula: il potere è il limite della libertà di espressione. Sembra una cosa da nulla – quasi scontata oserei dire – ma invece a mio modo di vedere è uno dei nodi nevralgici della questione.
Alla domanda: «Ti è consentito proporre teorie ed analizzare cause e conseguenze di ogni fatto?»; tu cosa rispondi?

Sì, ci verrebbe da dire, l’Occidente si vanta da secoli della libertà che scorre nelle sue vene, quasi traesse il suo sostentamento dalle idee delle persone e non dai finanziamenti alle guerre che gli fanno comodo o dai massacri di massa in nome di un altro liquido di colore nero ben più proteico della parola “libertà”.

Nei fatti la risposta è un secco e categorico «NO».

Ormai non ci è più nemmeno consentito chi/cosa piangere. Il filtro delle notizie non è in mano nostra, ma ci precede. E così è naturale che “siamo tutti Charlie” mentre in Nigeria, il giorno seguente all’attacco al giornale satirico francese, Boko Haram ed i suoi soldati compivano la loro più grande strage senza che la cosa ci toccasse minimamente; e qui si temono duemila vittime: donne, uomini e bambini che non avevano offeso nessun profeta.
Un esempio di come la libertà di pensiero abbia vita breve è il semplice titolo di un articolo apparso su “Le Figaro” – giornale conservatore parigino – in segiuto alla strage: «La théorie du complot est l’arme politique du faible », cioè: «la teoria del complotto è l’arma politica del debole». Non voglio entrare nel merito della questione complottista, ma, alla notizia che ciò che ha permesso l’identificazione e quindi successivamente la cattura (in questo caso purtroppo l’uccisione) dei presunti attentatori è stata la perdita delle carte di identità da parte di questi ultimi nella macchina con la quale stavano fuggendo, a me qualche dubbio sulla “versione ufficiale” era sorto.
(Per un approfondimento psicologico sulla questione può essere interessante l’analisi di Nadine Eggimann, psicologa dell’Accademia militare del Politecnico federale di Zurigo, anche se a mio modo di vedere è alquanto semplicistico).

Un altro bell’esempio del lavaggio di cervello mediatico è quello messo alla luce dal progetto “Tra le righe” di Venezia: «Il giorno dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, i nostri giornali ci offrono una carrellata di eloquenti prime pagine. Nulla di nuovo. Come era prevedibile, questa tragica vicenda ha portato anche i media a scadere in una facile generalizzazione. “Macellai islamici”, “Strage islamica contro la libertà”, queste sono alcune delle prime pagine che ci propone la stampa nazionale».

Cos’è, quindi, che abbiamo dimenticato?
Ci siamo dimenticati di indignarci. Non tanto per il fatto in sé, sfido chiunque a non condannare l’attentato, quanto piuttosto per come abbiamo reagito.
Il pensiero e la ragione sono i nostri più grandi alleati dato che anche in catene siamo – potenzialmente – massimamente liberi. Nostro diritto, e dovere, è quello di ragionare, di reagire agli stimoli in maniera ponderata, di non farci dominare dai sentimenti o da ciò che viene espresso dagli altri.

Massimiliano Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]

Metamorfosi (la perfezione inesistente)

 

Viviamo in una realtà stereotipata, viviamo inseguendo dei modelli, decretati da non si sa bene chi, forse da una collettività troppo concentrata sul sembrare e poco interessata all’essere.
Questa considerazione sappiamo bene potersi estendere, bene o male, a qualsiasi sfera dell’esistenza umana. Questa riflessione non è altro che immagine scritta di una società priva di valori.
Questi stereotipi, tuttavia, vengono addidati e allo stesso tempo inseguiti ossequiosamente da ogni singolo individuo che io abbia mai avuto la possibilità di incontrare. Chi vuole essere il figlio perfetto, chi lo studente modello, chi il compagno ideale, la moglie che l’immaginario collettivo desidera, la ragazza che tutti si voltano a guardare per strada..la ragazza che desidera ardentemente ricevere lusinghe, quella che posta foto sui social perché la “fame del like” e la bramosia di approvazione sono troppo forti per non ricercare ossessionatamente l’approvazione altrui.
La premessa serve unicamente ad aprire la strada alla riflessione che sento di dover attuare, soprattutto ora, qui, perché nel mondo delle parole non si trova mai abbastanza spazio per valorizzare una donna per ciò che è e non per ciò che dovrebbe essere.
I media manipolano, persuadono, modificano la nostra opinione, il nostro pensiero, il nostro modo di agire. I media possiedono quel potere coercitivo in grado di mutare spazi e tempi, divengono estensioni del nostro io, ci affidiamo a loro, ascoltiamo, agiamo. Il passaggio da ascoltare e restare passivi ad agire e diventare attori attivi sta avvalorando, giustificando e legittimando la violenza che le donne subiscono dai media…violenza che, come per un effetto osmosi, è portata avanti dalla società reale, dal sistema nel quale viviamo, ci rapportiamo.
Il viso perfetto, i capelli perfetti, il corpo perfetto. Cercando di mostrare donne normali, attuano ancor di più la corsa alla somiglianza di modelli del tutto sbagliati.
So cosa vuol dire vivere in sovrappeso, sentire le risate, le prese in giro, le cattiverie gratuite… La preclusione alla definizione di “normale”, l’ inclusione nel gruppo dei ciccioni, dei brutti, di coloro che valgono meno. Di questo parliamo, della privazione del valore personale con l’aumento del peso corporeo.
Ad ogni epoca corrispondono stereotipi, in ogni epoca le donne fanno la corsa per tagliare il traguardo. Passare le notti insonne, passare le giornate a resistere, a privarsi del piacere del cibo, dell’unica cosa in grado di saziare davvero l’animo, per ottenere un sorriso, un complimento…il compiacimento. Perché la volete sapere la dura verità? A nessuno piace andare in palestra a sentire la ciccia che salta su e giù mentre si corro sul tapisroulant, nessuna donna prova piacere nel sostituire una fetta di torta con una carota o una costa di sedano…e chi vi dirà il contrario, mente.
Malgrado le lacrime, i dolori, le privazioni, nulla potrà mai discostare una donna dal raggiungimento del proprio obiettivo, nessuno potrà convincere una donna che l’approvazione altrui non conta, che le persone che offendono sono stupide. Nessuno.
Il baratro, nel quale il genere femminile è caduto,sta continuando a risucchiare autostima, sorriso, felicità del sé. Accendete la televisione, sfogliate un giornale, una rivista, accedete a Facebook… Vorrei sapere quante donne “normali” avranno un vostro sorriso, quante super magre avranno il vostro like. Potremmo disquisire a lungo su programmi, asserzioni, pensieri e opinioni sulla magrezza, sull’obesità, ma non vorrei mai fare polemica o trasformare un veicolo di libertà di espressione e verità, come lo sono queste parole, in un arma di discussione inutile.
La verità, mio malgrado, deve esser dispiegata. Questa è, però, una realtà scomoda, qualcosa che la maggior parte delle donne negherà. Per me scrivere tutto ciò è difficile, affrontare i propri mostri lo è sempre…ma la propria sofferenza potrebbe esser la chiave di lettura della sofferenza altrui.
Questa rubrica, la possibilità di trasmettere il mio pensiero al mondo, mi ha fatto comprendere come la narrazione  dell’attualità non sia la strada più giusta per esplicitare e chiarificare le forme di violenza contro il genere femminile. Sono le storie vere a dispiegare la totalità di un evento, di atteggiamenti, di condizioni.
Oggi ho deciso di scrivere di un tema, se pur con toni “smorzati”, che mi sta molto a cuore.
Cercare di reincarnare lo stereotipo della donna supermagra, perché la si percepisce come un’imposizione della società odierna, è una violenza… Se vogliamo, una violenza amplificata e legittimata.
Come potrebbe esser altrimenti, per un fenomeno che porta le donne, e anche gli uomini, perché nessuno ne viene escluso, a cambiare sè stessi, la propria immagine, la figura che è riflesso della propria anima, per compiacere una società ossessionata da valori distorti?
Perché oggi come oggi, non importa chi sei, ma come appari.
IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

[Immagine: opera Metamorfosi IV – pavone di Clarae]