Martin Heidegger e l’origine dell’opera d’arte

Martin Heidegger ha sempre privilegiato momenti alternativi a quelli dell’argomentazione filosofica tradizionale, quali la meditazione sul linguaggio e sull’esperienza della verità nell’arte. Questo atteggiamento trova espressione nel saggio L’origine dell’opera d’arte, che risale agli anni Trenta ma che viene pubblicato nel 1950. Nello scritto si trova il cuore della riflessione heideggeriana sull’arte attraverso l’indagine sul nesso tra arte e verità, anche se il suo contenuto viene rigorosamente determinato dal problema dell’essere. L’essere rimane infatti la questione da pensare sia nel “primo”, che nel “secondo” Heidegger e la posizione di questo saggio è di fondamentale importanza, poiché in esso il filosofo scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell’essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (svelante).

per Heidegger l’opera d’arte, che si tramanda di epoca in epoca, non è riducibile a un unico significato, ma, al contrario, si può tradurre in modi sempre diversi. Persino la totalità dei significati assunti in tempi diversi non può racchiudere il suo senso ultimo, altrimenti non avrebbe più niente da dirci. Nell’opera d’arte non vi è mai nulla di completamente chiaro: luce e oscurità, velatezza e dis-velatezza, tra loro inscindibili, sono i caratteri che la rendono vibrante e che dispongono l’uomo all’ascolto e alla meraviglia di fronte ad essa. È importante ricordare che il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso come l’annuncio di una ricerca per determinare ciò da cui l’opera d’arte ha origine; esso indica piuttosto che l’opera d’arte è un’origine, nella misura in cui è il mondo che essa stessa apre e illumina. Heidegger tenta dunque una considerazione alternativa rispetto all’estetica tradizionale, che interpreta fenomeni quali bellezza, poesia e arte solamente in riferimento all’uomo come soggetto, levandogli portata ontologica.

Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, seguendo le opinioni comuni accettate, conduce a quello che Heidegger nei primi paragrafi chiama “un circolo vizioso”, da cui però il filosofo non intende uscire, ritenendo coerente sostare in esso e nella contraddizione da esso evidenziata: «Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un riepilogo, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero»1. Per comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger parte allora dal concetto di “cosa”, dato che l’opinione comune considera l’opera d’arte come una cosa, dotata, in più, di valore estetico. Successivamente il filosofo passa alla nozione di mezzo, che sembrerebbe intermedia fra quella di cosa e di opera, per poi scoprire che non è la comprensione della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte che permette di capire il significato della cosa.

Heidegger abbandona quindi le opinioni correnti sulla cosità dell’opera d’arte, poiché è la stessa opera d’arte che rivela l’essere cosa della cosa ed è sempre in virtù di essa che si svela l’essenza del mezzo. La tesi di Heidegger è che, nello stesso momento in cui si è in presenza di un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose. Possiamo affermare, a questo punto, che l’arte è il porsi in opera della verità: «È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità»2. Se l’arte ha dunque fondamentalmente a che fare con la verità, di conseguenza la meditazione sull’arte assume i lineamenti di una speculazione ontologica che realizza una riformulazione del problema dell’essere e dell’ente. L’arte, secondo il filosofo, è un evento che fonda la verità come accadimento, ovvero come qualcosa che si dà storicamente. A ben vedere, allora, l’opera d’arte non appartiene semplicemente a un mondo, ma lo istituisce ed è alla base della sua fondazione.

Questa fondazione o apertura, però, rappresenta soltanto uno dei due momenti, inscindibili e correlati tra loro, di quell’evento di verità che è l’opera d’arte, quello che Heidegger chiama “Mondo”. Infatti, nel suo semplice schiudersi e venire alla luce, l’opera d’arte porta con sé il suo mondo storico e il suo fondamento, ciò che chiama “Terra”. La Terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo, attorno al quale si dispiegano i rapporti che costituiscono l’abitare storico: «Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»3. Il rapporto tra Mondo e Terra viene visto da Heidegger come una lotta. «Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intedesse come contesa e rissa»4 poiché entrambi gli elementi occorrono l’uno all’altro per potersi manifestare: il Mondo necessita del terreno su cui edificarsi, mentre la Terra, per potersi indirettamente svelare, abbisogna del Mondo.

Questa lotta tra Mondo e Terra, che si gioca nell’alternarsi di nascondimento e di svelamento, costituisce, secondo il pensatore tedesco, l’essenza della verità. Si tratta della verità intesa come non-nascondimento, «nel ripensamento della parola greca a-lètheia»5 o, secondo il termine tedesco che usa Heidegger, “Lichtung”: verità nel senso di spazio illuminato all’interno di una zona oscura. Nell’uso heideggeriano del termine “Lichtung” c’è il rimando metaforico alla radura del bosco rischiarata dai raggi del sole e alla foresta buia. Infatti Heidegger insiste non solo sulla luminosità, ma anche sull’oscurità che la circonda.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, p 4
2-3-4-5. Ivi, p. 23, p. 31, p. 34, p. 36

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Un paio di scarpe e null’altro. Una lettura di Van Gogh

Nel famoso scritto L’origine dell’opera d’arte del 1935, Martin Heidegger (1889 – 1976) afferma che il quadro di Vincent Van Gogh (1853 -1890), che rappresenta un paio di scarpe da contadino, è un’opera d’arte non perché imita perfettamente delle calzature, ma perché raffigura un attrezzo, colto in un non-funzionamento, capace di aprire un mondo. L’intero mondo del contadino che ha calzato quelle scarpe viene alla luce. Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’opera d’arte ha la capacità di dischiudere la verità sull’ente e questo scaturire della verità che in essa accade può essere colto soltanto a partire dall’opera. Non è chiaro a quale dei tanti quadri di Van Gogh in cui compaiono scarpe Heidegger si riferisca (probabilmente a Vecchie scarpe con lacci del 1886); ciò che più conta per il pensatore, di fronte all’opera d’arte, è la dimensione dell’ascolto e della meditazione e non il giudizio soggettivo che si può dare su di essa.

Nella voluminosa opera Vincent Van Gogh del 1950, il critico d’arte Meyer Schapiro (1904-1906), invece, vede nell’arte il destino personale del pittore olandese, che libera nei suoi quadri tutte le aspirazioni e le angosce contenute nel proprio io, anche se il suicidio rappresenta la chiara e definitiva testimonianza del fallimento di questo tentativo di salvezza attraverso l’arte. All’interno di questa cornice, secondo lo studioso, rientra il modo di Van Gogh di dipingere gli oggetti (come, ad esempio, il paio di scarpe). Il suo io è così attaccato alle cose da riprodurle ostinatamente più volte. Nell’interpretazione di Schapiro, l’artista dipinge oggetti, siano essi fiori, una sedia, un cappello, una pipa o delle calzature, in quanto estensioni del suo essere.

Le riflessioni del filosofo e dello storico dell’arte di fronte al quadro di Van Gogh sono alla base della disputa sorta tra i due studiosi sulla giusta interpretazione e sulla corretta attribuzione delle calzature dipinte dall’artista olandese. La contesa tra Heidegger e Schapiro ha luogo attraverso uno scambio di lettere intorno agli anni sessanta del secolo scorso. La polemica viene innescata dal secondo, che accusa il primo di aver attribuito
ingenuamente, e senza troppe precisazioni, la proprietà delle scarpe a un contadino, anche se appartengono allo stesso Van Gogh, trascurando l’importante aspetto della presenza dell’autore nella tela per adattarne il contenuto a una elucubrazione filosofica. Jacques Derrida (1930 – 2004) nel saggio La verità in pittura (1978) tenta di porre fine al problema delle scarpe di Van Gogh contese tra Heidegger e Schapiro. Il filosofo francese non condivide l’esasperato bisogno dei due contendenti di assegnare la proprietà delle scarpe e mette in luce come entrambi commettano diversi errori di interpretazione.

Un paio di scarpe e null’altro. Tuttavia…
È interessante rilevare che dal confronto serrato tra Heidegger e Schapiro emerge la capacità intrinseca di un’opera d’arte di innescare un confronto, seppure con risvolti polemici, tra diverse discipline. La celebre disputa sorta attorno al dipinto di Van Gogh riassume in modo emblematico due particolari punti di vista davanti a un’opera: da un lato un atteggiamento ermeneutico-filosofico e dall’altro un atteggiamento critico-artistico. Si tratta di due modalità diverse di accostarsi a un quadro che ognuno di noi può intraprendere, di volta in volta, senza necessariamente dover propendere in modo definitivo per l’una o per l’altra.

Quando visitiamo una mostra, attraversiamo con calma le sale, indugiando di fronte alle opere che ci colpiscono maggiormente. A volte ci poniamo davanti a una tela lasciando che dall’immagine raffigurata affiori un significato, che diventa fonte d’ispirazione per riflessioni su aspetti particolari della nostra esistenza o su concetti filosofici astratti. In altre parole, entriamo in una dimensione di ascolto, confidando che sia il quadro a parlarci. Altrimenti possiamo provare a definire il dipinto in modo più critico mettendolo in rapporto con altri dello stesso autore o con le vicende biografiche dell’artista, oppure, ancora, con l’epoca in cui è stato dipinto e, più in generale, con l’intera storia dell’arte.

È forse questo uno dei caratteri essenziali dell’opera d’arte, ossia quello di aprirsi liberamente allo sguardo degli spettatori. Un quadro ha la facoltà di generare molteplici rimandi, di volta in volta differenti a seconda del punto di vista da cui si vuole guardare il suo contenuto, diventando lo sfondo su cui stabilire un dialogo culturale vivo e fecondo. Un paio di scarpe dipinte, nel loro semplice mostrarsi all’interno di una cornice, si rende disponibile alle varie interpretazioni di chi osserva, aprendo dei mondi e generando confronti e riflessioni.

 

Umberto Anesi

 

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Come combattere il capitalismo digitale, con Heidegger

«Perché un tempo per una app ci chiedevano 50 euro all’anno – si interroga il teologo Paolo Benanti – e oggi è gratis?». La risposta è semplice: perché il mercato digitale, «basato sulla nostra produzione di dati, ci considera risorse da consumare»1. Possiamo trarre esempi del cosiddetto «capitalismo della sorveglianza» (S. Zuboff) dalla quotidiana navigazione online: visitando un normale sito di notizie cediamo gratuitamente i nostri dati – identificativi delle nostre abitudini come utenti – a quasi 600 società sparse per il mondo.

Possiamo difenderci? Sì, e la migliore strategia passa innanzitutto per la comprensione. Domandiamoci: qual è lo statuto della tecnica digitale? Dobbiamo, in termini heideggeriani, tornare a porre la domanda sull’«essenza della tecnica», soprattutto alla luce del passaggio fra età moderna e postmoderna. Alcuni assunti di base rimangono validi anche nel caso della tecnica digitale: si tratta di un «mezzo in vista di fini», del quale siamo schiavi «sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza» ma diventiamo ciechi «quando la consideriamo qualcosa di neutrale». Non importa quanto evoluta – e dunque indipendente – la tecnica sia: la responsabilità dell’uomo è ineludibile. Per usare le lapidarie parole di Norbert Wiener: «se la razza umana distruggerà se stessa per mezzo delle macchine, non si tratterà di un assassinio, […] ma di suicidio per stupidità» (L’uomo e la macchina, 1971).

Come già notato da Heidegger nel 1954, la tecnica moderna era «qualcosa di completamente nuovo e diverso dalla tecnica artigianale del passato»: non più un «operare puramente umano» ma qualcosa la cui essenza risiede nell’«elettrotecnica» e nell’«atomo» (La questione della tecnica, 1976). È evidente che dopo appena cinquant’anni il progresso ci ha condotto a una nuova età della tecnica, in cui i dibattiti sulla difficoltà di programmare una macchina che giochi a scacchi di cui parla Wiener ci appaiono preistorici. Caratteristico della «condizione postmoderna» secondo Jean-François Lyotard è un sapere che «nella sua forma di merce-informazione» risulta «indispensabile alla potenza produttiva» (La condizione postmoderna, 1981). Queste parole, scritte nel 1979, suonano profetiche: le nostre preferenze, i nostri comportamenti sul web – tradotti in file immagazzinabili – sono oggi la base su cui si regge tutta l’industria, tanto produttiva quanto pubblicitaria.

Non più quindi la tecnica passiva, materiale del XX secolo. Quella del terzo millennio è una tecnica che si basa su enti digitali, non semplicemente attivi ma inter-attivi e pro-attivi. Basti pensare all’intelligenza artificiale. Enti a tal punto capillarmente omnipervasivi da porre significativi problemi etici – la privacy ad esempio – ma anche conoscitivi. Modificare un contesto del genere può apparire arduo, per almeno due ordini di motivi: innanzitutto, col passare delle generazioni, i giovani vivono sempre più immersi nel mondo digitale, al punto che questo appare normale, esimendoci dal problematizzarlo. In secondo luogo, l’orientamento degli sviluppi tecnici verso macchine dotate di capacità di adattamento autonomo a stimoli esterni renderà sempre più complesso porre in atto una vera rivoluzione (etico-gnoseologica) del digitale.

Possiamo però fare molto quotidianamente: è vitale informarsi in modo tale da essere consapevoli che l’utilizzo degli strumenti digitali non è sempre privo di conseguenze negative. Comprendere in profondità, «invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche» (Heidegger, op.cit.), studiare il mondo digitale che ci circonda, per poi sollevare interrogativi sul suo evolversi; insomma, come indicato da Pierre-Maxime Schuhl, «non credere che la macchina possa mai dispensarci […] dall’inquietudine del pensiero»2.

 

Edoardo Anziano

 

NOTE:
1. E. Coen, Al futuro serve l’algoretica, colloquio con Paolo Benanti, in “L’Espresso” n.9, anno LXVI, 23 febbraio 2020.
2. P.-M. Schuhl, L’antichità classica e il «macchinismo», in A. Koyrè, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi 1967.

[Photo credits Pixabay]

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“The Great Gig in the Sky”: la morte come possibilità propria dell’esistenza

Un pianoforte incalzante accompagna intervalli armonici che tracciano uno spazio sospeso nel tempo, dando vita a una melodia surreale. Un’intro che non lascia presagire ciò che si scoprirà solo proseguendo nell’ascolto del brano. Se c’è un gruppo che ancora oggi riesce ad esprimere musicalmente tonalità emotive ed evocative mai banali, con un’intensità fuori dagli schemi, quelli sono i Pink Floyd.

E io non ho paura di morire, in qualsiasi momento succederà, non mi importa, così recitano le parole dell’intervista all’inizio di The Great Gig in The Sky. Non sono servite la filosofia, la scienza e la religione per placare il timore che l’uomo ha nei confronti di una condizione che non conosce, la cui particolarità è proprio quella di essere insondabile.
Richard Wright & Co. firmano un piccolo trattato di filosofia in musica, un tassello che va a comporre un album, The Dark Side of The Moon, che ha fatto letteralmente la storia della musica.

La morte quindi, o meglio, la paura della morte, è il tema di questo brano, in un perfetto equilibrio tra musica e parole. A renderlo ancora più esplicito, non solo il testo, ma la voce di Clare Torry che rende superflua ogni parola, con un assolo che è un’onda emotiva tagliente, capace di sostituirsi allo strumento musicale. The Great Gig in the Sky è la prosecuzione di Time, una riflessione profonda sullo scorrere del tempo.

Perché dovrei avere paura di morire? Non c’è motivo per averne, prima o poi si deve andare. Le parole lasciano spazio a una musica che ha la potenza di trascinarti in un’altra dimensione. Ma se anziché temere la morte, riuscissimo a scorgerla come l’orizzonte di senso della nostra esistenza? Se proprio un fatto così certo, ma di cui non possiamo fare esperienza empirica nel corso della vita, costituisse la possibilità più autentica del nostro essere?

È proprio sul tempo e sulla morte che si concentrano le riflessioni di Martin Heidegger in Essere e Tempo. L’uomo è l’Esserci, ovvero un essere che non si può appiattire sul concetto di “presenza”, dal momento che non è un semplice “oggetto” del mondo di cui disporre, ma è un “esser-gettato”, ovvero un ente che si delinea nella progettualità del possibile. L’uomo ha di fronte a sé innumerevoli scelte ed è questo movimento in avanti, rivolto verso il futuro, che costituisce il suo progettarsi.

La condizione umana deve fare i conti con la sua possibilità più propria: la morte. Qualcosa di insuperabile di fronte a cui l’angoscia si rivela come sentimento fondamentale dell’Esserci. Tuttavia, Heidegger sottolinea come l’angoscia non corrisponda alla paura di morire. Mentre la prima si esprime in un sentimento contingente che riguarda il singolo individuo, la seconda è la derivazione naturale di quell’ “apertura” dell’Esserci che è appunto l’essere-gettato dell’uomo. Non ho mai detto di avere paura di morire, sono queste le ultime parole del testo prima dello scatenarsi di una melodia ormai diventata indimenticabile.

Coinvolti nella quotidianità assordante che ci circonda, la nostra coscienza preferisce allontanare da sé il pensiero della morte. Ma forse è solo confrontandosi con essa, pensandola e mettendola in primo piano che l’uomo può raggiungere la consapevolezza della propria libertà. Il potere che il mondo ha sulla nostra soggettività, infatti,  si annulla, nel momento in cui confrontiamo le alternative della vita su cui basiamo i nostri progetti con la più estrema, incondizionata e certa delle possibilità, l’orizzonte di senso entro cui si iscrive la nostra esistenza.

Ecco che l’Esserci diventa essere-per-la-morte, l’uomo che prende consapevolezza di sé e di ciò che assume autenticità all’interno della propria vita.

Immaginate la faccia di Clare Torry agli Abbey Studios di Londra, quando David Gilmour le disse che non c’era un testo e che la band non aveva idea di cosa lei dovesse cantare. La cantante, però, si sentì riferire quello che bastava, ovvero che la morte era il fulcro del brano.
Mi piace pensare che in quel lungo assolo vocale, così carico di energia, si materializzi la consapevolezza di fronte alla morte, quella che non solo ci impone come esseri finiti, ma come gli unici capaci di godersi il grande spettacolo nel cielo.

 

Greta Esposito

 

[Photo credits: Annie Spratt via Unsplash]

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La storia segreta delle puledre trace

Tante sono le congetture che facciamo sull’origine di un’opera che ci appare grandiosa: cosa l’avrà ispirata, cosa avrà provato il suo autore, quanto tempo ci avrà impiegato nel concepirla, come avrà iniziato.

In buona parte, che si tratti di un’opera artistica, filosofica, letteraria, scientifica, la sua origine ultima ci rimane sconosciuta ma la ricerca al riguardo può portare a delle curiosità e a delle ipotesi su cui è sì bello fantasticare ma che allo stesso tempo ci possono dire qualcosa di importantissimo sul significato del fare, dello scrivere, del creare e che trascendono il solo piano della fantasia.

Iniziando con la lirica antica, in numerose poesie troviamo riferimenti simili a quelli che ad esempio ci tramanda il poeta Anacreonte nei suoi versi forse più celebri: «Tu puledra di Tracia che adocchi di traverso e mi sfuggi crudele e mi credi incapace, impara che saprei ficcarti bene in bocca il morso e con le briglie girarti sulla pista: ora va’ per i prati, gioca e balza in disparte, non hai il buon cavaliere che ti sappia montare»1. Pensiamo anche ai passionali versi che Archiloco dedicò alla sua lontana amante o a una qualsiasi delle fanciulle che malinconicamente Saffo dovette osservar crescere e andar via o alla schiava misteriosa che rise all’inciampo di Talete e che ha ispirato tanta letteratura.

In tutti questi casi l’oggetto amoroso o quanto meno poetico resta senza alcuna descrizione e senza nome, rimane a noi eternamente sconosciuto. Immaginiamo una di quelle figure femminili, bella e piena di energia tanto da essere assimilata da Anacreonte all’animale (frequentissimi nella letteratura greca i parallelismi tra donne e animali imponenti, che uniscono nello stesso significato potenza e bellezza), aggirarsi nei pressi della città sotto lo sguardo del poeta, che ne è ispirato e che attraverso l’evento e attraverso lei sigilla nel papiro parole semplici ma millenarie ed essenziali riguardo le cose amorose. L’energia sprigionata da quell’antico fugace incrocio di sguardi è destinato a riverberarsi nelle opere e nei tempi successivi, come specchio del vero testimoniato una volta per tutte.

Quando, secoli dopo, Nietzsche prenderà Archiloco come sommo esempio di uomo dionisiaco e la sua opera come espressione massima di quella «melodia primordiale»2 che è il fondo abissale che soggiace all’essere e a ogni sua manifestazione, intenderà indicare l’opera umana come riflesso di un’origine insondabile e oscura ma che si esprime nell’artista. La sua opera non è che il risultato di un movimento inconscio di natura anche diversissima rispetto al tipo di creazione che offrirà l’artista.

Anche in epoche ben più vicine a noi abbiamo esempi in cui creazione e tribolazioni personali si incrociano: fra i tanti, il rapporto tra Martin Heidegger e Hannah Arendt3.

Heidegger è noto per essere stato un pensatore appartato, attentissimo e concentrato. Le sue opere si rivolgono criticamente ai fondamenti della cultura occidentale in ogni suo aspetto. E nonostante si sia già ampiamente scritto sul come abbia percorso la strada del pensiero, contro chi e che cosa, non si può rimanere stupiti nello scoprire che quel minuzioso ed estenuante lavoro che culminerà nella stesura di Essere e tempo aveva trovato energia e ispirazione profonda nel rapporto con la Arendt, cioè in qualcosa di lontanissimo rispetto al contenuto e ai motivi dell’opera. Anche in questo caso la fonte creativa per un’opera conosciuta come quella del pensatore tedesco, si deve rintracciare dove non lo si avrebbe pensato. Immaginiamo Heidegger, che solo e concentrato nella baita di montagna, trova le forze nel pensiero della sua relazione, di quegli incontri segreti, di quel qualcosa di misterioso e incalcolabile che brillava negli occhi della sua Hannah, che sfociava in un flusso creativo di genere diversissimo ma ugualmente potente in intensità.

Certo, ogni opera assume poi un proprio senso e un proprio posto nel suo contesto. Ciò che non riguarda il suo contenuto viene gradualmente perduto. Ma in certi casi, la ricerca e il pensiero su quelle cose restituiscono il terreno proprio in cui esse sono nate e pur non fornendo informazioni utili a livello strettamente scientifico, comunque allargano l’orizzonte entro cui naturalmente si trovano. E in questo senso si guadagnano una qualche considerazione: è forse un caso il fatto che ad essere giunti fino a noi siano proprio quei frammenti amorosi anacreontei? E che proprio da lui sia partita una delle maggiori tradizioni poetiche? Non siamo più consapevoli della potenza di Essere e tempo alla luce del modo in cui il suo autore intendeva e viveva le relazioni?

Come per l’universo, composto in grandissima parte di materia ed energia oscura, l’energia oscura che circonda ciò che ci sta sotto gli occhi e da cui proviene è parte di ciò che è da indagare e conoscere. Si potrebbe mai tracciare una sorta di storia di ciò che segretamente ha reso possibile ciò che oggi conosciamo nelle sue presunte origini note?

Se comunque quest’idea non porterà mai dei frutti, traiamone almeno ispirazione immaginando quella enorme schiera di personaggi e situazioni che nell’ombra dei tempi danno il vero significato alle nostre piccole e grandi opere.

 

Luca Mauceri

NOTE:
1. Lirici greci dell’età arcaica, Bur, Milano, 1994, p. 247.
2. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p. 46.
3. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt: una biografia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Verso ‘I mari del sud’

“I mari del sud” è la poesia di apertura della raccolta “Lavorare stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1936 da Solaria. Essa condensa e intensifica l’intera produzione poetica della raccolta, la quale, come ben mostra Vittorio Coletti[1], è senza precedenti ed in assoluta controtendenza nel panorama letterario italiano. Con “I mari del sud” nasce la poesia-racconto: 102 versi liberi, attentamente scanditi dal serrato ritmo degli accenti, presentano una narrazione ricca di discorsi diretti, aneddoti, flashback. Ma procediamo con ordine.

Nell’appendice alla raccolta l’autore scrive a proposito dell’interpretazione delle sue opere, negando di aver voluto inserire concetti astratti nei suoi componimenti, senza tuttavia negare che essi si possano trovare.[2] In sostanza, il fatto che Pavese non voglia dire nulla più di ciò che è scritto, non significa che non dica di più; anzi, è proprio in questa volontà di non dire altro che dobbiamo addentrarci per cogliere il senso di un dire essenziale. Questo può essere fatto solo mettendosi in ascolto del linguaggio della poesia.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle»

Qui vogliamo muoverci “Verso il luogo” della poesia di Cesare Pavese. Verso il luogo vorrebbe tradurre il termine tedesco Erörterung [Discussione], ben caro ad Heidegger, il quale evidenzia la presenza di Ort [Luogo] all’interno del termine: «Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo. E poi significa: osservare il luogo»[3]. L’idea è che la poesia di Pavese debba essere avvicinata, che mettersi in ascolto del suo dire significhi innanzitutto: osservare un luogo. Proprio perché il linguaggio si fa casa dell’essere, è la poesia stessa a indicare, sin dal primo verso, il luogo (geografico) della vicinanza all’origine.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio.»

La poesia si apre con un verbo che sottintende un “noi”: a camminare sono l’autore ed il cugino. L’atmosfera è fin da subito familiare. L’espressione “una sera” conferisce carattere aneddotico al racconto, molto più di “la sera” o “di sera”, lascia presupporre che fosse una di tante, passate vicino al focolare della propria terra natia. Si intuisce che il colle e la vetta sono componenti del paesaggio delle Langhe, e questo ci viene confermato dal discorso diretto del cugino, nella seconda strofa. Più in generale, l’intera raccolta Lavorare Stanca e la quasi totalità delle opere di Pavese è riferita al luogo della sua origine: l’intero pensiero poetante dell’autore rimanda al proprio Heimat, alla propria terra natia.

«Mio cugino ha parlato stasera»

Nel corso della prima strofa, ricorrono quattro volte termini riferiti al silenzio. La seconda strofa si apre invece all’insegna della parola. Il parlare del cugino è registrato come evento straordinario. Parlerà direttamente altre due volte durante la poesia. Sappiamo però che ciò che leggiamo non coincide con le parole da egli effettivamente pronunciate:

«Tutto questo mi dice e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito.»

La questione del dialetto merita un’attenzione particolare. Martin Heidegger ha dedicato un breve saggio al rapporto tra linguaggio e terra natia:

«Linguaggio, detto dal suo vigere ed essenziare, è di volta in volta linguaggio di una terra natia, linguaggio che si risveglia nativamente e parla della dimora della casa dei genitori. Linguaggio è linguaggio come lingua materna.[4]
[…] Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto. […] Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre, il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua.[5]»

Il linguaggio inteso come terra natia[6] si fa tesi centrale del pensiero di Heidegger, e al tempo stesso intuizione fondamentale della poesia di Pavese. Al ritorno dalla città, l’autore ritrova le Langhe e il dialetto, come un tutt’uno che viene al linguaggio nel suo poetare.

«Tu che abiti a Torino…»

E’ rimarcata più volte la dicotomia città-paese: all’ombra del tardo crepuscolo sul colle si contrappone la luce del faro di Torino, dove si profitta e si gode per poi tornare alle Langhe che non si perdono. E’ un tema, questo, che accompagna tutta la produzione di Pavese: nonostante egli abbia trascorso tutta la sua vita in città, continua a ricordare le colline infantili di Santo Stefano Belbo, e a renderle luogo prediletto di tutta la sua produzione letteraria. Si fa interessante una possibile lettura parallela a quella che Heidegger dà della poesia di Rilke[7]. Si può infatti senza esercitare particolari forzature leggere il senso della distanza tra paese e città come distanza tra modernità e antenati, e quindi tra tecnica e originalità. La città è il luogo dove l’uomo è posto di fronte al mondo: può e deve dominare le cose. E’ il luogo della maturità, degli studi e soprattutto del lavoro: «si profitta e si gode». In quest’ottica risulta chiara dal titolo della raccolta (Lavorare Stanca) la posizione di Pavese a riguardo: ciò che si aspetta, per tutta una vita, è il ritorno (a dimostrazione di ciò va intesa la posizione conclusiva occupata da La luna e i falò nella cronologia delle opere, che si chiudono pochi mesi prima della morte dell’autore con il ritorno all’infanzia nella Valle del Belbo). Lo scontro tra le due realtà avviene nell’aneddoto riguardo al ritorno in paese del cugino, e al suo tentativo di portarvi i motori. La vita nel paese è antecedente all’opposizione soggetto dominante oggetto dominato conseguente all’attuarsi della tecnica:

«Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza.»

Infine, il parlare della poesia nomina i ricordi del passato del cugino:

«Solo un ricordo gli è rimasto nel sangue»

«Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama»[8]. In questo caso la chiamata è duplice: viene chiamata a noi la chiamata del sogno, si avvicina a noi l’avvicinarsi al poeta dei mari del sud. E’ importante che la poesia si concluda sul tema dell’immaginazione, con la chiamata del ricordo dal luogo della lontananza al luogo dell’origine nel linguaggio. Lo spazio aperto dal linguaggio tra il suo essere vicino e il chiamare da lontano, è l’abisso in cui si fa di casa l’uomo, nel dialetto, nel silenzio, nel ritorno alla terra natia. Questo, appena accennato, è il luogo della poesia di Cesare Pavese.

 Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

[1] Cfr. Vittorio Coletti, La diversità di Lavorare Stanca in Lavorare Stanca, Torino, Einaudi, 2001
[2] ibidem
[3] Martin Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 45
[4] Martin Heidegger, Linguaggio e terra natia, ed. it. in “Aut-Aut” 235 (1990), p.3
[5] ivi, p.4
[6] Cfr. ivi, p. 24
[7] Cfr. Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968
[8] Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 34