Ascoltare Sé e ascoltare l’Altro

Quando si parla di relazioni nelle discipline sociali e umanistiche, oppure quando si affronta l’argomento con profondità nella vita quotidiana, si loda spesso l’ascolto dell’Altro, riferendosi sia al semplice tendere l’orecchio a chi sta conversando con noi sia al più complesso Ascolto Attivo, ossia un approccio – ben descritto dalla sociologa Marianella Sclavi in Arte di ascoltare e mondi possibili (2003) – che prevede, tra i diversi spunti, l’attenzione alle emozioni altrui con il fine di relazionarsi positivamente con gli interlocutori.
Considerare solo questa dinamica dell’ascolto, però, significa credere che le relazioni sociali siano una banale forma di apertura all’Altro, mentre esse ci coinvolgono quali coprotagonisti e ci chiedono di ascoltare anche le nostre, di emozioni. Se questa richiesta non trova risposta, lediamo sia noi stessi perché non sappiamo se stiamo traendo beneficio dalle relazioni, sia l’Altro perché non lo ascoltiamo attivamente.
Nelle prossime righe vedremo il tema dell’ascolto di Sé nell’ottica delle interazioni sociali. Non affronteremo le modalità con cui si può ascoltare sé stessi, altrimenti saremmo prolissi. Azzarderemo, invece, un legame con un argomento più attuale, cioè i contatti tra culture.

Il sociologo Salvatore La Mendola tratta il tema di cui sopra in Centrato e aperto (2009), libro che propone un approccio dialogico alle interviste sociologiche, ma che offre soprattutto un punto di vista stimolante sulle interazioni tra esseri umani, accennando ad azioni che possono essere praticate in situazioni in cui si voglia ascoltare sé stessi. Queste azioni riguardano la consapevolezza del proprio corpo – stare con i piedi piantati per terra, concentrarsi sul respiro, seguire il battito del cuore ecc. –, perciò suggeriscono che, come l’ascolto dell’Altro, anche l’ascolto di Sé non sia un banale esercizio dell’udito, ma un processo che coinvolge ogni parte di noi.
In Centrato e aperto l’intervistatore che fa un’intervista dialogica è rappresentato con La passeggiata del pittore Marc Chagall. Più precisamente il suo ruolo di guida è identificato con la figura in piedi e l’attenzione all’intervistato è identificata con la figura in aria. Il dipinto, però, può essere interpretato anche nell’ottica dell’ascolto, immaginando che la prima figura simboleggi la parte di noi che ascolta le nostre emozioni e la seconda figura simboleggi la parte di noi che ascolta l’Altro.

Questo duplice processo di ascolto rende la consapevolezza di Sé una condizione difficilmente raggiungibile in un’interazione. Ancor più difficile, però, è dare continuità a tale condizione: ciò che ci ha permesso di trovare stabilità in quell’interazione, infatti, può essere inutile in un’altra, poiché ci relazioniamo con persone diverse oppure la stessa persona può, parafrasando il titolo di un libro del sociologo Erving Goffman, presentare self differenti, cioè modalità diverse di mostrarsi nelle interazioni.
Nell’impossibilità di stabilire un solo modus operandi, come costruire l’Io, ossia uno dei due fondamenti delle relazioni sociali secondo il filosofo Martin Buber? (L’altro, ça va sans dire, è il Tu). All’inizio abbiamo detto che una risposta in questa sede sarebbe eccessivamente complessa. Un accenno, però, l’abbiamo fatto: si tratta della consapevolezza del corpo suggerita da La Mendola. Molti percorsi di crescita personale, infatti, prevedono la scoperta della propria interiorità attraverso la respirazione consapevole e la concentrazione su ciò che si percepisce con i cinque sensi.
Sicuramente possiamo affermare che un Io che vada bene in ogni interazione non è realizzabile. Al contrario dobbiamo costruirne uno che, come l’acqua, si adatti a diversi contenitori relazionali, alcune volte accetti di stagnare e altre volte abbia l’energia per rompere gli argini.

Il rapporto tra l’ascolto dell’Altro e l’ascolto di Sé può essere intravisto anche nei contatti tra culture – un tema delicato in Italia, soprattutto negli ultimi mesi. Tale questione, infatti, divide quelli che vorrebbero ascoltare e accogliere l’Altro – che in questo caso può essere generalmente identificato con i migranti – da quelli che ascoltano esclusivamente sé stessi e gli italiani che ragionano come loro.
In questo scontro è bene ricordare l’incipit di Terra degli uominidi Antoine de Saint-Exupéry: «Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso». Oggi molti partiti politici rappresentano quell’ostacolo con chi appartiene a culture diverse dalla nostra, ma le parole dell’autore francese evocano l’idea che abbiamo bisogno di un ostacolo se vogliamo fare l’unica cosa che dà senso alla vita: il filosofico conoscere sé stessi.

A questo punto possiamo suggerire una domanda: quali modalità specifiche possiamo attuare per conoscere noi stessi nell’esperienza tumultuosa della vita e nello scenario variegato del mondo? La questione resta aperta.

 

Stafano Cazzaro

 

BIBLIOGRAFIA
1. Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Milano, Ugo Mursia Editore, 2014.

[Credit davide ragusa]

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Connessioni virtuali o incontro umano?

Il tempo iperteconologico sembra voler sostituire sempre più le relazioni umane con delle connessioni virtuali, che sono espressioni marcate del dominio dell’intelligenza artificiale sull’intelligenza umana. In un contesto che esalta e incentiva questo genere di connessioni digitali, si va via via smarrendo la vera relazione umana.

Ad uno sguardo attento, profondo e non superficiale appare chiaro che, se da un lato la tecnologia digitale permette uno scambio d’informazioni inimmaginabile sino a qualche anno fa e imprescindibile per molti aspetti relativi alla qualità della nostra esistenza, è altresì vero che pur sempre di trasmissione di informazioni si tratta e non invece di relazioni. La relazione è un rapporto umano, un incontro fatto di presenza, di carne e fiato, di sguardi, profumi, calore e passione. Al centro vi è l’incontro, che dilata gli orizzonti di senso della nostra esistenza stimolando il cambiamento, aprendoci alla creatività, all’esplosione di idee per la costruzione di futuro. Diversamente, lo scambio d’informazioni computazionali che avviene ormai ordinariamente tramite chat, videochiamate, siti d’incontri, social network e social media è pressoché privo delle peculiarità che caratterizzano la dimensione generativa del vero incontro umano, fatto di tempi, di attese, delusioni, fatiche, gioie, sogni, speranze.

L’incontro reale, inteso come fondamento esistenziale, ci è stato trasmesso da grandi uomini, maestri di vita e di pensiero, quali Socrate e Gesù di Nazareth, solo per citarne alcuni. Costoro facevano dell’incontro umano la via preferenziale per fare comunità, per ricercare la giustizia, il bene, il bello e la verità. Costoro amavano passeggiare intrattenendosi con gli altri esseri umani facendo silenzio, ascoltando, parlando, confrontandosi insieme, accettando punti di vista differenti dai propri, accogliendo pensieri, gioie e fatiche, al fine di costruire significati esistenziali profondi.

Non dimentichiamo la gioia dell’incontro reale, l’apertura all’altro come possibilità di crescita e conoscenza di se stessi, proprio attraverso l’altro. Queste sono dimensioni imprescindibili per poter superare la reificazione della relazione con l’altro operata dalle connessioni virtuali e sperare in un nuovo umanesimo dell’incontro reale. In proposito ricordiamo le profonde e sfavillanti parole scritte dal filosofo Martin Buber rispetto all’incontro umano: «Se sto di fronte a un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose […] ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce»1.

La tecnologia è sicuramente un mezzo formidabile e straordinario, ma deve restare tale, non diventare un fine sostituendosi all’insostituibile e cioè alle relazioni umane fatte di corpi, sentimenti, gesti e pensieri che s’incontrano e s’intersecano nella relazione viva e vitale fra i singoli. Le conseguenze di questo modus vivendi che si sta diffondendo massivamente sono lampanti ad uno sguardo etico, psicologico e antropologico: chiusura in se stessi, che può giungere a vere proprie sindromi che conducono all’isolamento nella stanza della propria abitazione, sino alla paura dell’altro e del mondo. È questa la sindrome, non più solo giapponese, ma ormai universale che prende il nome di hikikomori. Su questa via la vita si isterilisce, si coagula in un deserto emozionale e cognitivo spaventoso. Per arrestare questa desertificazione ontologica dell’uomo-monade, è decisivo che ciascuno rifletta, responsabilmente, sulle scelte che quotidianamente opera rispetto all’uso delle connessioni tecnologiche che rischiano di frapporsi nel cammino personale e relazionale con gli altri significativi che ci circondano, fino ad intaccare il nostro rapporto con la vita e tutta la realtà esterna.

In questo senso, difficilmente possono essere d’aiuto alcuni dei moderni professionisti della relazione d’aiuto che promettono e consentono sedute di counseling e psicoterapia tramite videochiamate e dispositivi virtuali, poiché altrettanto piegati sotto la logica imperante delle connessioni digitali. Proponendo e permettendo colloqui on-line, alcuni di questi professionisti, che dovrebbero far leva sui fondamenti della relazione umana come opportunità per il cambiamento e la cura, cadono in una contraddizione in termini. Invero, così facendo, svuotano di senso e valore quello che dovrebbe essere lo spazio e il tempo per eccellenza di ascolto, comprensione empatica e crescita personale che caratterizzano un incontro umano che voglia definirsi nutriente e generativo nel senso autentico del termine.

In questo panorama talvolta sconfortante e massificato, è utile ripartire dall’educazione degli adulti all’uso ponderato, equilibrato e critico dei nuovi mezzi di comunicazione e connessione, affinché possano diventare esempi edificanti per le generazioni future di un ritorno a relazioni umane i cui componenti siano davvero menti e corpi, spiriti e presenze, non solamente click del mouse o tocchi sullo schermo di un tablet o di uno smartphone.

Quanto scritto non intende condannare tout court le nuove tecnologie e le importantissime opportunità ch’esse offrono, intende piuttosto invitare a riflettere criticamente circa le possibili conseguenze di un uso smodato e squilibrato di queste recenti frontiere che spesso tendono a sostituirsi a quanto di più bello e meraviglioso la vita abbia da offrirci: l’incontro autentico con l’altro da noi che si nutre e abbisogna, anche e soprattutto, della presenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. di A. M. Pastore, Edizioni San Paolo, Milano 20143, p. 64.

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Ad personam

L’omicidio è, con ogni probabilità, il primo atto mai considerato criminoso e il primo a essere condannato dai codici legislativi. Curiosamente, questo non si è mai riflesso in maniera coerente nella storia delle singole popolazioni, tantomeno dell’umanità in genere. Il codice di Hammurabi – redatto tra il 1800 a. C. e il 1750 a. C. – è uno dei codici legislativi più antichi mai rinvenuti e penalizza l’omicidio in maniera anche piuttosto brutale, con una legge del taglione diventata proverbiale. Nonostante questo, la mesopotamica Babilonia è passata alla storia per essere una città-stato ampiamente progredita, ma altrettanto sanguinaria. Anche il biblico Decalogo, riportato per scritto tra il VI e il V secolo a. C. ma redatto molto prima, pone un lapidario «Non ucciderai» tra i comandamenti; di nuovo, il popolo di Israele si è affermato nella propria regione storica attraverso una serie di genocidi ai danni delle popolazioni ivi insediatesi precedentemente.

Si tratta di una costante storica quasi inevitabile ma corrisponde a un principio semplicissimo: le peggiori atrocità della storia, dalle guerre d’invasione alla tratta degli schiavi fino ai campi di sterminio, sono state commesse da individui dalla coscienza perfettamente pulita. Il principio che vieta l’omicidio “limita” la proibizione alle persone, concetto questo il più delle volte giuridico prima che morale e passibile di revisioni radicali. Uno schiavista del XVII secolo non scarica in mare donne e uomini morti di stenti durante la traversata oceanica, ma “si libera di merce avariata”; un Lagerkommandant non ordina ogni giorno la tortura e il massacro di centinaia di esseri umani, ma “purga la società dai suoi elementi dannosi”. Se le forme estreme del ragionamento sono tragicamente autoevidenti, il meccanismo del limitare in maniera più o meno palese l’accesso alla categoria “persona” è sempre in corso all’interno di un gruppo chiuso, anche e soprattutto quello statale, e una divisione tra un “noi” – individui parte della comunità per cui valgono una serie di norme (ivi incluso il «Non uccidere») – e un “loro” – esseri umani privati di qualsiasi qualifica personale in ragione di massificazione culturale, etnica, religiosa o di altro tipo – è un rischio onnipresente e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Ne Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, pubblicato nel 1913, all’alba della Prima Guerra Mondiale, Max Scheler si sofferma lungamente sul problema, peraltro con una carrellata storica di individui cui, in una cultura o in un’altra, è stato giuridicamente negato il titolo di “persona”: donne, bambini, stranieri, schiavi, malati (lebbrosi, malati mentali ecc). La conclusione, nel testo, non può essere che una: l’essere persona è una (la) caratteristica metafisica e inoggettivabile dell’essere umano, non dipende dal suo status sociale, dalle sue convinzioni politiche o religiose, non dipende neanche dalla sua condizione di imputabilità giuridica né dalla sua appartenenza o meno a un popolo, una razza, un genere specifici, dal suo stato di salute o dal suo stadio di sviluppo, dalla sua condizione morale o dalla sua fedina penale.

L’essere persona è connaturato all’essere umano, a tutti gli esseri umani in quanto tali, sempre e per sempre, indipendentemente dalla presenza di una legge che li definisca tali. Di più, la persona in quanto tale non può esistere se non in dimensione comunitario-relazionale, in un rapporto di empatia profonda che la porta ad aprirsi all’altro. Se etimologicamente il termine “persona” rimanda alla maschera teatrale, quindi apparentemente a una finzione nel presentarsi all’altro, racchiude però in sé la funzione specifica della maschera classica: l’amplificare la voce dell’attore, che riecheggia e raggiunge il pubblico. La persona si realizza nella misura in cui ha un altro che le si relazioni, in quel rapporto chiamato da Martin Buber Io-Tu (contrapposto alla relazione strumentale Io-Esso), che vede le due voci davvero per-sonar, risuonarsi attraverso. In caso contrario, si hanno solo in-dividuus, esseri atomistici che si muovono in un mondo nel quale sono identificati solo attraverso la distinzione, l’isolamento, da chiunque altro.

In tempi di incertezza e divisione crescenti, si fa sempre più forte il rischio di perdere la capacità, e prima ancora la volontà, di riconoscere il sacrale diritto di ciascuno ad essere definito persona, nascondendolo dietro migliaia di altre classificazioni tutte artificiali, tutte accidentali. Si ricordi però che perdendo il Tu, la “cassa di risonanza” del nostro sonus, inevitabilmente si perderà anche l’Io, in un trionfo di individualismo in cui, di persone, non resterà neanche l’ombra.

 

Giacomo Mininni

 

[Credit Unsplash.com]

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Uomo a che punto sei? La risposta di Martin Buber

«Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta».
Martin Buber

 

Un piccolo libricino accompagna da diversi anni la mia quotidiana ricerca filosofica e psicologica intorno all’uomo. Si tratta de Il cammino dell’uomo. Un’opera molto breve ma al contempo di rara profondità, frutto di una conferenza che il filosofo austriaco Martin Buber tenne a Bentveld nel 1947 e pubblicata con questo titolo, che esprime benissimo un esito importantissimo della ricerca che il filosofo condusse sull’uomo e la sua educazione nel corso dei propri studi.

Il libro muove dalla domanda che nel Genesi (3,9) Dio rivolge all’uomo: “Dove sei?”. Questo interrogativo, alle radici della sapienza giudaico-cristiana e della nostra cultura in generale, si riallaccia perfettamente al domandare filosofico. Socrate infatti, alle origini della filosofia, incalzava l’uomo, proprio l’uomo, affinché vivesse con consapevolezza la propria esistenza, ricercando incessantemente il bene, la giustizia, la verità. Nel testo biblico, dopo aver mangiato insieme ad Eva il frutto che Dio aveva proibito, Adamo si era nascosto, prima che agli occhi di Dio, ai suoi stessi occhi. È lì che la domanda “Uomo, dove sei?”, si fa urgente e vitale, richiama l’uomo alla responsabilità verso se stesso e verso la verità. Un uomo che si nasconde perde il rispetto per se stesso e ferma il proprio cammino, la propria crescita, scivolando inevitabilmente verso la falsità. Proprio da questa domanda il filosofo austriaco, naturalizzato israeliano, ritiene che l’uomo debba ripartire per la sua crescita, per il cambiamento, verso l’autenticità, verso la parte migliore di se stesso.

La vita va dunque intesa come un cammino, che inizia quando l’uomo si lascia colpire intimamente dalla domanda “dove sei?”, cioè “a che punto sei nella tua vita?”, “come stai con te stesso?”, “cosa stai facendo della tua esistenza?”. La vita dell’uomo rimane immobile, priva di un cammino, finché egli non affronta queste domande, non sceglie di mettersi in discussione e ripartire. Il cammino inizia proprio da se stessi, da un’indagine profonda della propria interiorità, pertanto «Il ritorno decisivo a se stessi – scrive Buber – è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino» (M. Buber, Il cammino dell’uomo, 1990).
Non c’è un’unica via, ve ne sono molteplici, tante quanti sono i singoli uomini. Ognuno è tenuto ad intraprendere il cammino irripetibile, alla ricerca del suo sé autentico, nel quale sono presenti bellezza e verità. Ciascun uomo è diverso, unico per essenza. Così, altrettanto irripetibile dev’essere ciò che porta a compimento nel lavoro, nell’amore, nell’atteggiamento verso l’esistenza. Afferma Buber:

«È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano» (ibidem).

Solo facendosi interpellare dalla domanda posta alle origini della nostra cultura è possibile conoscere il proprio compito e rendere generativa quella differenza, prospera quell’alterità, che vince il conformismo contemporaneo (tutti fanno ciò che fanno gli altri e vogliono ciò che vogliono gli altri) che appiattisce le esistenze all’omologazione di massa e che inibisce la ricchezza unica e differente di ciascun singolo. Invece:

«ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere» (ibidem).

Il fondamentale ritorno a se stessi non conduce ad una chiusura solipsistica, ma è la condizione necessaria affinché ci si possa aprire all’incontro con gli altri uomini e la realtà esterna, con maggiore consapevolezza, profondità e fecondità. Per questo Buber precisa:

«cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta» (ibidem).

Il tesoro è già nella nostra esistenza quotidiana, è da sempre presente, lo possiamo scoprire solo qualora riprendiamo il cammino verso una vita ricca di significato. E la vita la possiamo inondare di senso solo se portiamo a termine l’opera che ci spetta, il compito che abbiamo scoperto appartenerci, rispondendo alla domanda “uomo, dove sei rispetto a te stesso e alla responsabilità verso il tuo desiderio?”.
Nell’inconsapevolezza e nella superficialità dilagante dell’esistere contemporaneo, quest’opera, che occupa uno spazio fisico così limitato, è una sorgente inesauribile di luce per mente e cuore ed ha un inestimabile valore educativo. Essa è la dimostrazione di come la parola filosofica sia parola pedagogica che s’innesta in maniera decisiva nell’esistenza di ciascuno, apportando un cambiamento positivo in chiunque si accosti ad essa. La riflessione di Buber, infatti, esorta l’uomo a prendersi per mano, a fermarsi per ripartire, comprendendo dov’è, per scoprire il proprio desiderio, il solo che può animare la vita sino all’ultimo respiro, perché è la via del cammino che ci corrisponde, è la scoperta del posto che noi, e nessun altro, possiamo occupare nel mondo. È la sola, possibile risposta alla domanda “Uomo, dove sei?”.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo credit Giulia Bertelli via Unsplash]

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La cultura e il lavoro si incontrano: le società benefit

<p>http://www.croqqer.it/siamo-una-societa-benefit-certificata-b-corp/</p>

Nell’articolo precedente ho parlato della cultura come vita quotidiana e ho accennato al lavoro come uno dei molti ambiti che compongono quest’ultima. Possiamo perfino affermare che il lavoro è tra gli ambiti più vicini a noi, sia quando lo produciamo – ad esempio costruendo un edificio in un cantiere – sia quando ne usufruiamo – ad esempio chiedendo un aiuto a un medico. Se è vero che ognuno di noi costruisce cultura nella vita quotidiana, allora è interessante riflettere sui modi in cui costruiamo cultura nel lavoro. In questo articolo ho parlato del modello ‘Io-Tu’ del filosofo Martin Buber come riferimento per la costruzione di cultura positiva. Ebbene, esistono realtà lavorative che, relazionandosi efficacemente con l’ambiente e la società, seguono quel riferimento.

Queste realtà sono definite società benefit: esse superano l’obiettivo del profitto praticando comportamenti etici verso le persone, la natura, i territori in cui operano ecc. La benefit corporation è una forma giuridica ammessa in alcuni stati americani dal 2010 e in Italia dal 2016; se una società benefit non si accontenta della forma e vuole misurare la propria etica, può cercare di ottenere la certificazione B Corporation.

Per conoscere più approfonditamente le società benefit ho dialogato con i fratelli Marta e Maurizio Zordan, rispettivamente la direttrice finanziaria e l’amministratore delegato di Gruppo Zordan. Questa benefit corporation progetta interior design di qualità e, dal 2016, pratica comportamenti etici in ambiti come la serenità del personale, la sua crescita professionale e la riduzione dell’impatto ambientale.

Più precisamente, per quel che riguarda la serenità del personale, il Gruppo Zordan ha creato un’iniziativa che permette ai dipendenti di equilibrare il tempo passato al lavoro con il tempo trascorso in famiglia.

Dal punto di vista della crescita professionale, invece, l’azienda ha formato tutti (sottolineo tutti) i collaboratori, anche in merito a competenze sociali come l’accoglienza dei clienti.

Sotto il profilo dell’impatto ambientale, infine, il Gruppo Zordan ha reimpiegato trentaquattro tonnellate di trucioli trasformandoli in pannelli, ha riciclato il 74% dei rifiuti e ha digitalizzato tutto il lavoro su commessa.

È interessante prestare attenzione a una delle ragioni per cui l’azienda pratica questi comportamenti: Marta e Maurizio, infatti, li interpretano come risposte a chi si è comportato o si comporterà in modo scorretto verso il Gruppo Zordan. “Chi ci attacca”, affermano i due fratelli, “non si scaglia contro l’azienda, ma contro la posizione etica che essa ha assunto”.

Questa considerazione implica alcuni aspetti critici, ma ci avvicina ai legami tra cultura e lavoro che abbiamo delineato all’inizio di questo articolo. Se crediamo che la cultura si esplichi fin dalla relazione tra l’Io e il Tu del modello di Buber, allora riteniamo plausibile che essa sia influenzata dalla quotidianità del lavoro. Più concretamente, quanto più etica è la relazione tra l’Io e il Tu nelle aziende tanto migliore sarà la cultura.

Il Tu rappresenta gli ambiti che abbiamo esplorato in questo articolo; riferendoci alla serenità e alla crescita professionale dei collaboratori, la prefazione de La Giusta Dimensione − libro di Andrea Bettini sulla storia di Gruppo Zordan − propone uno spunto di riflessione interessante: «Il comportamento di ciascun componente dell’organizzazione dipende, in buona parte, dalle sue aspettative circa le intenzioni e il comportamento degli altri». Questa reciprocità viene esaltata verso la fine del libro: «Quando ognuno sa che ogni gesto, ogni azione che compie, ha una ricaduta sull’intera attività dell’azienda, ha anche la consapevolezza del valore che può apportare attraverso il proprio lavoro. La paura di sbagliare viene soppiantata dall’entusiasmo nel creare qualcosa di nuovo».

Questi spunti ci permettono di fare un invito agli amministratori di società benefit e a chi si occupa di questa forma giuridica: perseguire fini etici nei confronti delle persone è ammirevole, ma ciò non deve esentare dalla cura delle azioni più spontanee e dei pensieri più semplici. In essi, infatti, risiede l’etica più benefica.

 

Stefano Cazzaro

Sono il fondatore della start up culturale Còlere. Credo che la cultura sia un’opportunità per le persone che vogliono migliorare la realtà, qualsiasi realtà. Amo tanto la scrittura quanto l’imprenditoria, perciò studio il content marketing e lo storytelling.

 

[Immagine tratta da Google immagini]

 

 

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