Tra le molteplici declinazioni della parola ” viaggio “

Estate 2022: la prima estate in cui si potrà tornare a viaggiare senza lockdown, mascherine e green pass, “come nell’epoca pre-covid”, ossia in libertà. Ebbene sì, perché viaggiare implica e tende alla libertà: si viaggia a condizione di essere liberi e parallelamente si viaggia alla ricerca della libertà. 

Scrive Walt Whitman in Song of the open road: «Afoot and light-hearted I take to the open road,/ Healthy, free, the world before me,/ The long brown path before me leading wherever I choose»1. Una canzone, questa della seconda edizione di Leaves of grass (1856), che è un inno alla libertà e alla leggerezza calviniana; un invito a intraprendere un percorso di quête – quasi da eroe fiabesco o da protagonista di un Bildungsroman2 e un’esortazione, scandita dal refrain «allons!», a scegliere e ad affermare se stessi. «Allons! from all formules!»: il viaggio, sia inteso in senso metaforico, come esplorazione interiore e conseguente vagabondaggio spensierato e positivo nella strada aperta della vita, sia inteso in senso letterale, richiede “libertà da” e “libertà per”, libertà da ogni regola, da ogni formula, da ogni convenzione, da ogni pregiudizio e libertà per rischiare, per uscire dalla propria comfort zone, per sospendere la propria routine, per salpare da uno «sheltered port» e andare dove si vuole, padroni assoluti di sé, andare «where winds blow, waves dash, and the Yankee clipper speeds by under full sail» (W. Whitman, Song of the open road). 

Nelle fondamenta della cultura occidentale vi è Odisseo, non solo emblema dell’uomo multiforme capace di astuzia pratica ma anche del viaggiatore per eccellenza bramoso di ritornare a Itaca, simbolo di quel “porto riparato” con acque calme, del focolare domestico, della patria e degli affetti, ma al tempo stesso stimolo di sfida e di ricerca continua. Non a caso, in un altro libro miliare per l’Occidente, la Divina Commedia, Dante, colloca Odisseo con l’amico Diomede nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti soprattutto per aver convinto i suoi compagni a intraprendere quel «folle volo», cioè varcare le colonne d’Ercole, che gli sarà fatale. Tuttavia il Poeta non può non ammirare la grandezza titanica dell’eroe omerico, che, ignaro della Grazia del dio cristiano, ha osato fare oltraggio agli dei, cercando di superare i limiti imposti agli uomini e macchiandosi così del peccato pagano di hybris (tracotanza). Lo ha fatto, però, perché mosso dal desiderio di conoscere, che è proprio dell’essere umano: «considerate la vostra semenza/ fatti non foste a vivere come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Inf.. XXVI, vv.118-120). 

Odisseo, nuovo Prometeo, diventa simbolo di sfida agli dei, di slancio verso l’ignoto e della profonda dignità della condizione umana, che, ad esempio, la logica dello sterminio nazista, riducendo gli uomini solo ad un numero di matricola, cerca in tutti i modi di annullare, come racconta tra le pagine di Se questo è un uomo Primo Levi, per il quale, in una visione laica del mondo, ricordare il canto di Ulisse tra gli abissi di Auschwitz, che mira a ridurre gli uomini allo stato animale, è un modo per ritrovare la propria dignità, sommersa tra gli orrori del lager. 

Un viaggio orizzontale, geografico, quello di Ulisse cui Dante contrappone un altro viaggio, il proprio, un viaggio verticale, ultraterreno, come l’itinerario della Commedia, teso verso il vertice ultimo, Dio. 

Di molti tipi di viaggio – cronachistici, fantastici e metaforici – è percorsa tutta la Letteratura successiva, dal Milione, resoconto del viaggio in Oriente di Marco Polo dettato a Rustichello da Pisa e riletto da Italo Calvino in Le città invisibili (1972), ai poemi epico-cavallereschi quali l’Orlando furioso, dal Grand Tour, moda settecentesca dell’aristocrazia e della classe media colta, soprattutto inglese e francese, intesa come pellegrinaggio laico verso i luoghi della Storia della civiltà occidentale, al desiderio di evasione e di esotico di fine Ottocento fino al disorientamento dell’uomo novecentesco, smarrito tra i frantumi del proprio io e i tentacoli di alienanti metropoli. 

Abbiamo bisogno di viaggiare perché abbiamo un desiderio intrinseco di conoscere e di conoscerci. Come scriveva John Steinbeck in Travels with Charley (1962), «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone»; viaggiamo per perderci e ritrovarci, come invita Charles Baudelaire in chiusura di Les fleurs du mal (1857): «au fond de l’inconnu per trouver du nouveau»3; e viaggiamo, forse, come Guido Gozzano in La signorina Felicita, «per fuggire altro vïaggio», consapevoli però, come già ammoniva Orazio nelle sue Epistole, che «caelum non animum mutant qui trans mare currunt»4. Consapevoli, infine, che viaggiare significa anche cambiare, come ci ricorda un virale tormentone basato su alcuni versi di Fernando Pessoa: «Partire!/ Non tornerò mai,/ non tornerò mai perché mai si torna./ Il luogo ove si torna è sempre un altro la stazione a cui si torna è diversa./ Non c’è più la stessa gente né la stessa luce, né la stessa filosofia».

 

Rossella Farnese

NOTE
1. Letteralmente: «A piedi e con cuore leggero mi metto in viaggio per la strada aperta, / In salute, libero, il ondo dinnanzi a me, / Il lungo sentiero marrone di fronte a me che conduce ovunque io voglia» (ndr).

2. Il Romanzo di formazione, un genere letterario che narra la crescita, l’evoluzione, di un personaggio verso la maturazione (ndr).
3. Letteralmente: «nelle profondità dell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo» (ndr).
4. Letteralmente: «mutano non il loro animo, ma il cielo coloro che vanno per mare» (ndr).

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Verità o fake news? Aspettando il Festivalfilosofia 2018

Clamorosa è quella di Calandrino, protagonista indimenticabile di alcune tra le più belle novelle del Decameron di Boccaccio: «Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire» (nona giornata, novella terza)1. Meno nota, ma comunque da non credere, è quella di Marco Polo, che ne Il Milione riporta l’avvistamento – al largo dell’isola orientale di Angaman – dei mitici Cinocefali, creature ancestrali dal corpo d’uomo e dalla testa di cane2. Involontaria, ma certo più distruttiva nelle esternalità prodotte, è invece quella di Orson Welles, che nel 1938 seminò scompiglio con l’adattamento radiofonico de La Guerra dei Mondi: l’annuncio fittizio dell’avvenuto atterraggio di alcune astronavi marziane sulla tranquilla cittadina di Grovers Mill, New Jersey, venne preso per vero dalla popolazione locale, che si abbandonò per alcuni giorni al panico generale. Quelle sul Papa, notizia di qualche mese fa, sono addirittura diventate un libro: Fake Pope. Le false notizie su papa Francesco (San Paolo Edizioni, 2018).

A leggere d’un fiato le righe qui sopra pare che la storia, da Calandrino a Papa Bergoglio, non sia altro un pullulare di bufale, fantasticherie, ridicolaggini, storielle perniciose fatte passare per pillole di verità. Con il linguaggio anglocentrico che caratterizza il nostro villaggio globale, le chiamiamo oggi fake news, termine ombrello e un po’ naïf sotto cui s’ingombra un’accozzaglia di bubbole, inganni, teorie del complotto, errori editoriali e bugie d’ogni sorta. 

Mai come negli ultimi anni se n’è tanto parlato, in un crescendo di iniziative e tavoli di discussione aventi per tema l’informazione bugiarda e il suo rapporto con la verità. Se ne parlerà anche nel corso di Festivalfilosofia 2018, in programma dal 14 al 16 settembre con un calendario ricchissimo di eventi nei comuni di Modena, Carpi e Sassuolo. Tema dell’edizione 2018: la falsa informazione, appunto, e il suo rapporto con la Verità, parola-chiave di quest’edizione e concetto oggi più che mai friabile, in crisi, lacerato dallo soffio sferzante delle falsità mediatiche.

L’incedere lento e taciturno del pensiero filosofico ci ha da tempo insegnato come ogni racconto della realtà porti necessariamente con sé un residuo tossico di menzogna, visione parziale sullo stato di cose, emulsione capziosa di materia reale e materia apparente. L’affresco forse più bello di questa condizione fenomenica dell’essere, sempre in bilico tra verità e finzione, lo troviamo in quel capolavoro cinematografico del 1950 che è Rashōmon, di Akira Kurosawa: la stessa storia raccontata da quattro persone diverse equivale a quattro storie diverse. Dove sta, allora, la verità? Dove la menzogna?

Un problema filosofico fondamentale dunque, la Verità, sul quale intere biblioteche sono state scritte e altre ce ne saranno da scrivere, soprattutto alla luce delle nuove potenzialità offerte dal digitale e della sua capacità di far passare per digesta la menzogna. Siamo nel 2013 quando il Global Risk Report del World Economic Forum (WEF) inserì proprio la diffusione della disinformazione digitale tra le principali minacce per gli ordinamenti politici, al pari di cyberterrorismo e fallimento della governance globale. Tre anni più tardi la conferma dell’Oxford Dictionary, che come parola dell’anno 2016 scelse post-truth, la “post-verità” di una realtà digitale ormai liquefatta, in cui «[…] i fatti oggettivi, chiaramente accertati, sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni e convinzioni personali»3. 

La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (Raffaello Cortina, 2017), del filosofo dell’Università di Oxford Luciano Floridi, è forse un primo, parziale tassello per cogliere la portata sovversiva della potenza digitale, che attraverso un inarrestabile processo di disintermediazione sta rapidamente smontando le fondamenta filosofiche su cui si basa il concetto di verità. In futuro sarà sempre più facile e sempre meno costoso produrre, distribuire e conservare informazione – vera, falsa, poco importa – e questa condizione di possibilità deformerà irreversibilmente l’editoria tradizionale, basata sulla verifica delle voci e sull’attendibilità delle fonti. Lo vediamo oggi dallo scontro letale che si sta consumando sul terreno scosceso delle fake news tra un giornalismo ormai conscio della crisi industriale che va sfiancandolo e le grandi piattaforme digitali, cresciute in maniera deflagrante nella più totale deregulation politica, e oggi minacciate dalle prime misure legislative volte a smontare l’enorme barriera del monopolio digitale.

In attesa di vedere se queste nostre speculazioni filosofiche si avvereranno o rimarranno finzione, non ci resta che sederci sulla riva del grande flusso digitale, limitandoci – almeno per il momento – ad aspettare Festivalfilosofia 2018, nella speranza che un pizzico di verità affiori spontaneamente dall’esercizio del pensiero.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. G. Boccaccio, Decameron, Roma, Laterza, 1927, p. 198.ù
2. Cfr. M. Polo, Il milione, Milano, TEA, 2008.
3. Oxford Dictionary.

[Credit Flipboard]

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“Due modi ci sono per soffrirne…” Calvino in dialogo con Marco Polo

Ci sono storie, poche, che ascolteresti mille volte, senza mai chiederti se sono vere. E’ che proprio non ti interessa, non è importante.

Una di queste racconta di Kublai Kan, imperatore dei Tartari, che dopo aver conquistato un impero sterminato, si accorge della sua corruzione e capisce di avere solamente ereditato la rovina dei sovrani avversari. Incontra però Marco Polo, venuto da Occidente, che lo incanta con i suoi resoconti di viaggio: descrive le città che ha incontrato, città di memoria, di desiderio, di segni del linguaggio, città con cupole d’argento, altre costruite su palafitte, altre ancora del tutto identiche ad Amsterdam o a New York. Di tutto questo ci racconta Italo Calvino, appunto, nelle città invisibili, e ci racconta di come il Kan segua le storie dell’esploratore sfogliando un atlante, dove sono contenute le mappe di tutto il suo impero, e di tutti gli altri imperi del mondo, e di come interroghi Marco Polo sulle città che vede, e su quelle che immagina, e su quelle che sogna. Arriva infine, l’imperatore, a sfogliare sul suo atlante le carte delle città “che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. E dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.”

La risposta che gli dà Polo penso che sia una delle cose più esatte che abbia mai letto. Credo anzi che sarebbe buona cosa farla stampare in serie su una bella carta da lettere con tanto di ceralacca sulla busta, e attaccarla insieme alla targhetta distintiva alla caviglia dei bambini nei reparti di neonatologia, che ognuno abbia la sua, con tanto di foglietto illustrativo: “Da leggere con cura ogni sera, prima di dormire, e ogni mattina, prima di lavarsi i denti. Le domeniche, anche dopo pranzo.”

Religioso silenzio…

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Ecco che troviamo, unita e ben formulata, la risposta a mille quesiti che oggi, nell’arrivato e al tempo stesso progressista XXI secolo, si sentono formulati un po’ ovunque: che senso ha conoscere i Canti di Leopardi? O ascoltare Chopin? O studiare il latino, leggere Omero, andare a teatro a vedere l’Othello?

Ci si capiscono anche le piccole cose di tutti i giorni, in quella chiave lì. Alcune frasi profonde di alcuni film profondi, ad esempio. La Grande Bellezza gira tutto intorno a questa idea di inferno, per dire

«Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore»;

o ancora:

«A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”».

[Breve digressione. Questo ricorda molto il momento in cui Holden Caulfield, lo scapestrato studente del romanzo di Salinger, torna a casa una notte, dopo essere stato espulso per l’ennesima volta dall’ennesimo college, e trova la vecchia Phoebe. La vecchia Phoebe è sua sorella, ha in realtà 10 anni, ma Salinger nella sua genialità le conferisce una saggezza degna di una guida spirituale. E qui si apre uno dei dialoghi più belli (e più celebri, non sono sicuramente il primo a dirlo) della letteratura americana contemporanea. Phoebe è amareggiata dall’atteggiamento di Holden, il quale cerca vanamente di giustificarsi, e gli risponde ripetutamente con la medesima sentenza: “Papà ti ammazza.” Questo una, due, tre volte, non lo guarda nemmeno in faccia, finché all’improvviso si volta verso il fratello e chiede: «Holden, ma a te piace qualcosa, nella vita?». Quello rimane spiazzato, butta lì un paio di risposte poco credibili, subito smontate dalla sorella, poi ci pensa un attimo e dice: «hai presente quella canzone che fa “Se scendi dai campi di segale, e ti prende al volo qualcuno…» Phoebe lo interrompe: è una poesia, di Robert Burns, e dice “e ti viene incontro qualcuno”… Ne sa, eh, la vecchia Phoebe? Comunque Holden riprende, e dice una cosa geniale:

«Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale (in inglese, “The Catcher in the Rye”, titolo originale del romanzo, ndr) e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia»

E’, sostanzialmente, la stessa risposta del film. Sorrentino ho trovato, in mezzo all’inferno, qualcosa che inferno non è, e l’ha fatto durare, e gli ha dato spazio. E un Oscar, tra l’altro.]

E’ stato sempre Calvino a rispondermi, quando a lungo mi sono chiesto se avesse senso, oggi, studiare filosofia. Mi è bastato tirare fuori Le città invisibili. D’altronde, «d’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».

A me, per dire, ha risposto Venezia.

Alessandro Storchi