L’opera d’arte tra dono e commercializzazione

Mi ha sempre affascinato indagare la natura del rapporto che lega l’artista alla sua opera d’arte. In che modo un dipinto, una poesia o in generale un’opera “creata” come espressione dell’immaginazione e della fantasia dell’artista può “entrare” all’interno del  mercato? Che tipo di trasformazione avviene se si decide di introdurre la passione che ogni attività artistica genera  all’interno di una società dominata dal valore di mercato?

Secondo lo scrittore Lewis Hyde l’opera d’arte condivide con il dono il carattere erotico.

La letteratura sul dono è vastissima: antropologi, filosofi e sociologi si sono interessati per lungo tempo alle dinamiche che si generano all’interno di società e comunità dove accanto  all’economia di mercato vige una forma di proprietà che non risponde a interessi “quantificabili”, quella del dono per l’appunto.

Per primo l’antropologo e studioso francese Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le don, utilizzando studi  condotti presso popoli delle isole del Pacifico, aveva sottolineato come il “dono” costituisse il collante necessario all’interno di queste culture, ciò che consentiva l’instaurarsi di relazioni, determinando in questo modo l’identità di ogni singola comunità.

Il dono all’interno di queste popolazioni acquisisce un carattere fondamentale, dal momento che è ciò su cui si regge la solidarietà e la reciprocità all’interno del gruppo. Mentre l’economia di mercato occidentale risulta completamente slegata da questioni etico-morali, in molte società “primitive” vi è quasi un’identificazione, per cui l’economia è strettamente connessa a legami di tipo affettivo e da relazioni personali.

Sembra delinearsi una dicotomia irrisolvibile: da una parte l’ homo oeconomicus, ossessionato dal guadagno, disposto a rispondere solo ai dettami di una ragione strumentale messa al servizio del proprio egoismo; dall’altra, “gli altri”, popoli lontani che attraverso il “dono” riescono a rispecchiare la propria individualità solo all’interno di una collettività, creando una reciprocità e un insieme di relazioni che anziché depotenziare ciascuna singolarità, la rendono ancora più preziosa.

Secondo Hyde, l’opera d’arte si distingue essenzialmente da una merce. Un dipinto, una poesia o qualsiasi prodotto d’arte partecipa contemporaneamente di “due economie”, l’economia di mercato e l’economia del dono. Tuttavia, ciò che l’autore sostiene è che mentre un’opera d’arte può essere tale senza “entrare” in un’economia di mercato, essa non può esistere se non partecipa all’economia del dono.

Che cos’è che distingue una merce, legata alla “commercializzazione”, dalla trasmissione di un dono? Il dono è qualcosa che ci viene “elargito” e che non possiamo ottenere attraverso lo sforzo o attraverso il denaro, ovvero «attraverso un atto di volontà»1. Un bene diventa una merce nel momento in cui possiede un valore di scambio e un valore di mercato, ovvero non ha un valore di per sé, ma ne assume uno solo nel momento in cui viene separato da chi lo “valuta” e confrontato con un’ altra merce, poiché solo in questo modo può essergli applicato un “prezzo”.

Il dono,  invece, introduce un altro tipo di valore legato alla capacità di creare e riprodurre relazioni sociali. In questo caso, non è tanto il bene in sé a risultare importante, quanto i legami che si creano con esso.

Proprio per questo Hyde parla di carattere “erotico” del dono, in contrapposizione alla razionalità che si esprime attraverso la circolazione delle merci all’interno dell’economia di mercato.

Ogni donazione è un gesto di apertura e di fiducia sociale nei confronti dell’altro. Come evidenzia già Mauss, ogni dono, infatti, necessita di un “controdono”, solo così è possibile non interrompere il cerchio di relazioni che questa forma di proprietà alimenta. Tuttavia, a differenza di uno scambio commerciale, la trasmissione del dono avviene senza alcuna forma coercitiva o contrattuale.

Avendo soltanto un valore d’uso (in contrapposizione alla merce che ha un valore di mercato), il dono per essere tale deve venir costantemente “consumato” attraverso il movimento, continuando a nutrire colui al quale viene donato. Nel momento in cui un dono si ferma e non viene ridonato a sua volta, viene tesaurizzato, perdendo la forma che lo caratterizza.

Quando un artista dà forma a un’opera d’arte, una parte di questa creazione è essa stessa un dono. Gli elementi che gravitano intorno all’attività artistica come il talento, l’intuizione e l’ispirazione possono essere  definiti “doni”, dal momento che è possibile svilupparli e coltivarli attraverso la volontà, ma compaiono inizialmente nell’animo dell’artista senza alcuno sforzo, attraverso un elemento di gratuità.

La natura di “dono” che l’opera d’arte esprime non si manifesta solo nell’animo di chi la crea. Quando la tela si allontana dal pittore e diventa oggetto di fruizione all’interno di un museo o di una galleria, essa, come espressione dei “doni” dell’artista, rivolgendosi al nostro animo può risvegliare anche i nostri stessi “doni”: «La creazione artistica che ci tocca, che commuove il cuore, vivifica l’anima, delizia i sensi o ci dà il coraggio di continuare a vivere, in qualunque modo vogliamo descrivere l’esperienza, viene ricevuta come si riceve un dono»2.

L’artista contemporaneo, quindi, si trova in tensione costante tra la sfera del dono, a cui la sua arte appartiene e la commercializzazione all’interno del mercato, necessaria per la sua sussistenza. Ciò che Hyde cerca di sottolineare è che c’è sempre il rischio che l’arte come dono possa venire distrutta dal mercato, ma l’artista può e deve cercare in tutti i modi di riconciliare le due economie.

Il mercato è espressione del logos, parte dello spirito umano tanto quanto eros, per cui non si può eliminare, al massimo si può soltanto limitarne l’influsso. In che modo? Cercando entro certi limiti di vendere sul mercato ciò che abbiamo ricevuto come dono (l’opera d’arte) e utilizzare ciò che abbiamo guadagnato dalla vendita per incrementare la sfera del dono (cioè investirlo nella nostra arte).

Un artista che mira al successo attraverso il commercio delle sue opere, ma senza perdere i suoi doni, ovvero senza venire meno all’autenticità della sua arte, non deve partire dal mercato (ovvero la sua creazione non deve semplicemente rispondere alle esigenze del mercato e della commercializzazione), ma può partire solo dalla sfera del dono in cui si compie l’opera, per poi tentare di trasferirsi all’interno dell’altra economia. Solo in questo modo l’arte può rimanere legata alla dimensione erotica del “dono”, l’unica sfera che per Hyde rende l’arte propriamente tale.

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. L. Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, p. 13.
2. Ivi, p. 14.

[Immagine tratta da www.artenatura.altervista.org]

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Sulla maternità surrogata e il concetto di dono

Sulla questione della maternità surrogata ho già dato un mio contributo con l’articolo del mese di settembre: “La maternità surrogata e il turismo procreativo dell’occidente”, ma le affermazioni che si sono susseguite nelle ultime settimane, relativamente alla possibilità di considerare la maternità surrogata un dono, hanno alimentato il mio desiderio di riproporre l’argomento.

Sono due le dichiarazioni che prenderò in considerazione; la posizione espressa all’AdnKronos Salute dall’oncologo Umberto Veronesi in data 19 febbraio 2016: «l’utero in affitto è un gesto nobile, è una donazione», alla quale è seguita dieci giorni dopo quella della senatrice Emma Bonino a Bergamonews: «Posso fare una domanda: se posso donare un rene in questo Paese perché non posso donare un utero? Io non lo farei, ma non capisco perché non si deve fare».

Se rifletto sull’utilizzo della parola donazione nelle due dichiarazioni ritrovo un forte legame con l’intenzione di esercitare un gesto solidale e il proporsi di portare avanti una gravidanza per altri è una generosità che forse, ripeto forse, posso comprendere quando riguarda persone che sono legate da una profonda amicizia o che intrattengono tra loro legami di sangue (sorelle). In questi casi ci si offre di aiutare una persona cara a realizzare un desiderio di genitorialità che altrimenti non potrebbe concretizzarsi.

Ritengo alquanto difficile poter fare la stessa valutazione qualora si tratti della decisione di una donna di mettere il proprio corpo a disposizione di sconosciuti senza richiedere nulla in cambio.

Di sicuro si tratta di una tipologia di generosità e solidarietà che difficilmente concorderebbe con studi antropologici, psicologici e sociologici che, a partire da Marcel Mauss[1] si sono dedicati allo studio delle dinamiche della fenomenologia del dono.

Questi studi sostengono che il dono sarebbe uno dei modi più comuni ed universali per creare legami sociali e relazioni umane.

Il meccanismo del dono si articolerebbe in tre tappe fondamentali basate sul principio della reciprocità: dare, ricevere (l’oggetto deve essere accettato) e ricambiare; di conseguenza, il dono davvero gratuito non esisterebbe. In questa prospettiva, il dono comporta sempre l’aspettativa e l’obbligo morale di una restituzione. Il valore del dono ricevuto sta proprio nell’assenza di garanzie per il donatore, un’assenza che richiede una buona dose di fiducia negli altri.

Alla luce di tali considerazioni, può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di terzi, estranei, spesso destinati a rimanere tali?

La donazione del rene, chiamata in causa dalla senatrice Bonino, con tutte le distinzioni del caso, può aiutare ad orientarci.

In Italia, dal 2010, il Consiglio Superiore di Sanità ha autorizzato la cosiddetta “donazione samaritana”, ovvero la possibilità di donare un rene ad una persona sconosciuta che verrà ovviamente sottoposta a tutti gli accertamenti fisici e psicologici del caso. Il parere del Consiglio Superiore di Sanità prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano nell’anonimato sia prima che dopo l’intervento.

Difficile da immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi espiantare un organo vitale e che agisce solo per un dovere morale senza nulla in cambio (un autentico soggetto morale kantiano).

Da ritenersi fondamentale la valutazione psicologica e psichiatrica del donatore per evitare che dietro tale aspirazione si nascondano la necessità si espiazione, spesso diffusa tra i soggetti subalterni (uno dei primi a proporsi per un espianto di rene fu un detenuto), o la pulsione narcisistica a compiere un atto eroico in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Mi chiedo se anche i casi di maternità surrogata per solidarietà verso estranei non si prestino ad un simile lettura.

Ritengo che il problema stia a monte e riguardi la moralità del gesto che si va a compiere. A differenti livelli e con differenti implicazioni, sia donare un rene, sia portare a termine una gestazione per terzi sono esperienze non prive di conseguenze sul piano fisico e psicologico. La grande differenza tra le due pratiche risiede nel fatto che la donazione di un rene salva vite umane, la maternità surrogata soddisfa un desiderio, non si tratta di un’esigenza vitale e avere un figlio non può essere risolto nel desiderio e nel capriccio dell’io individuale costi quel che costi.

Silvia Pennisi

NOTE

[1] MARCEL MAUSS, Saggio sul dono. Forma e natura dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002.