Buono da mangiare (?)

Il cibo e la sua condivisione riferiscono significati simbolici, morali e relazionali che trascendono il semplice valore nutrizionale e la necessità per l’organismo di alimentarsi e mangiare. Parlare di alimentazione è, in qualche modo, parlare dell’essere umano sotto una serie di aspetti che spaziano dall’interiorità individuale, alla storia personale e sociale, alla religiosità, all’identità etico-sociale. Se è vero che negli anni abbiamo superato il binomio “mangiare e non essere mangiati”, fonte di primitive preoccupazioni legate alla sopravvivenza, attualmente, il cibo è comunque tornato ad essere una questione complessa sotto altri aspetti. 

L’alimentazione oggi riflette valutazioni morali, adesione a determinati stili di vita, appartenenze, rapporti con il proprio corpo, consapevolezza di responsabilità relative al consumo di un determinato cibo. La società odierna è travolta da nuovi orizzonti antropologici e assiologici che conducono il cibo, emblema di civiltà, ad assumere una valenza etica che connette il buono al giusto, al sano, allo stare a tavola. Oggi, il termine “buono da mangiare” ha un duplice significato: non concerne solo ciò che è commestibile, appaga il gusto, è conforme a determinati criteri gastronomici e dietetici ma anche, e soprattutto, ciò che corrisponde alla nostra idea di “vita buona”, ciò che si attiene a determinate prerogative etiche di osservanza e di chiarezza della filiera produttiva.

Ogni scelta alimentare rivela chi siamo, rende noti i nostri orientamenti personali ma, parallelamente, sul piano dell’etica pubblica, converge nel consolidamento di determinate politiche di produzione cui, coscientemente o meno, come consumatori, diamo la nostra approvazione. Emblematici in tal senso sono i cibi soggetti a manipolazione transgenica nei quali il patrimonio genetico è modificato, allo scopo di ricavare benefici nelle fasi di coltivazione e di produzione. Tali modificazioni sono riconducibili a un contesto alimentare artificioso, alieno ai valori etico-ambientali e in accordo con l’idea di rielaborazione tecnologica della natura.

Figlia della questione alimentare contemporanea è anche la dissociazione del binomio piacere e salute indotta dalla progressiva evoluzione scientifica dell’idea di dieta e il suo conseguente specializzarsi in dietetica. Tale fenomeno ha dato origine a una sostanziale modifica dello statuto dell’alimento, sempre più confinato all’ambito chimico-biologico e ridotto alla nozione di caloria, dove il concetto di dieta, e quindi l’idea di salute, sono degenerate nel salutismo estremo: una delle cause principali della medicalizzazione della vita quotidiana.

Questa dittatura del corpo e dell’apparire ha portato ineluttabilmente alla destrutturazione dei tempi e della convivialità del pasto, indebolendo la funzione rituale e socializzatrice dello stare a tavola. L’essere umano, deprivato del piacere di mangiare intrinseco all’originario concetto di dieta associato a un’arte del vivere bene, rischia di sprofondare più o meno volontariamente in quell’angoscia esistenziale propria del linguaggio psicopatologico dell’anoressia, della bulimia e dell’obesità. La drammatica correlazione dell’essere e dell’apparire necessita di puntare ad un superamento o perlomeno al recupero di un equilibrio esistenziale fondato sull’ideale etico al quale la società contemporanea dovrebbe ispirarsi: la priorità della persona e della sua realtà più autenticamente umana.

La questione alimentare e di cosa mangiare è dunque diventata troppo importante per essere affidata ai soli nutrizionisti. Per questo chiamiamo in causa la bioetica che, grazie alla sua natura interdisciplinare e alla sua capacità di confrontare e integrare diverse prospettive, può costituire la prospettiva più adeguata per affrontare la questione alimentare sotto i profili medico-sanitario, psico-sociale, giuridico-normativo, economico ed etico. 

Chiamiamo in causa una bioetica alimentare che non deve essere ambito di riflessione solo per gli esperti, per gli “addetti ai lavori” di una determinata scuola di pensiero o disciplina accademica; è necessario lavorare nel quadro di una sempre maggiore democrazia deliberativa. La bioetica deve essere spazio di ricerche reso comprensibile e intelligibile a tutti i cittadini poiché tutti, come individui e come collettività, siamo chiamati a scegliere e a prendere posizione.

 

Silvia Pennisi

 

[Photo credit unsplash.com]

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Filosofia del mangiare: consumare consapevolmente

Abbiamo veramente bisogno di fare filosofia anche sul cibo e sul mangiare?
Proviamo a iniziare da questa affermazione:

«La nostra cultura è arrivata a un punto in cui ogni antica forma di saggezza riguardo al modo di nutrirsi sembra svanita, rimpiazzata da incertezze e ansie di vario genere. La più naturale delle attività umane, scegliere cosa mangiare, è diventata in qualche modo un’impresa che richiede un notevole aiuto da parte degli esperti» (M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, 2008).

Pare che nutrirsi sia diventata una questione di cultura personale, vediamo se vale la pena fare anche della filosofia.
Gran parte di quanto finisce nel piatto subisce un percorso di cui sappiamo poco. Grazie a questa ignoranza, la lunga catena di produzione alimentare gode di una certa opacità, limitata soltanto dalle leggi in vigore. E l’etica? I consumatori desiderano conoscere l’impatto di ciò che mangiano sulla propria salute, sull’ambiente e sulle stesse materie prime? Mediamente, le etichette che i consumatori più desiderano conoscere sono quelle del prezzo. La diffusione dei negozi bio è certamente segnale di una aumentata attenzione verso qualità ed eticità dei prodotti, ma rimane il fatto che qualunque mercato a grande distribuzione richiede dei compromessi. L’alternativa alla grande distribuzione è la piccola distribuzione, dal produttore direttamente al consumatore, laddove l’occhio di chi acquista ha più accesso alla storia produttiva della merce. Tuttavia, anche il piccolo produttore potrebbe non essere così attento a un approccio ecosostenibile. 

La differenza, allora, può farla solo un consumatore saggio, che voglia sapere il vero prezzo da pagare di ciò che mangia: quello sull’intero ecosistema. Sostanzialmente, mangiare bene è questione di riguardo della complessità. È affinare non soltanto il palato, ma anche la mente, verso i requisiti necessari a gustare buon cibo con la coscienza pulita.
Ci sono molte cose da conoscere, è vero, ma niente di difficile comprensione. A parte la (grande) questione del vegetarianismo, veganismo o dieta onnivora, dobbiamo realizzare che ogni cibo ha un costo per il pianeta e a mangiare siamo sempre di più.

Partiamo dall’agricoltura, ad esempio. Per produrre grandi quantità di cereali si ricorre alle monoculture, ignorando che in natura la ricetta vincente è la diversità (quindi complessità), unica fonte di ricchezza. I terreni sfruttati dalle monoculture possono iper-produrre solo con l’aiuto dell’industria: quella petrolchimica fornisce fertilizzanti e pesticidi necessari a sostenere piante che sono state deprivate delle loro relazioni ambientali di mutuo sostegno (incredibile, anche le erbacce servono!). L’industria meccanica, invece, prepara strumenti sempre più efficienti per accelerare le operazioni nei grandi campi (altro petrolio): bastano pochi umani e tanto spazio, per cui via la vegetazione inutile e relativi abitanti animali. A ben vedere, a queste condizioni, agricoltura non fa più rima con natura.

La questione degli allevamenti solleva ulteriori problemi. Gli animali negli allevamenti intensivi devono ingrassare velocemente perché la produzione sia competitiva. Scopriamo che gli erbivori si “possono convertire” ai cereali e infatti nel mangime c’è molto mais; non importa se i loro apparati digerenti faticano e si ammalano, per questo c’è l’industria farmaceutica. Se non occorre brucare l’erba, si risparmia anche sui pascoli, quindi lo spazio si restringe e diventa affollato. La seccatura sono le malattie infettive, ma ancora una volta la farmacologia aiuta. Con tutte queste variazioni gli escrementi non sono più valido concime ma scorie inquinanti.

Il mais, tra l’altro, è il primo cereale coltivato al mondo. Oltre alla sua magnifica adattabilità, che significa alta resa, è anche estremamente versatile nell’industria alimentare perché non solo si mangia come mais in scatola, pop corn o nei cereali soffiati, ma si trasforma anche in: acido citrico e lattico, glucosio, fruttosio, maltodestrine, etanolo, sorbitolo, mannitolo, gomma xantana, amidi modificati e non, destrine, ciclodestrine e glutammato monosodico. Praticamente, se leggiamo gli ingredienti di molti prodotti confezionati realizziamo che mangiamo parecchio mais! Considerate le colpe delle grandi monoculture, è utile saperlo. Tra l’altro, gli additivi servono a migliorare e conservare un cibo che deve durare a lungo, se assembliamo noi elementi freschi non ne occorrono.

Che sia agricoltura o allevamento, se il metodo è intensivo significa che il prodotto è stato creato riducendo la complessità della natura, modificando nella materia prima delle necessità fisiologiche allo scopo di aumentare la sua resa quantitativa a scapito di quella qualitativa (meno visibile). L’aumento produttivo consente la diminuzione del prezzo.
La domanda filosofica è: il consumatore, in primis quello che si accontenta di spendere poco, è interessato a conoscere ciò che sta dietro il cibo che compra? La risposta ha a che fare con la conoscenza e con la complessità, dunque, sì, mangiare è una questione filosofica.

Dobbiamo diventare consumatori più filosofici: facciamoci domande e, magari, lasciamo sugli scaffali del supermercato qualche prodotto che non ci convince più. Quest’ultimo fatto potrebbe essere cruciale.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit Dan Gold via Unsplash]

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Hybris alimentare: mangiare carne secondo Plutarco

Se qualcuno ancora pensa che la questione del non mangiare carne animale sia una moda nata non più di qualche decennio fa, occorre che sia prontamente smentito. Sono molti gli intellettuali della storia che hanno deciso di privarsi della carne o che si sono dichiarati pubblicamente contrari, tra cui Tolstoj, Leonardo, Darwin, Gandhi, fino a Plutarco e ancora prima a Pitagora.

Al tema Plutarco, autore e filosofo greco del I secolo d.C, ha dedicato tre scritti contenuti nei Moralia, gli scritti morali. I componimenti, secondo la lettura che ne dà il critico Dario Del Corno, intendono «promuovere una rivalutazione dell’universo animale, che sia ispirata da criteri di giustizia, comprensione e solidarietà, tali da contrastare nell’abitudine degli uomini gli impulsi allo sfruttamento e alla crudeltà» (Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, Adelphi 2001, p. 34). I tre scritti non possiedono un piano omogeneo e affrontano la questione con una propria prospettiva, uno stile e un espediente narrativo diversi.

Il primo, Sul mangiare carne, è una polemica contro l’uso alimentare della carne, avvalorata anche dalla teoria pitagorica della metempsicosi1 (ma senza elevarla ad argomentazione principale). Nel secondo, Gli animali usano la ragione, la cosa interessante è che a perorare la causa sia un maiale, uno dei compagni di Ulisse trasformato in animale da Circe, Grillo, che della sua nuova condizione non si dispiace poi tanto. L’ultimo s’intitola Tra gli animali sono più intelligenti i terrestri o gli acquatici? ed è un dialogo sul modello platonico tra più personaggi. L’idea di Plutarco qui è che gli animali siano dotati di ragione, benché “imperfetta” rispetto a quella dell’essere umano, e che tra i tanti animali esiste semplicemente una differenza di grado.

Ciò che colpisce, soprattutto i più scettici, è che se non si sapesse nulla di Plutarco e ci si tuffasse nella lettura, si potrebbe anche pensare che sia vissuto poco tempo fa. Il motivo è la straordinaria attualità delle sue principali argomentazioni.

La prima riguarda l’uso smodato della carne da parte dei suoi contemporanei, una vera e propria «hybris alimentare» come la definisce ancora Dario Del Corno, scrivendo che Plutarco manifesta il suo sgomento nel trovarsi «al centro di un’attualità devastata dal delirio del consumo […] un’epoca che ha scelto di abbandonare la via maestra della natura e della misura, lasciandosi travolgere dall’ansia dell’eccesso» (ivi, p. 17). In sostanza, ci dice il pensatore greco, siamo ben lontani da quegli esseri umani che si nutrivano di animali per necessità e che la fame portava a fare qualcosa di contrario alla loro natura. «Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad avere sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza?» (ivi, p. 57). E ancora: «ancora più terribile è vedere […] che gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente!» (ivi, p. 60). Plutarco punta il dito contro i suoi contemporanei e li taccia di tracotanza (hybris): non uccidete per necessità ma per diletto, «per mangiare in modo più raffinato», un atto insolente, ingiusto, eccessivo, ingiustificabile. Sono parole scritte quasi duemila anni fa ma si sposano perfettamente nel mondo contemporaneo occidentale in cui finisce nel cestino quasi il 40% di quello che si produce a livello alimentare2.

Ma perché dovrebbe essere “ingiusto” cibarsi di carne? E qui arriviamo alla seconda argomentazione di Plutarco, secondo il quale gli animali sono dotati di ragione, sebbene non come quella dell’essere umano che è perfezionata «dalla cura e dall’educazione». Chi più chi meno, così come tra noi umani, gli animali hanno ragione, provano sensazioni, hanno coraggio, amore, viltà, socialità, paura, astuzia, stoltezza. Lo asserisce facendo numerosissimi esempi in tutti e tre gli scritti, echi di neonata zoologia. Ma Plutarco va anche oltre: gli animali sono più virtuosi degli uomini, ed ecco perché il greco Grillo preferisce la sua forma di maiale. Sono più virtuosi dell’uomo perché «la vita di noi animali è governata in genere dai desideri e dai piaceri necessari, mentre con quelli non necessari ma soltanto naturali abbiamo un rapporto che non conosce sregolatezza né eccesso» (ivi, p. 92). La soddisfazione dei piaceri dunque non ha a che fare con la violenza. «Se poi credete che non si debba chiamarla ragione né intelligenza,» conclude il filosofo «è il momento di cercare un nome più bello e più onorevole per definirla» (ivi, p. 98).

«Non è semplice estrarre [dall’essere umano] l’amo del mangiare carne, impigliato e conficcato com’è nella brama del piacere» scrive Plutarco; ma nel 2021, quando il consumo di carne è così strettamente legato anche alla crisi climatica e sociale che ne consegue, vale la pena renderlo un costante argomento di conversazione.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.La reincarnazione, la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro.
2.Si riporta una delle innumerevoli fonti. L’industria della carne si pregia di essere la virtuosa in termini di sprechi: solo il 5% di ciò che viene buttato dal consumatore. Sarebbe utile consultare qualche dato sullo spreco durante la filiera, anche se l’utilizzo degli scarti di macellazione come ossa, teste, organi ecc. vengono effettivamente reimpiegati in altre industrie.

[Photo credit unsplash.com]

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Mangiare o non mangiare? L’etica del pluralismo dei corpi

Obesità e magrezza estrema sono le due facce della medaglia del mangiare. Oltre a essere condizioni patologiche da affrontare con adeguato supporto clinico e psicologico, rappresentano nodi etici non indifferenti per una filosofia pratica che punta a fornire strumenti di riflessione accessibili a tutti.

La grassezza è, da un lato, icona sociale dell’abbondanza, dall’altro emblema di fallimento e debolezza morale. Il primo caso non è difficile da spiegare: il nutrimento è sempre stato il pensiero primario dell’uomo, la fame lo spettro inquietante da tenere a distanza; primum vivere deinde philosophari: senza aver soddisfatto i bisogni primari, occuparsi d’altro è impossibile. Per questo motivo il grasso e il sovrappeso hanno sempre rappresentato l’abbondanza e la prosperità, una vita scevra di preoccupazioni materiali. Numerose sono anche le rappresentazioni artistiche e letterarie della prosperità o, quanto meno, del desiderio dell’uomo di attrarre a sé – spesso come favore divino – abbondanza materiale: si ricordi la celeberrima statuetta della Venere di Willendorf, risalente circa al 20.000 a.C., oppure la descrizione biblica della città di Babilonia.

Ma è proprio in contesto religioso che nascono, sotto una luce negativa, gli alter ego dell’abbondanza: il peccato e la colpa. La città ricca è promessa d’opulenza e sicurezza, ma è anche luogo dove si fanno spazio i vizi, primo tra tutti quello della gola, che si pone all’origine di ogni lussuria e quindi di ogni abbruttimento nella ricchezza e nel possesso materiale. Anche qui l’arte ci viene in soccorso: numerose sono le rappresentazioni dell’uomo grasso, circondato da lauti banchetti e otri, di cui spesso sembra prenderne le sembianze, a evidenziare quanto il macrocosmo del corpo sociale si rispecchi nelle forme individuali, quasi a sancire effettivamente che siamo ciò che mangiamo.

La risposta a questa tendenza “ingrassante” del mangiare diventa quindi il digiuno, il non mangiare. Sebbene anche questa pratica abbia derivazione ascetica (il digiuno religioso è sempre stato una rinuncia-per, il privarsi di qualcosa in vista del raggiungimento di un bene superiore), nel corso dei secoli è arrivato a mutarsi in rinuncia fine a se stessa. Esempio contemporaneo di privazione estrema di cibo, apparentemente senza motivo, è l’anoressia. Benché inquadrata nello spettro delle patologie, così come l’obesità, l’anoressia è un male più subdolo perché meno evidente e, in un certo senso, socialmente “accettato”: generalmente si provano pena e pietà per un corpo molto magro, ma non di rado c’è una certa ammirazione per la forza di volontà e il rigore nel rispettare un regime alimentare ferreo.

Il mondo vuole, ottiene e consuma sempre più cibo, indipendentemente dalla sua qualità ma, intanto, sviluppa ostilità nei confronti del nutrimento: meglio essere estremamente magri che pagare il prezzo del pubblico ludibrio per non essere stati in grado di resiste alla tentazione di ingurgitare più del necessario; meglio il digiuno che l’abbuffata perché di entrambi saranno visibili gli effetti sul corpo.

Qualcuno potrebbe affibbiare la colpa della “mortificazione” del corpo proprio a una qualche dinamica ascetica già menzionata, all’orfismo, al dualismo origine di tutti i mali e di tutte le discriminazioni. In questo caso, invece, il corpo non è da maltrattare in favore dello spirito, ma è maltrattato perché è spirito, è in un certo senso mentalizzato e deve portare avanti un’etica del rigore, deve garantire forza di volontà, prestanza e resistenza alla stregua delle macchine con cui lavora. Se proprio si vuol parlare di dualismo, ne possiamo considerare uno in cui l’anima è assente e l’unico modello è rappresentato dall’efficienza delle creature tecnologiche. Sia l’ingordigia che il digiuno estremi possono essere letti, quindi, anche come tentativi di ribellione volontaria, episodica o continuata, al macrocosmo cittadino e sociale che ci spinge a divorare e consumare: c’è chi si tuffa a capofitto nella possibilità di decidere come, quanto, cosa vuole mangiare, convinto che la vasta gamma di scelta sia sinonimo di libertà e chi, schiacciato dal peso dell’abbondanza promessa, decide di difendersi rinunciando a tutto.

Come al solito, la via maestra è quella che si colloca tra i due eccessi del mangiare, ma è pur vero che, affinché la si percorra, occorre cambiare prospettiva morale: sarebbe auspicabile un’etica del pluralismo dei corpi, della tolleranza della diversità e della comprensione reciproca che non si fermi a una mera rivendicazione o richiesta di riconoscimento, ma che liberi sinceramente dal disgusto per il corpo (e non solo quello) “diverso”, o malato o sano o semplicemente umano.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credits Tim Mossholder su unsplash.com]

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Un’idea di felicità: la filosofia servita a tavola

Sempre di più oggi la cultura alimentare sembra essere estranea a se stessa: l’uomo non è più ciò che mangia, non sa più cosa mangia e neppure perché. Progressivamente si stanno perdendo i suoi riferimenti fondamentali definiti nel tempo.

Per comprendere cosa rappresenta oggi il cibo, bisognerebbe ritornare al significato stesso della parola, come facevano i grandi filosofi, riacquistando il suo senso autentico che non si riferisce solamente a ciò che si consuma e che nutre, ma a ciò che è in grado di esprimere anche un intreccio di prospettive legate a identità, appartenenza e relazione, perché è la tavola stessa a raccontarci il suo cibo.

L’etimologia della parola appetito, ossia l’essere attratti da qualcosa, non si riferisce ad una pulsione istintiva che obbliga a mangiare, ma è attrazione per qualcosa che ci invita. Ecco che il cibo può essere considerato lo strumento di relazione per eccellenza: la condivisione, la ritualità quotidiana, il convivio, rappresentano il cuore del vivere insieme e l’uomo, che Aristotele descriveva come essere sociale, ha sempre desiderato di vivere assieme agli altri; un vivere che si esprime solo attraverso lo scambio e l’esperienza.

Il sedersi a tavola insieme può rappresentare quella dimensione reciproca fatta di valori che è in grado di ridare significato e spessore a un gesto di vita spesso tralasciato, perché semplicemente non viene interrotta l’abituale corsa frenetica,  in un contesto in cui soprattutto la percezione e l’organizzazione dello spazio e del tempo vengono trasformati e sottratti allo scambio e alla relazione. Godere dell’esperienza quotidiana, comunicare e consumare la narrazione del cibo, sono infatti dei rituali che nella società frammentata di oggi si stanno perdendo. Il mangiare insieme, quando legato al concetto di convivialità, oltre a ridare dignità al gesto in sé, può rafforzare la ricerca della felicità condivisa, perché anch’essa è raggiungibile attraverso il cibo e il rapporto con esso, ricerca che a volte può essere articolata come la natura intrinseca delle relazioni.

L’esistenza stessa si fonda sul legame che si instaura tra il mangiare e il quotidiano, portatore di significati e mediatore nei confronti di una realtà la cui conoscenza e comprensione spesso non può che avvenire in modo diretto. Come mangiare un piatto di pasta assieme, in cui gli elementi base restano prodotti semplici, ma che insieme sono in grado di costruire un forte valore identitario e di soddisfare il gusto tanto da diventare un’abitudine quotidiana. Non a caso il piacere della semplicità e dello stare a tavola assieme si condivide con facilità. La quotidianità del mangiare quindi rappresenta quel semplice spazio di condivisione ripetuta, in grado di aggiungere valore e sentimento anche ad un modesto piatto di spaghetti al pomodoro.

Una pratica che può essere riconosciuta come patrimonio immateriale proprio perché si riferisce ad uno stile di vita e alla tradizione, non solamente ai singoli ingredienti, che vengono ricreati e trasmessi garantendo un senso di identità e continuità tra i soggetti, in risposta alla loro cultura.

All’interno di questo contesto il rapporto con l’altro trova sulla tavola di tutti i giorni il luogo speciale per la sua manifestazione più genuina, perché è nel quotidiano e nella continua ricerca che cibo e filosofia possono trovare il loro punto di unione: il cucinare, il mangiare assieme e il fare filosofia, in modi diversi, accompagnano continuamente l’uomo nella ricerca costante di una vita che ha bisogno dell’impegno umano per poter essere riconosciuta, se non felice, quantomeno nostra.

Riprendendo le parole di J. Inés de la Cruz, «si può benissimo filosofare e preparare la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più».

Martina Basciano

[Immagine tratta da Google Immagini]

Mangiamo per vivere o viviamo per mangiare?

Il latino sarà anche una lingua morta, ma per (s)fortuna di molti studenti, non lo sono gli insegnanti che lo perpetuano e che a colpi di falce mietono ogni anno più sofferenze che altro.
La mia esperienza non fu tanto diversa da quella di migliaia di ragazzi: debito a settembre e odio cieco.

Dopo lo scoglio grammaticale, però, arrivammo alla traduzione di massime e aforismi, quelle frasi celebri che si trovano (deo gratia) già tradotte interamente sul vocabolario e che portano gioia e agevoli versioni. Dalla semplice traduzione siamo passati alla riflessione; dalla lettura di un latinorum incomprensibile, all’illuminazione su concetti che non avremmo mai considerato, ma che in poche parole racchiudono pillole di verità.

Una di quelle incontrate per imparare le subordinate finali, recitava: “non ut edam vivo, sed ut vivam edo”, che (con la garanzia del vocabolario) significa “non vivo per mangiare, ma mangio per vivere”. Ma cosa significa questo gioco di parole di Quintiliano?
Ci comunica che dobbiamo guardarci dal peccato di gola: a detta del retore romano non siamo su questa terra per mangiare e cercare con il cibo un piacere fine a se stesso, ma dobbiamo ricordarci che il cibo è soltanto un carburante, né buono né cattivo, utile a mantenerci in vita e a darci sostegno.

Vallo a spiegare a tutti quei bambini che allontano dalla bocca ogni cosa di colore verde! E che dire inoltre di tutta quell’estetica del cibo che si è sviluppata negli anni? Artisti culinari ovunque: bar, ristoranti, pub, kebab, pizzerie, pasticcerie, supermercati e via dicendo. Le città sono invase di servizi per il cibo, che cercano di proporre il meglio che c’è sul mercato. Parrebbe insomma che molti vivano per mangiare, per gustare il non plus ultra dei cibi in circolazione.

La pillola di saggezza sembra venir meno, non tanto per la corruzione morale della società (che i detentori dell’etica propinano come minestra riscaldata in ogni epoca), quanto invece per un bisogno umano diverso dal semplice mantenimento della specie: il piacere, il godimento puro, che, guarda caso, è sempre unito ad ogni azione di procreazione e mantenimento.

Più tardi il greco mi ha insegnato che le pillole (anche quelle di verità) sono un farmaco (φαρμακον), che letteralmente può equivalere tanto a sostanza salvifica quanto a veleno mortale. Dove sta la verità di questa pillola? Ci porta salvezza o distruzione?
Ogni aforisma va dosato, come una medicina, va preso in giuste quantità, tali da non svilupparne una dipendenza dalle frasi altrui. Dovremmo invece inghiottirlo e deglutire, farlo nostro, rielaborarlo e integrarlo con il nostro organismo, con il nostro pensiero.

Il latino è così, o nero o bianco, tertium non datur, ma esistono davvero solo due possibilità? La filosofia ci viene ancora una volta in aiuto, e ci fa capire che sulla terra non c’è nulla di assoluto, di così spaccato e definito nella sua contrapposizione all’opposto: in medio stat virtus. Né l’una né l’altra allora, né viviamo per mangiare né mangiamo per vivere, ma mettiamo in atto una commistione di piacere e godimento assieme alla necessità di avere la pancia piena, di avere un organismo che funzioni perfettamente e in cui inserire il giusto carburante.

Apriamo la bocca e assaggiamo una pietanza: gli organi di senso sono totalmente recettivi, come durante un amplesso. Il corpo si prepara a ricevere qualcosa che lo sostiene, che lo salva, che conferisce quel principio di piacere al quale non ci si può sottrarre. L’attività quotidiana del mangiare non si limita all’immissione di un carburante meccanico, ma alimenta la mente e lo spirito, sensi e percezione, piacere e godimento.

Ma non basta un cibo buono, serve anche un cibo sano, quello che i bambini ancora non capiscono, quello che gli adolescenti non accettano, quello che gli adulti cercano di dimenticare.
Ecco che quindi l’aforisma iniziale assume un senso diverso, un’interpretazione che lo rende più accettabile e sensato. Se è vero che non viviamo per mangiare, insomma, non viviamo per mangiare e basta; ma mangiamo per continuare a vivere e poter continuare a mangiare. Il cibo è funzionale alla vita, ma la vita è felicità e gioia, è ricerca del piacere e sperimentazione costante di esso.

Mangiamo per vivere, certo, ma viviamo per essere felici, per godere della vita e del cibo con cui viviamo.

Giacomo Dall’Ava

[immagine tratta da Google Immagini]

L’isola Parte II

Scrive Rousseau: «la terra, lasciata alla sua fertilità naturale, e coperta di foreste immense che la scure non ha mai mutilato, offre a ogni passo sia riserve alimentari che ripari agli animali di ogni specie» compresi gli uomini che tra essi vivono e si mescolano. Ma non tutto è dato all’uomo senza che questo gli costi fatica e la vita non sempre è a un passo come in una sorta di Gan Eden, specialmente per coloro che ancora non abbiano sviluppato una tecnica che gli permetta di accelerare il soddisfacimento dei bisogni primari, così da conservare tempo prezioso da dedicare alla scoperta e alla messa a punto di nuove idee. Nel corso del laboratorio in classe, ciascun bambino aggiunge un elemento sull’isola. Un particolare considerato fondamentale per il benessere dell’indigeno solitario, nostro protagonista. Un desiderio, un regalo fatto al nativo. «Poiché il solo strumento che l’uomo selvaggio conosca è il suo corpo, lo adopera per vari usi dei quali, per mancanza di esercizio, i nostri uomini sono incapaci: perché è questo nostro modo di operare che toglie la forza e l’agilità che la necessità obbliga lui ad acquisire», scrive Rousseau. I bambini hanno la possibilità di salvare l’uomo con una manciata di desideri, mostrandosi, specialmente a quattro e cinque anni, raffinati esperti della vita umana e delicati conoscitori dei bisogni primari dell’uomo.

Una casa, a volte due. Una palma da cocco, numerosi banani. Meli, peri, più raramente piante di fragole e anguria. Acqua a volontà, bottiglie di plastica il più delle volte, ma solo a partire dalla Scuola Primaria (i bambini di quattro e cinque anni sanno di dover aggiungere un fiume, un lago o una sorgente, altrimenti l’acqua finirebbe, a dispetto di quante bottiglie si possano aggiungere). Tutti, indistintamente, tentennano sulla possibilità di dissetarsi in mare, almeno all’inizio, ma c’è sempre chi riprende il gruppo sconsigliando tale pratica. Cacciagione, maiali, pecore, casomai mucche. Cani, gatti, cuccioli di animali feroci, quali tigri, aquile, coccodrilli. Pesci, canne da pesca, armi per la caccia, spesso una barca e quasi sempre un fuoco. Cigni. Letti o sdrài, indifferentemente. Vestiti. Costumi. Rare le spiaggie, soprattutto quelle con ombrelloni, secchielli e palette. Non mancano mai gli amici, seppure non figurino tra le primissime scelte. Talvolta uno, ma spesso due, tre o cinque. In alcune occasioni venti, mai sopra la trentina. Metà maschi e metà femmine, quasi sempre, come si confà alla migliore delle classi possibili. Giocattoli, più che altro macchinine, bambole o sassolini. È spuria la scelta della strada, del ponte, della macchina, del frigorifero, del supermercato, del negozio, che capita meno di frequente di quanto si possa pensare e solitamente in terza, quarta e quinta elementare. È questo quello che i bambini aggiungono sull’isola ed è così nella quasi totalità dei casi, tenendo conto – com’è ovvio – di leggere variazioni da classe a classe, da luogo a luogo e tra età diverse (specialmente tra i quattro/cinque anni e i sette/otto e così via).

Nel cibo (mangiare, bere, cacciare, raccogliere, allevare), in un riparo (dormire, vestirsi), nel gioco (rilassarsi, mettersi alla prova) e nella socializzazione (comunicare, aiutarsi) i bambini individuano i bisogni fondamentali dell’umanità.

«I pigmei amano profondamente la loro vita», scrive Cavalli-Sforza. Essi cacciano e la loro abilità in quest’attività è proverbiale. Si costruiscono dei ripari a mo’ di capanna «che sono di forma emisferica un po’ allungata, lunghe quanto un pigmeo sdraiato e provviste di un’apertura così piccola che bisogna entrare strisciando». A parte la caccia, che li impegna tutti, «nella foresta ci si può dedicare a mille altri divertimenti». Ad esempio, «in primavera vi è una grande festa, […] quando viene la stagione dei bruchi. La foresta si riempie di bruchi di farfalla, che a quanto pare sono ottimi da mangiare». «Per oltre il 99 per cento della sua storia l’umanità è vissuta di caccia e raccolta», lì, dunque, ha senso andare alla ricerca dell’origine, della maniera di vivere. E i bambini, abili nell’intuire la mente altrui e nello smascherare la vera essenza degli adulti loro interlocutori, sono adatti a portare avanti quest’attività di scoperta. Gioco che affrontano con la passione che gli deriva da una curiosità ancora trasparente e sgombra da interessi di sorta. «L’organizzazione sociale primitiva doveva essere molto simile a quella attuale dei Pigmei». Essi, scrive Cavalli-Sforza, «vivono sempre in bande, in gruppi di una trentina di persone in media», numero che i bambini inconsapevolmente rispettano quando introducono quelli che amano definire gli “amici” del protagonista. Sappiamo, poi, che i Pigmei, «vanno a caccia insieme», che è anche la soluzione che ai bambini viene in mente quando si tratta di capire com’è organizzata la vita sull’isola. “Fare insieme tutto ciò che c’è da fare” sembra essere prerogativa del loro modo di ragionare e di prendere decisioni. Per quanto l’adulto insista, ‘costringendo’ i piccoli a riflettere sull’utilità di dividere il lavoro, di attribuirsi dei ruoli precisi e di trovare la maniera migliore di rispettarli o farli rispettare, essi perseverano nell’idea comunitaria più semplice. Distoglierli da tale idea è difficilissimo. L’abbondanza di animali e vegetali che i bambini scelgono di sistemare sull’isola, poi, ci porta a riflettere su quella che potremmo definire la loro più grande competenza (purché venga loro permesso di svilupparla), che è anche la competenza dei cacciatori primitivi, ovvero l’etologia, il comportamento animale. Non c’è nulla che incuriosisca un bambino di più di un piccolo animaletto, a meno che qualcosa nel suo sviluppo non sia andato storto! È talmente importante per il suo sviluppo psicofisico, che egli abbia la possibilità di accudire un altro essere vivente, che la scuola dovrebbe organizzarsi in modo da consentire ai bambini che a casa non hanno possibilità di tenere animali, di vivere comunque quel genere d’imprescindibile esperienza.

I Pigmei sono gente pacifica, «gentili, di grande dignità, anche spiritosi. Detestano la violenza e ne rifuggono. Se sono in disaccordo discutono, litigano rumorosamente, magari si picchiano, ma è rarissimo che ricorrano alle armi», scrive Cavalli-Sforza. E lo stesso fanno i personaggi scelti dai bambini nella loro isola immaginaria, secondo quanto essi stessi abilmente riferiscono: “quando qualcuno si rifiuta di fare ciò che deve fare, gli altri membri del gruppo devono sostituirlo, concedendogli il giusto riposo. Se neppure il riposo giova a riportare energia nella vita di quell’uomo, allora è bene che egli si metta a fare ciò per cui si sente portato, che sa fare meglio”. Come tra i Pigmei, «non esistono capi, gerarchie o leggi. C’è parità fra uomini e donne. Le questioni che riguardano tutti vengono discusse in comune intorno al fuoco». Che poi è la soluzione più evidente per qualsiasi bambino: “se c’è un problema se ne parla, si fa la pace e tutto poi ricomincia a funzionare”. E se nonostante tutto qualcuno si comporta male ugualmente o, peggio, reca danno agli altri, i bambini risolvono la cosa nel medesimo modo dei cacciatori: con l’esilio. «Uno dei punti fermi dell’etica pigmea è che se due litigano forte si separano. […] La punizione più grave che può essere inflitta dalla comunità è l’allontanamento dal campo». Come i popoli che gli etnologi hanno avuto la fortuna di conoscere e l’intelligenza di studiare, i bambini hanno solitamente un’indole allegra e festosa; preferiscono la caccia all’agricoltura (quest’ultima è molto più faticosa e finché se ne può fare a meno di certo conviene evitarla); attribuiscono più importanza al presente rispetto al passato e al futuro, il che non significa, come molti hanno erroneamente creduto, che siano limitati all’hic et nunc, al qui e ora. No, affatto. L’inflessibile allenamento a immaginare li conduce, al contrario, a vedere il mondo sotto una specie di drappo magico che fa apparire le cose non solo per ciò che sono, ma per quello che potrebbero essere. Si tratta, in altre parole, di un presente espanso e non di un presente scandito, tipico dell’adulto, che vive un tempo colorato, spesso, d’angoscia. Il bambino non vive sentimenti negativi di fronte al tempo, perché lo scorrere dell’essere per lui procede all’avanti e all’indietro ininterrottamente sotto una specie di lente presente che gli consegna la fiducia necessaria a credere alla totalità delle possibilità che può riuscire a immaginare, senza invalidargliene alcuna.

Carlo Maria Cirino

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