Indignamoci

Il tempo ipermoderno è caratterizzato da una psicoapatia diffusa che si traduce in un’indifferenza generalizzata. Questo atteggiamento conduce ad adagiarsi sul vigente, con un particolare senso di abulia che induce ad accettare passivamente lo status quo, poiché si è persa la speranza nel cambiamento e nel miglioramento delle condizioni culturali e sociali attuali. In questo senso, proprio nel tempo presente è decisivo recuperare una sana indignazione che conduca a una risposta proattiva e propositiva differente rispetto ad alcune cristallizzazioni negative della realtà.

Certamente, le ragioni che oggi possono indurre l’indignazione sembrano meno distinte di un tempo, questo a causa di quel velo di superficialità che oscura gli occhi degli uomini, sempre meno interessati a scorgere le contraddizioni del proprio tempo, rendendosi così fattivi promotori delle incongruenze stesse. La crisi della società contemporanea basata sul dominio dei mercati finanziari, sull’ideologia politica e sul consumo di massa portato all’estremo, germoglia e fiorisce proprio nella superficialità e nell’indifferenza che anestetizzano le menti e le coscienze. Rileviamo come proprio questa sia una patologia dilagante: il deserto delle coscienze attive e del pensiero critico razionale. L’adagiarsi indifferente su quanto ci è di fatto imposto è il peggiore degli atteggiamenti, è il naufragio della speranza nella possibilità di incidere sul destino individuale e collettivo e sull’opportunità di costruire un mondo più giusto, più equo, più libero e responsabile. Lasciandoci sopraffare dall’indifferenza, «comportandoci in questo modo – scrive Stèphan Hessel –, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue»1.

Indignarsi significa dunque uscire dalle paludi dell’indifferenza, recuperando uno sguardo accorto e critico sulla realtà, invero «spetta a noi, tutti insieme, vigilare perché la nostra società sia una società di cui andare fieri»2. In un tempo così rapido e complesso è necessario un sforzo personale per evadere dall’indifferenza, reagire al vigente e, se necessario, resistere per i valori nei quali si crede e che, troppo spesso, vengono sepolti sotto l’onta del progresso, gestito dai pochi, che impoverisce gli orizzonti esistenziali e aumenta il divario economico e sociale con i molti. A questo si unisce l’assenza di rispetto per i diritti universali e inalienabili dell’uomo e la noncuranza verso la casa comune, il pianeta, e le condizioni critiche nelle quali versa a causa di uno sfruttamento egoistico e miope, perpetrato sotto gli occhi indifferenti di buona parte di noi. Ecco dunque come l’indifferenza sia la patologia, mentre l’indignazione la possibile cura: l’appello alle coscienze, il ritorno del pensiero e il passaggio all’azione, necessari a scuotere quanto è dato per scontato e ad attivare il cambiamento.

Ritornare ad indignarsi significa recuperare una nuova consapevolezza di se stessi e del mondo che ci circonda, nonché la capacità di agire scelte, per quanto possibile, differenti rispetto alle imposizioni di un sistema che ci vuole omologare, come automi monodimensionali, bandendo anzitutto un autentico sviluppo culturale, educativo e interiore, troppo pericoloso per un mercato che ci preferisce assuefatti consumatori. Indignarsi significa prendere posizione nei confronti dei mass media che disprezzano e scartano la fragilità ed esaltano la potenza, vuota di quei contenuti decisivi per affrontare l’esistenza vera, molto diversa da quella costruita ad arte dai rotocalchi cartacei o digitali. Indignarsi significa non accettare passivamente l’economia darwiniana del più forte che percepisce l’altro come mezzo per raggiungere i propri scopi, o nel peggiore dei casi cerca di annullarlo in quanto ostacolo al proprio cammino. Indignarsi significa non adagiarsi al mito performativo contemporaneo, dove ogni espressione umana è rapportata alla competizione sfrenata, che machiavellicamente giustifica qualsiasi mezzo pur di raggiungere l’ideale immaginario, del più forte, del più ricco e del più affermato, che la società dell’immagine impone. Indignarsi dunque di fronte ad una realtà che, lungi dall’aver incrementato il progresso culturale, valoriale e civile, lo disprezza catapultandoci ad una condizione naturale di hobbesiana memoria, dove l’uomo è lupo per l’altro uomo. Dove domina l’Io a discapito del Noi. Dove il delirio mondano è conseguenza della guerra di tutti contro tutti, per raggiungere il potere e trionfare a qualunque costo. Dove viene promosso l’essere istintuale e non la persona razionale e spirituale, capace di trascendere la datità, l’immediatezza per realizzare valori e significati profondamente umani.

Indignarsi richiede il coraggio (termine che dal latino richiama un’azione del cuore) di strappare, di dire di no, di emanciparsi dal vigente, di sfuggire al totalitarismo (voglio ciò che vogliono gli altri) e al conformismo (faccio ciò che fanno gli altri). L’indignazione attiva richiama l’azione, quella che dal pensiero si trasforma in coraggio della verità, in proposta concreta, quella che tuttavia rigetta l’agire violento che finisce per far precipitare ogni positiva intuizione, nella spirale del male, senza speranza, preferendovi un confronto rispettoso e democratico nello spazio comunicativo. In questo senso, in accordo con Stéphan Hessel, come non ricordare l’esempio e le esperienze di indignazione proattiva di martiri civili del novecento, quali Martin Luther King, Nelson Mandela. Costoro, indignandosi attivamente e con la speranza nel cambiamento e nel miglioramento, hanno rotto l’incantesimo di un’indifferenza cronica e di un’assenza di responsabilità personale e collettiva che altrimenti ci induce ad affermare con rassegnazione: “in fondo, io che cosa posso fare?”.

Non possiamo chiudere passivamente gli occhi di fronte alle contraddizioni laceranti del tempo presente, è necessario che torniamo, con lucida convinzione, ad indignarci, perché è questa la vera forza per il cambiamento e il miglioramento della realtà: «guardatevi attorno – esorta Hessel – e troverete gli argomenti che giustificano la vostra indignazione»3.

 

Alessandro Tonon

NOTE:
1. S. Hessel, Indignatevi!, tr. ti. di M. Balmelli, add editore, Torino, 2011, p. 15
2. Ivi, p. 6
3. Ivi, p. 19

[Photo Credits: Randy Fath on Unsplash.com]

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Cinema e sport: così vicini, così lontani

Le grandi storie di sport hanno scritto pagine indelebili del secolo scorso e di questi primi anni del 2000. Sono diventate parte del nostro immaginario, lasciandoci immagini vivide e ormai entrate nella leggenda; come parte integrante dell’umanità, hanno scritto la Storia. Alì contro Foreman nel 1974, a Kinshasa. Il gol di Maradona a Messico ’86, sotto il sole accecante dello Stadio Azteca, mentre un emozionato Victor Hugo Morales impazzisce in telecronaca, chiamandolo barrillete cosmico. Nelson Mandela, in piedi sul prato dell’Ellis Park, indossando la maglia degli Springboks, stringe la mano e consegna la Web Ellis Cup a Francois Pienaar, capitano del Sudafrica; un bianco e un nero, figli della stessa terra. Il canestro di Jordan nel ’98 contro Utah, un tiro a 5,2 secondi dalla fine, l’ultimo della sua carriera ai Bulls; due punti che lo consacrano nell’Olimpo del basket, il più grande di sempre, un onnipotente del gioco.

Sono alcune delle immagini che tutti hanno visto almeno una volta e che anche il cinema, Hollywood in particolare, ha voluto omaggiare. Di film sullo sport se ne contano decine e sarebbe difficile elencarli tutti, anche se alcuni sono sicuramente più conosciuti: dai grandi film sulla boxe, come Toro ScatenatoRocky o i più recenti Million Dollar Baby The Fighter, ai film sulla pallacanestro; Hoosiers, con un appassionato e focoso Gene Hackman nei panni di un insolito allenatore. He Got Game di Spike Lee, che racconta uno dei lati nascosti del basket, con un meraviglioso e romantico 1vs1, finale tra Denzel Washington e il figlio Jesus Shuttlesworth/Ray Allen. Ancora Space Jam e la sua accoppiata vincente Michael Jordan/Looney Tunes, un film che ha fatto innamorare del basket un’intera generazione di bambini.

Di produzioni cinematografiche di questo tipo, come detto in precedenza, c’è davvero una gran abbondanza. Hollywood non ha mai badato a spese, cercando sempre di ingaggiare i migliori registi ed interpreti, con risultati, molte volte, davvero notevoli. Com’è invece la situazione in Italia? Se si attraversa l’oceano tornando nello Stivale, il panorama di film sportivi è piuttosto scarso, se comparato a quello americano. Lo sport al cinema è stato quasi sempre visto in chiave parodistica/umoristica, un esempio lampante è L’allenatone nel Pallone; come mai? Di certo non per la mancanza di storie da raccontare o, secondo alcuni, per la pochezza in termini di interpreti e capacità del cinema italiano. Probabilmente la risposta va cercata altrove, ad un livello più profondo.

C’è una differenza socio-culturale di base tra chi, come noi italiani, ha una storia millenaria, che si intreccia con la nascita e il fiorire delle grandi civiltà classiche e chi, come nel caso degli statunitensi, ha una storia molto breve, i cui eroi “antichi” sono i pionieri che hanno conquistato l’ovest o i soldati delle tante guerre da loro combattute. C’è una sorta di ricerca ossessiva dell’epica di un popolo che quest’epica non l’ha mai avuta e che in qualche modo si fonde con lo sport. Il grande atleta viene visto come un’incarnazione dell’eroe omerico, un moderno Achille, selvaggio e competitivo sul campo. Questa visione, la celebrazione della forza, del coraggio dell’atleta, viene presentata anche al cinema, come parte fondante della loro cultura e del loro significato di competizione.

La nostra percezione dello sport è molto diversa, è vissuto sicuramente in modo viscerale e appassionato, ma non ha un valore sociale così profondo e radicato nella nostra cultura. Difficilmente un atleta viene celebrato o raffigurato sul grande schermo come un eroe epico. Sono due visioni opposte, non solo di cinema ma anche di vita e probabilmente nessuna delle due è giusta o sbagliata. Due culture diverse, non per forza in contrasto, che però potrebbero imparare molto di più l’una dall’altra.

Lorenzo Gardellin

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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