“Perché il papà ha ucciso la mamma?”

“Perché il papà ha ucciso la mamma?”
Può essere solo questa domanda a scandire ogni singola giornata dei figli sopravvissuti alla morte delle loro mamme, uccise dai loro padri.

Questa società sarà anche stata protagonista della liberazione sessuale, del riconoscimento (almeno formale) di pari diritti, dell’avanzata del femminismo, ma i femminicidi, frutto di ideologie non troppo remote, non ancora sradicate, quelle antiche idee di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora presenti. Nel femminicidio riaffiora ancora l’archetipo dell’ordine patriarcale violato.

Dei figli che restano si parla e si scrive poco. Se da un lato c’è l’intento di tutelarli, essendo nella maggior parte dei casi ancora minorenni al momento dell’assassinio della madre, dall’altro, nei confronti di questi orfani sussiste una negligenza colpevole, palesemente dimostrata dal fatto che i primi studi sul dramma vissuto da questi bambini e sulle conseguenti ripercussioni emotive risalgono a meno di una decina di anni fa.

È infatti nell’anno 2011 che, la psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry avvia il progetto europeo Switch Off del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli con il supporto dell’associazione nazionale D.i.RE (Donne in rete contro la violenza) e in collaborazione con le Università di Cipro e della Lituania, ponendo al centro dei suoi studi concernenti il femminicidio le vittime collaterali, ovvero i bambini sopravvissuti che hanno perso entrambi i genitori: la mamma vittima di femminicidio e il padre, autore dell’omicidio, rinchiuso in carcere o spesso morto suicida.

Nel 2016, le prime Linee guida di intervento per quelli che vengono definiti “orfani speciali”1: un sussidio a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, degli insegnanti, delle forze dell’ordine il cui obiettivo è utilizzare un protocollo di azione omogeneo e tempestivo perché queste vittime secondarie necessitano di sostegno concreto e cura. Diritti imprescindibili che le istituzioni non possono continuare ad eludere.

Questi bambini, che sono costretti a vagare da un’istituzione all’altra, nella maggior parte dei casi e nel tentativo di preservarne la continuità affettiva, vengono affidati ai parenti più stretti che faticano a far fronte alle innumerevoli esigenze psicologiche e materiali.

Gli “orfani speciali” si trovano a dover avanzare nella strada della vita nonostante il carico sconvolgente di un legame familiare che ha dato loro vita e morte, protagonisti di un’atrocità indescrivibile a parole, privati di quella base vitale e certa su cui fondare la propria forza psichica ed il proprio equilibrio. È innegabile l’obbligo dello Stato e di quella stessa società che si definisce civile provvedere a questi orfani, vittime non solo di un padre violento ma anche di Istituzioni che, in molti casi, non hanno saputo proteggere le loro madri che avevano già subito violenza e avevano più volte denunciato i loro partner o ex partner.

In Italia, da poco più di un anno, è in vigore la legge n. 4 dell’11 gennaio 2018 che, modificando il codice civile, il codice penale e di procedura penale e prevedendo altre singole disposizioni, introduce strumenti di tutela legale ed economica dei figli (di qualunque genere di unione, coniugale o equiparata), minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, rimasti orfani di un genitore a causa di un crimine commesso dall’altro genitore. Ma, come spesso accade nel nostro paese, la normativa approvata manca di adeguati fondi economici.

Questi “orfani speciali”, figli del ventunesimo secolo, sono nati in una società che si definisce inclusiva, liberale, emancipata e civile ma che sopporta che i bambini siano spettatori involontari di crimini efferati, violenza inaudita. Questi bambini in realtà non sono altro che figli di una società liquida in cui, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, è protagonista «la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza».

A nulla serve introdurre nelle scuole un’educazione finalizzata al riequilibrio di genere se il legislatore non interviene in maniera urgente e decisa con leggi severe che sanciscano la gravità assoluta e la certezza della pena di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie già vissuta nel passato e ridestando un problema che credevamo di aver superato ma che in realtà l’umanità non ha ancora elaborato.

La donna, ancora e troppo spesso è considerata di “seconda classe”… poi, si arriva ai femminicidi e a non essere in grado di tutelare chi per tutta la vita, inevitabilmente, porterà le conseguenze del terrore, del sangue e del silenzio di quando quel maledetto giorno, in quell’istante tutto è finito.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE:
1. Il documento relativo alle “Linee guida di intervento per gli special orphans” è consultabile nel sito dedicato: www.switch-off.eu.

[Photo credits Tam Wai su unsplash.com]

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Il subconscio trae in inganno, i sensi cadono in fallo, la mente corre

Sono giorni che sento il tuo profumo, lo stesso che ti nebulizzavi sui vestiti e sulle lenzuola prima di andare a dormire… e oggi è così penetrante, tanto da farmi scorgere tra le mille vie della mente il maglione lilla e bianco. E’ come se la nostra città, il nostro mondo, fossero annebbiati… quasi la rabbia superficiale che nutro per tutto ciò che è accaduto fosse diventata patina spessa, che si insinua tra me e te.

È difficile riuscire a comprendere ciò che sento per te, in superficie la rabbia opacizza ogni cosa, nel profondo, cercando di andare oltre a quei sentimenti alimentati dall’impulso; ti auguro il meglio, perché meriti la felicità, ma la felicità vera, la più alta che sia concepibile, la felicità che inebria ogni atomo del proprio sé, l’unica in grado di farti realizzare che ogni sacrificio ne valeva la pena.

Solo che un figlio può divenire sacrificio? Ognuno di noi usa scusanti, perché entrambe sappiamo che per molto tempo hai ingannato gli altri, e soprattutto te stessa. Hai vissuto in un mondo che mai comprenderò, di cui, forse, mai vorrò nemmeno spiegazione, perché talvolta la conoscenza delle ragioni reali che sottostanno ad azioni e decisioni incomprensibili, destabilizza molto più che l’ignoranza che ha condotto a quello strano e paradossale susseguirsi di eventi, quello che ci ha condotte ad un oggi che mai io avrei potuto immaginare.

Divenire sconosciute.

E tu per me non eri solo mia madre, tu eri la mia migliore amica, il mio sorriso sulle labbra, la mia coccola della sera, il mio buongiorno… il mio canto in macchina, la mia risata, la mia complice in un mondo così ostile…

E si, mi manchi. Mi manca ogni cosa di quei nostri vent’anni, mi manca la nostra silenziosa colazione, il tuo allungare la mano sul tavolo per trovare la mia; mi mancano quei nomi sciocchi, i nostri segreti; mi manca appoggiarmi a te e prenderti in giro; mi manca la mia mamma

Mi manca la donna che per 20 anni ho avuto accanto, che da un po’ di tempo non trovo più, mi manca la donna che tu tanto hai rinnegato; mi manca ciò che eravamo noi, ciò che tu non hai più voluto…

Per quanto, forse dovuto alla giovane età, forse solo dettato dalla volontà di conservare un po’ di quel tempo in cui le mie lacrime ricadevano sul tuo animo e tu le asciugavi, portandole lontano dal mio cuore, vorrei continuare a piangere, sperando di rivederti un giorno tornare da me, io ti ho lasciata andare…

“Se ami qualcuno, rendilo libero”.

Sei libera… e non perché io mi sono arrogata il diritto di concederti tale cosa, non potrei mai, ma perché, in cuor mio, ho compreso come ciò che mi hai dato, l’amore che hai emanato ad ogni battito per 20 anni, mi basti per il resto di ciò che sarà.

Non so come sarà quest’anno, la festa della mamma, lo devo confessare. Forse camminerò senza meta, persa tra la folla in modo che la nostalgia non si nutra di tutto l’animo; forse tornerò nei nostri posti, forse sarò pronta a sorridere, consapevole che ogni accadimento ha un suo perché, consapevole che il nostro non essere più noi ha un perché.

So che leggerai, so che vorrai dirmi qualcosa, forse per sentirti un po’ meglio, forse per dirmi che tu non te ne sei andata, ma noi lo sappiamo, mamma, che non è così. Non sto parlando alla genitrice che oggi sei, ma alla mamma che ieri eri.

Sto parlando all’unica persona in grado di capirmi, di riuscire a camminare tra le fila del mio gomito emotivo. Parlo a te – e sai, devo ringraziarti molto più per gli ultimi anni, perché se fossi rimasta, forse la sera, cullata dal tuo amore, avrei chiuso gli occhi al posto di combattere per i miei desideri. Ti ringrazio, per essere stata, in ogni caso, indicazione della via.

Questi anni mi hanno insegnato molto: mi hanno insegnato a conoscermi, a valutare i miei limiti, la forza derivante dalla determinazione, il grado di tolleranza del dolore… E lo devo unicamente a te, all’effetto domino che hai scatenato con un respiro, con un soffio che è stato in grado di abbattere ogni mia difesa, rivelando, però, un percorso molto più vero e valido rispetto a quello che stavamo percorrendo insieme.

Quanto è strana la vita vero? Credevo che a legarci fosse un filo di diamante, indistruttibile: oggi ho compreso che era solo nylon.

Quindi auguri, alla mia mamma, se mai da qualche parte uno spiraglio di lei è rimasto… E auguri a te, che mi hai dato la forza di affrontare il dolore, di non aver paura se alle mie spalle non c’è nessuno pronto a prendermi in caso di caduta. Auguri a te che mi hai insegnato che non importa da dove si arriva, importa dove si va e come si percorre la strada, e anche se il mio sarà parzialmente un pellegrinaggio in solitaria, ad un certo punto della via so che davanti a me ci sarà un qualcuno, un qualcuno che difenderò sempre, che proteggerò e afferrerò nelle cadute… e forse, anche se è un bel forse, mi avvicinerò alla conoscenza di tutti i perché ti hanno spinta lontana da me.

Nicole della Pietà

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il limite sottile tra ‘normale’ e ‘tradizionale’ – Family Day

Essere genitori non è un diritto né un dovere. Essere genitori è il più grande privilegio destinato all’uomo..e questo, in particolare, è legato alla presenza d’amore e volontà, di forza e tenacia, un pizzico di follia e spirito di sacrificio, ma sicuramente essere genitori prescinde dalla sessualità di una persona.

“Family day”

Una scritta, un niente che porta con sé immensità di implicazioni.

Avrei voluto crescere con la famiglia perfetta, dove la mattina di Natale si corre sotto l’albero, dove i genitori si guardano complici, dove un abbraccio viene sempre prima di ogni cosa, dove l’amore si respira nell’aria.

Non è forse questa l’idea alla base di questa giornata?

La famiglia perfetta, quella della pubblicità della Mulino bianco.

Beh, volete la verità? Di famiglie così ce ne sono poche, troppo poche purtroppo, ma, come ribadisco sempre, l’apparenza conta molto di più della verità, in questa società.

Sono imposizioni implicite…tutti devono apparire sereni, felici, nessuno dovrà mai capire che le espressioni indossate mascherano realtà atroci.

Si è “costretti” a vergognarsi dei soprusi subiti, a vergognarsi della propria realtà…mi sono state rivolte tante accuse, nel momento esatto in cui ho deciso di non acconsentire e liberarmi da quella gabbia di bugie e odio, qualcuno mi disse di dover tacere, altri non mi hanno creduta, perché i loro sorrisi sono sempre stati più facili da accettare.

Ho iniziato a vergognarmi d’aver avuto il coraggio, la forza, di essermi asciugata le lacrime da sola….

Con gli anni ho compreso che la famiglia non è necessariamente e obbligatoriamente il nucleo parentale in cui si nasce.

Un legame sanguigno non potrà mai vincolare le persone ad amarsi, per quanto tale verità possa turbare la mente di chi ha vedute troppo ristrette per accettare che non tutto ciò che si scorge è rappresentativo della realtà dei fatti.

Mi hanno sempre insegnato a dire che la mia famiglia era meravigliosa, che eravamo felici, ma solo noi sapevamo cosa accadeva la notte.

Solo io so cosa voglia dire trovarsi soli, perché i propri genitori hanno deciso che quelle mura, che hanno costituito una galera, fossero l’unico vero collante tra noi.

La famiglia è una scelta.

Io la mia scelta l’ho compiuta, quando ho compreso che coloro che mi hanno concepita non erano, nel vero senso della parola e non in quello che riporta un dizionario, i miei genitori.

Una donna a me molto cara mi ha sempre ribadito come i genitori non potessero scegliere i figli, ma come la situazione fosse analoga dall’altra parte.

La famiglia, la casa, sono sentimenti…sono quelle sensazioni che liberano le tensioni quando le braccia di chi ami ti stringono, sono quelle lacrime asciugate amorevolmente malgrado gli errori, sono là segnaletica che ti indica la retta via senza presunzione, sono la condivisione di ogni lato del proprio sé, senza paure né riserve.

La mia famiglia l’ho trovata negli amici di sempre, che malgrado i litigi sono qua con me, in ogni istante…la mia famiglia l’ho scoperta in due signori incontrati in spiaggia per caso che mi hanno protetta e accolta, dandomi gli strumenti per comprendermi ed amarmi…la mia famiglia si presenta davanti la porta ogni volta che giro nella toppa le chiavi e vedo un cumulo di pelo che scodinzola e mi guarda con un amore infinito…amore lo sento accanto a coloro che scelgono di stare accanto a me, perché la vita insieme è più bella…amore che non ho mai potuto scorgere negli occhi dei miei genitori.

L’amore non può essere standardizzato da una serie di stereotipi che la storicità e la propria società impongono.

Lo ammetto, io avrei voluto una famiglia da sempre, sulla quale contare in ogni istante…ma una famiglia normale, per me, per coloro che non hanno avuto il privilegio immenso di averla, non significa avere la presenza di una mamma e di un papà necessariamente.

Avrei preferito mille volte due mamme, due papà, piuttosto che non sentire mai sulla pelle nemmeno un sospiro d’amore.

Avrei desiderato mille volte mangiare con due mamme o due papà, ma non auguro a nessuno di non poter cenare con il proprio padre per 20 anni “perché lui non ha voglia di sedersi a tavola” e predilige a te una serie TV guardata in soggiorno mangiando col vassoio.

Avrei voluto…avrei desiderato mille cose…vorrei, adesso, che la famiglia fosse considerata un luogo dove dei bambini possano sentirsi amati, sempre, e non additati come l’errore che incatena due persone.

La vera famiglia non ha bisogno di una giornata, è l’amore quotidiano che rende possibile festeggiare ed essere grati.

Vorrei che qualcuno lo spiegasse a queste persone, quanto fa male sentirsi esclusi da un insieme così importante, unicamente perché per noi TRADIZIONALE non vuol dire NORMALE.

Nicole Della Pietà

I cinque passi

Passo 1: la negazione
È quasi un mese che sono seduta accanto al tuo letto, in questa sterile camera d’ospedale che abbiamo cercato di rendere insieme un po’ più calda, un po’ più familiare. Una nostra foto, le tue creme, il tuo pupazzo portafortuna vicino alle tante, troppe medicine.
È quasi un mese che sono seduta costantemente accanto al tuo letto, ma un’ora fa ho deciso di andare a casa a fare una doccia. Sarà passata forse mezz’ora e mi hanno chiamato dall’ospedale: mi hanno detto che sei morta.
Ho ringraziato e ho riagganciato. Mi sono vestita, mi sono truccata e sono venuta in ospedale. Le infermiere mi sono venute incontro, mi hanno detto che erano dispiaciute, perché ormai a te erano affezionate, e mille altre cose che non ricordo o che forse, semplicemente, non ho ascoltato. Ho sorriso, ho annuito. Non ho versato neanche una lacrima. E poi mi hanno portata da te. E adesso mi ritrovo, esattamente come tutti gli altri giorni, seduta accanto a te, seduta accanto a un letto di ospedale, solo in una camera che non ha niente di personale.

È tutto così irreale.

Ti guardo e non ti vedo, ti tocco ma non ti sento. Forse questa non sei neanche tu.

Passo 2: la rabbia
Ho dormito come non dormivo da settimane. È stata una notte buia, profonda. Non ho sognato. Questa mattina mi sono svegliata e senza pensarci mi sono vestita, ho preso la macchina e sono venuta in ospedale. Ho parcheggiato e sono salita in reparto. Sono arrivata davanti alla tua camera.
Non c’era più niente. Non c’eri più tu.

È in quel momento che ho realizzato che te ne sei andata, che mi hai abbandonato. Ho iniziato a sentire dentro di me un vuoto incolmabile. Un vuoto che fa male. Il dolore si è localizzato nel petto. Una fitta che mi ha tolto il fiato. È passato allo stomaco. Credo che le mie interiora si siano attorcigliate tutto d’un tratto. E poi… poi semplicemente si è diffuso a tutto il corpo. E sono rimasta immobile, davanti a quella porta, stretta in una morsa, fino a quando non mi sono abituata a quel dolore.

Ed è esplosa la rabbia. Violenta. Improvvisa. Inaspettata.

Mi si è avvicinata un’infermiera, che mi ha guardato con una tale pena negli occhi da farmi vergognare. E ho iniziato a urlare. Ho chiesto di essere lasciata in pace, in fondo ero solo passata a vedere se avevo dimenticato qualcosa la sera prima. Ma che mondo è questo? Siamo state un mese in quella stanza e adesso che sei morta non mi ci fanno neanche avvicinare? È una vergogna. E me ne vado. Salgo in macchina e inizio a correre, senza sapere dove andare, smarrita.
Sono arrabbiata. Arrabbiata con l’ospedale che ha già riempito la tua stanza. Arrabbiata con me stessa per essere venuta lì, convinta di trovarti. Arrabbiata con tutto il resto del mondo, che continua ad andare avanti come se nulla fosse successo. Mi guardo intorno e vedo la gente ridere, sbuffare, parlare al telefono. E tutto questo mi fa arrabbiare ancora di più. Sono talmente arrabbiata che stringo il volante fino a farmi male alle mani. Sono talmente arrabbiata che non so neanche quello che sto facendo o dove io sia.

Sono talmente arrabbiata che penso di odiarti.

Come hai potuto? Perché sei stata così egoista da lasciarmi? Mi hai abbandonata. Qui. Immobile. Sospesa. Non mi hai spiegato come fare ad andare avanti. Non mi hai spiegato come affrontare tutto questo. Non mi hai neanche aspettato per andartene. Lo hai fatto quando io non c’ero. E non me lo perdonerò mai. Perché mi hai fatto questo? Perché non sei andata prima dal medico? Perché hai voluto fare tutto da sola?

Sono arrabbiata. E sono arrabbiata proprio con te. Ma la verità è che la rabbia non mi impedisce di amarti e di sentirmi meno sola.

Passo 3: la negoziazione
È passato un mese. La rabbia è stata la mia compagna quotidiana. Ho mangiato rabbia. Respirato rabbia. Vomitato rabbia. La rabbia ha assorbito e bruciato tutte le energie che avevo. Ho provato a seminarla. Ho cercato di reagire alla sensazione di impotenza che provavo. Ho cercato delle risposte. Ho cercato giustificazioni. Mi sono detta che non eri più tu. Mi sono detta che è stato un bene. Per te, che non avresti più sofferto. Per me, che non ti avrei più vista soffrire, che avrei potuto riprendere il lavoro, che avrei potuto riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata quando avevo capito che non ci sarebbe stato più molto tempo per noi. Mi sono detta che qualcosa dopo la morte ci deve pur essere. Mi sono detta che mi saresti stata sempre vicino. Mi sono detta tante cose e mi sono arrabbiata tante volte. Ho fatto tutto questo per avere uno scudo dal dolore. E forse è vero, con lo scudo della rabbia e delle giustificazioni si soffre in modo diverso, ma si soffre lo stesso. E la cosa più difficile è dire a me stessa che tu non tornerai più. Che l’ultimo abbraccio è stato veramente l’ultimo. Che l’ultima risata è stata veramente l’ultima volta in cui ti ho visto sorridere, l’ultima volta che ne ho sentito il suono.

Ma tu non tornerai più.

Questa è la realtà.

Passo 4: la depressione
Ed è arrivato il momento in cui ho ammesso che eri morta. Che non potevo farci niente. Che non potevo scappare da quella che era la realtà. E sono caduta. Nella disperazione. Nella depressione. Non mi sono alzata dal letto per una settimana. Non mi sono lavata. Non ho mai aperto le finestre per guardare se pioveva o se fuori c’era il sole. Ho pianto e dormito. E ho pianto ancora. Ho digiunato. E poi ho mangiato chili di biscotti, gelato, patatine. Anche in quest’ordine. E ho annusato i miei cattivi odori. Non ho mai acceso il telefono o risposto al citofono. E quando mi è sembrato di non soffrire abbastanza ho spruzzato il tuo profumo sul cuscino. E ho ricominciato a piangere. Fino a quando non ho iniziato ad alzarmi e a fare qualche passo, prima incerto, poi più deciso.

Passo 5: l’accettazione
E sono sopravvissuta. Pensavo che non ce l’avrei fatta. Pensavo che non sarei mai più uscita da quel letto. Pensavo che non sarei riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ho avuto paura di vivere e ho sperato di morire, per non provare più niente. Ma non sono morta, sono viva. E sono in piedi. Un po’ azzoppata forse. Ma in piedi. Ho affrontato tutto il dolore che avevo, non sono scappata.
Ho negato la tua morte, mi sono arrabbiata, ho cercato delle spiegazioni, mi sono abbandonata al dolore e adesso sono qui, ad accettare tutto questo. Anche se non mi piace. Ho accettato di dirti addio. Ho accettato il vuoto che mi hai lasciato. E ho accettato di dover riprendere la mia vita.

Soffro meno?

No. Il dolore ancora mi accompagna silenzioso. E a volte, quando mi distraggo, mi colpisce. Una canzone, un profumo, un luogo: un ricordo. E mi devasta. Ma poi si ritira. Per poi ritornare. Ma lo so, le ondate saranno sempre meno frequenti, sempre meno violente, fino a quando la cicatrice nel mio cuore si rimarginerà del tutto e pensarti non mi farà più così male.

Quanto ci può mettere un cuore a guarire? Un tempo “giusto” non c’è, ci sono “solo” cinque passi [₁].. il tempo dipende da quanto ci impieghiamo a mettere un piede davanti all’altro. È come imparare di nuovo a camminare. È come imparare di nuovo a vivere.

[₁]ELISABETH KÜBLER ROSS. Sulla morte e sul morire, 1969.

Giordana De Anna

[Immagini tratte da Google Immagini]

Due ali controvento

Si ricordava la prima volta che l’aveva vista, paonazza ancora per lo sforzo di venire al mondo, un viso rotondo, due occhi azzurri e quella macchia di capelli biondi, quasi bianchi.

Se ne era innamorata subito.

Anzi, no. Se ne era innamorata ancora prima.

Aveva iniziato a innamorarsene quando la sua mamma le aveva detto che avrebbe avuto un altro bambino, oltre a lei, e che questo bambino le avrebbe fatto il regalo di non sentirsi mai sola nella vita.

Se ne era innamorata un po’ di più quando le dissero che sarebbe stata femmina. A quel punto si era proprio sciolta. Finalmente qualcuno come lei. Finalmente qualcuno che la potesse capire. Finalmente qualcuno con cui avrebbe potuto giocare giorno e notte, qualcuno con cui avrebbe potuto cospirare quando i genitori le negavano qualcosa, qualcuno con cui piangere e ridere e litigare.

Sarebbero state semplicemente loro due.

Contro il mondo, contro tutti, controvento.

E aveva iniziato a fare lunghi discorsi con quella pancia che cresceva a vista d’occhio ma sempre troppo lentamente per lei che non vedeva l’ora che nascesse. Parlava tanto con quell’esserino dentro a quel pancione; parlava tanto, lei, che una gran chiacchierona proprio non era. Ma si era definitivamente innamorata quando l’aveva vista. E ancor di più quando l’aveva potuta toccare.

L’amore vero è cresciuto con gli anni. Prendendola per mano e difendendola quando poteva. Giocando e litigando giorno dopo giorno. Piangendo e ridendo insieme. Consolandola e facendosi consolare. Ascoltandola per ore e ore e facendole ascoltare i suoi silenzi. Parlando a lungo, regolarmente, con la naturalezza che porta l’essere cresciuti insieme; e magari parlare di niente, perché tanto si sapeva già tutto, senza mai lasciarsi ingannare dalle piccole bugie dell’altra e riuscendo a riconoscerne, come per istinto, i veri sentimenti. Criticandosi, senza mai offendersi. Combattendo insieme nelle battaglie quotidiane. Intessendo i fili della loro esistenza.

E sono cresciute, mano nella mano, a volte più vicine, a volte più lontane, indissolubilmente legate. Sempre e comunque loro due, nonostante tutto, contro il mondo, contro tutti, controvento.

Si ricordava la prima volta che l’aveva vista. Guardandola ora stenterebbe a riconoscerla. Capelli rossi, viso tutt’altro che rotondo e occhi color nocciola che al sole assumono una sfumatura ambrata, quasi felini, in contrasto con la sua dolcezza. Da bambina chiacchierona a ragazzina timida a donna ironica e sagace. La credeva delicata ed era una roccia. Si ritrova a fianco una vera e propria Donna, di quelle con la D maiuscola. Quello che non è cambiato è che ancora oggi a guardarla se ne innamora. Sempre un po’ di più.

Quello che le aveva detto sua madre era vero: aveva trovato una compagna per la vita, per camminare insieme, semplicemente loro due, contro il mondo, contro tutti, controvento per affrontare le burrasche della vita, certe che ognuna sarebbe stata il punto fermo dell’altra.

Giordana De Anna

[immagine tratta da Google Immagini]

Sei mio, nonostante tu non ci sia più

“Dicono che scrivere sia utile per esorcizzare i propri fantasmi…io ho sempre visto la scrittura come l’unico strumento in grado di darmi la forza di affrontare la realtà degli accadimenti della mia vita.

E tu sei la mia realtà inaccettata, per me inaccettabile ieri, oggi e, se nemmeno scriverti ciò mi aiuterà, anche domani.

Mi sono sempre auto-proclamata difensore delle libertà personali inalienabili, ma a te posso confidare che non è vero: sono stata l’ennesima ragazzina che, spaventata e soggiogata, ha ceduto e ha perso.

Perso. Perso si, ma cosa? Perché non credo che nessuno, tranne noi, potesse immaginare quale legame si fosse creato, non dal giorno del test, ma appena l’ho percepito, l’istante dopo io, in cuor mio, sapevo che c’eri, eri li, mio.

E io adesso ti devo una spiegazione, un qualcosa che sappia anche solo vagamente spiegare i perché di tutto ciò, della tua assenza oggi, del tuo non essere più mio.

Ci si fida ciecamente di chi chiamiamo “mamma”, anche se tu non potrai mai conoscere questa sensazione di infinita protezione che si prova accoccolati tra le braccia di chi ti ha dato la vita…e non sai quando vorrei che tu potessi sentirla pervaderti ogni istante tu lo voglia, tu ne abbia bisogno…beh io della mia genitrice mi fidavo, lei era ciò che di più reale avessi, il mio faro nella notte.

Quella notte fu la più buia, malgrado le lucciole illuminassero il sentiero del percorso.
Lei non comprese, lei fu la ragione per cui io non mi misi ad urlare, la ragione per cui non feci sentire né la mia né la tua dolce voce. Lei mi coprì gli occhi, così dovetti farmi guidare senza possibilità di scegliere da sola. E, forse, per me è stato bene così, in parte.

Potevo incolpare altri per il nostro distacco, senza assumermene le colpe…”è piccola, la sua vita sarebbe rovinata”…ero piccola solo quando lo volevo io, altrimenti mi giudicavo abbastanza grande per sbagliare, per scivolare…ma poi urlavo, finché qualcuno non accorreva al mio capezzale.

I mesi insieme sono stati i più gratificanti, belli, motivanti che io abbia mai avuto l’onore di vivere.

Averti, portarti con me è stata la gioia più grande che mai mi investirà, perché neanche chi verrà dopo potrà prendere il tuo posto dentro di me…e questa è una promessa che io faccio a te, mio piccolo amore.

Mio. Tu. Lui. Non mi ha mai sorvolata il pensiero di una lei, come se già ti vedessi stringermi la mano, guardarmi per dirmi con gli occhi che hai bisogno di me.

La sera prima avevo pianificato di non presentarmi, con la tua foto stretta al petto, la mia mano a cullarti i sonni, non volevo andare…ma lei, non accorse al mio capezzale, mi gettò tra i leoni, CI gettò tra i leoni.

Non ebbi la più remota via di fuga…non ebbi nemmeno il coraggio di salutarti…sono una codarda, ancora oggi rifuggo la tua essenza, quasi la sentissi librarsi nell’aria che respiro…oggi abbasso lo sguardo, schifata dalla mia codardia e dal sacrificio che tu sei diventato per dare a me la possibilità di crescere senza conseguenze.

5 anni dal giorno in cui saresti diventato la mia realtà, il mio per sempre. 5 anni.

Io ti sento, in casa, nel lettone. Lungo la strada per casa cammiamo insieme, ti percepisco durante la pioggia leggera in primavera, quella profumata…tu corri in giardino e io ti osservo mirando il capolavoro che sei.

Per me sei, non saresti, tu sei.

Sei la motivazione per cui cercherò di aver una vita piena, perché io possa essere il tuo canale per raggiungere la vita, farò si che che la mia esistenza sia un elogio a te e non potrei mai contemplare la mediocrità per te.

Sederemo sempre accanto, perché quello che fa una mamma è garantire alla propria creatura sempre un posto protetto accanto a sè, per far si che il male non lo tocchi.

E io mi sento mamma, non da 5 anni, ma da quando ti ho sentito.
Io sono mamma, perché tu per me non sei mai stato un accumulo di cellule, tu sei il mio bambino.
Io sarò sempre mamma, perché vivrò in tua memoria qualsiasi cosa accada.
Ero, sono e sarò mamma anche se me ne è stata tolta la possibilità tangibile. Io porterò la tua intangibilità nel mondo, ad ogni mio passo se ne affiancherà un altro.

Saremo noi.”

La violenza ha mille sfaccettature, è perpetuata attraverso mille forme, da milioni di persone che celano la loro crudeltà dietro una maschera di buonismo e ipocrisie.
La costrizione e il soggiogamento non possono essere contemplate come gesti d’amore, in nessun caso, per nessuna ragione credano d’aver gli individui che li manifestano.

Sono sempre stata contro l’aborto, non chiedetemi perché, non essendo credente o simili, ma sono sempre stata contro. Per la prima volta in vita mia, ho compreso come un gesto tanto forte  possa essere più doloroso per chi resta, che per chi non c’è mai stato…e non per propria volontà.

Non essere vittime significa anche poter scegliere. Essere vittime prescinde dalle violenze di un uomo. Si può essere vittime in milioni di modi, è come guardare la realtà col caleidoscopio…troppe versioni di un’unica immagine.

#IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

[Immagini tratte da Google immagini]

Ma che te posti.

Saranno ancora i residui del paracetamolo, ma stamattina mi sono svegliata con in mente una serie di parole in rima che manco Valerio Scanu nei suoi momenti apicali di creatività: moglie, doglie, figli, voglie, bottiglie.

Moglie. Vero è che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
Però. Però. Però. Se ve la siete sposati voi e non noi un motivo ci sarà. E non è sempre perché siamo arrivati tardi noi.
C’è una categoria di donne orripilanti le cui foto sono accompagnate sui social da frasi del tipo “che splendida mogliettina“, o ciò che è lo stesso “che maritino fortunato”. Poi c’è un’altra categoria. Quelli che hanno le mogli effettivamente fighe. Ma comunque non si regolano. Perché come a mare ci sarà sempre chi avrà la barca più grande della tua (che poesia eh?), così, per quanto tua moglie sia bella, arriverà sempre una foto di Belen struccata a prima mattina con i capelli arruffati e la bolla al naso che con il suo milione di like spazzerà in un “ Vuongiorno a tutti amiccci miei, ve amo” i 57 like accumulati con tanta dedizione ed attenzione dal vostro splendido maritino che avrà postato una foto  di “mia moglie a colazione” spacciata per naturale ma che nella realtà avrà avuto un backstage, trucco, parrucco, mix luci da calediario Pirelli. Alcuni poi giocano sull’ironia. Un’ironia da cui non ci vuole un corso avanzato di psicoterapia comportamentale post-razionalista per capire che è solo un modo per ostentare un trofeo, nascondendosi dietro battute o foto con il finto intento di essere buffe. Perché mia moglie è talmente bella che sulla sua bellezza ci gioca.

Doglie. Maronna mia. Mannaggia a Carla Bruni, a Belen e a tutte le gravide che hanno avuto la brillante idea di farsi ritrarre con il pancione senza immaginare dove saremmo andati a finire. E qui ritorniamo nel non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. E quindi mi ritrovo stretta tra il dirvi che così come non è vero che tutti i neonati sono belli, così non tutte le donne gravide sono belle. E quelle belle sono comunque  lontane anni luce dall’essere top model anni 90. E poi, ma porca miseria, è di un embrione/ feto che state parlando, non di una tazza di Starbucks.

Figli. Figli geni, figli che a 3 mesi già parlano tre lingue, figli che a 6 mesi si travestono da Frozen da soli e che da soli si fanno selfie perfetti che postano in contemporanea su facebook, twitter, instagram, figli che quando avranno 18 anni chiederanno, spero, dei risarcimenti consistenti per violazione della privacy.

Voglie. Ecco, questa è la categoria in cui rientrano i contatti che o ho cancellato definitivamente oppure ho zittito con quella nuova fantastica funzione del “taci”. Le frasi sono “Ho voglia di gelato”, “Che voglia di sushi”, “Ho proprio voglia di una bella lasagna”, il tutto immerso in faccine, cuoricini, trionfo di vocali, oooo, aaaa, iiiii, dittonghi. Sull‘ “Ho voglia di te” , che pure insiste, persiste e lotta con noi, non vorrei soffermarmi. Ma volevo comunicarvi soltanto che c’è gente che lo scrive ancora.

E infine: bottiglie. Bottiglie di vino da 2 euro fotografate con la stessa attenzione con cui è stata creata l’ultima campagna della Moet et Chandon. O Moet et Chandon con frasi del tipo “Noi ci trattiamo bene”. Ma che davero davero pensate che un flute, magari vuoto, possa creare invidia? E se lo pensate, la psicoanalisi costa 80 euro per 45 minuti, 120 per 90. Provatela.

Aggiungerei poi una categoria fuori concorso. Quella delle ricorrenze possibilmente tristi.
Soprassedendo sulla moria di cantanti del 2015, l’ultima triste ricorrenza celebrata sui social è stata la giornata della memoria. Ho letto degli status che a confronto il canale monotematico di Sky che trasmetteva solo film riguardanti l’Olocausto era una operazione puramente filantropica. E su questo il mio onnipresente sarcasmo lascia spazio ad un sincero fastidio. Se non sapete di cosa state parlando, non ne parlate. Se dovete scrivere “Ricordate e riflettete” pubblicando “Life is beautiful” di Noa perché è una cosa che deve essere fatta, non fatelo. E non perché non ci debba essere sempre e comunque libertà di parola. Ma perché siete falsi. Spesso anche ridicoli. E perché chi, per un motivo o per un altro sa perfettamente di cosa si sta parlando, non si sente “ricordato” da voi. Ma si sente intristito da quanta superficialità e quanto per un like in più ci si possa mettere a scrivere cose di cui non si sa nulla. Che in questo caso, sono pezzi di vita, di morte, di sopravvivenza.

Meditate gente, meditate. (Ma non ci postate la vostra foto nella posizione del loto, vi crediamo sulla fiducia).

Con Facebook si scherza, ma anche no. E’ quello che volete far vedere di essere. E’ quello che sperate di essere. Ma non è quello che siete. O almeno, lo spero per voi.

Siete delle persone. Normali. Anormali. Ordinarie. Straodinarie. Ma non siete perfetti. Godetevi le vostre imperfezioni. Non photoshoppate la vostra vita. E soprattutto godetevi la vostra vita. Non il vostro tablet.

Quanti pochi like avrà questo post. Perché la verità infastidisce.

Donatella Di Lieto

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