Van Gogh: cosa significa essere Vincent?

La vita di Vincent Van Gogh, per come la conosciamo, è intrisa di sregolatezze e fragilità: ci basta pensare alla sua nomea di maudit, artista pazzo e depresso che è arrivato a tagliarsi un orecchio per la disperazione. Il tormento che riempie la sua esistenza è indubbio, ma a cosa è dovuto? O meglio, possiamo tentare a cercarne una radice nel nome che gli ha dato la madre, Vincent? Massimo Recalcati, in Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, ci spiega come la scelta della madre del nome Vincent sia la radice su cui poggia l’animo melanconico dell’artista.

A cosa può essere dovuto questo? Vincent, in effetti, è il nome di un altro poiché Vincent Van Gogh nacque il 30 marzo 1853, giorno apparentemente uguale a tutti gli altri per noi, ma non per la sua famiglia: esattamente il 30 marzo 1852 sua madre vide morire il suo primo figlio maschio, Vincent Van Gogh. Recalcati ci porta a riflettere sulla decisione di Anna, la madre dei due Vincent, di dare al secondo figlio il nome del figlio perduto: con questa decisione lei potrebbe non aver particolarizzato l’esistenza del pittore, ma averla intesa come sostituzione del primo figlio, scegliendo così la via definita da Recalcati come la via più breve per superare lo scoglio di questo lutto impossibile da simbolizzare.

Queste coincidenze attirano indubbiamente lo psicanalista che considera il nome come prima tappa di umanizzazione della vita e atto con cui il genitore dà il diritto di esistere al figlio nella particolarità della sua esistenza. Nel caso di Van Gogh, il nome è alienante, se consideriamo questa interpretazione, poiché lui è inchiodato nella sostituzione del fratello morto. Jacques Lacan insegna che la scelta del nome è la prima manifestazione dell’incidenza del desiderio dell’Altro sulla vita di un soggetto e, per questo, in questa scelta sembra cristallizzarsi un frammento di destino. Il destino di Van Gogh parrebbe essere quello di esistere solo in quanto sostituto del fratello, destino suggellato dal giorno della sua nascita. Questo è il campo di iscrizione, o potremmo dire non iscrizione, di Van Gogh nell’Altro: la sua vita, con queste considerazioni, è desiderata in quanto rende possibile la vita di qualcun altro e, dunque, il suo nome non potrà mai indicare desiderio di vita, anelito di gioia, ma solamente desiderio di rimozione del passato.

Ecco, l’esistenza del pittore consolida l’imago di una ferita narcisistica mai cicatrizzata, a causa del persistere dell’imago idealizzata del primo Vincent. Se riteniamo che Vincent abbia sentito la scelta del suo nome come atto egoistico della madre, potremmo ipotizzare che il suo nome sia la radice della melanconia originaria che persisterà nell’animo del pittore per tutta la vita e che sarà sua musa nella creazione artistica. L’identificazione di tipo melanconico, che Vincent vive in prima persona e che è in atto, sarebbe prodotta dall’identificazione costituente, come la definisce Lacan, che si regge sul perduto, sul morto, e, dunque, sull’ideale ancor più del vivo, sulla perfezione idealizzata. E, forse, Vincent percepiva proprio così la sua esistenza.

La malinconia potrebbe poggiare su questa sua colpa, la colpa, semplicemente, di esistere. In questa cornice, poco chiara ma emotivamente provante per il pittore, Van Gogh si dedicherà all’arte non per affermare il proprio nome e la propria esistenza, bensì per eclissarsi in nome della forza della pittura che trascende il nome del singolo per rivolgersi all’assoluto, a Dio. Nell’arte di Van Gogh permane sempre qualcosa di infinito. L’arte non ha potuto salvarlo dal suo destino sofferente, cristallizzato nel suo nome oppure no, ma lui persisterà nella sua ricerca ariostesca di una qualche serenità: mangerà pittura gialla, colore simbolo della felicità, per trattenerla in sé, atto che rivela le sue vane illusioni. I suoi tentativi inconsistenti continueranno finché l’eclissi della sua esistenza non diventerà totalizzante. E il pittore stesso lo sa, infatti, afferma: «Che cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di fare tentativi?»

 

Andreea Elena Gabara

 

[Immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia

 

L’importanza di essere malinconici

È da tempo che provo a dare un senso alla mia malinconia. Eppure, negli anni, ogni tentativo di spiegarmi l’origine di questo filtro nero che si frappone tra me e la realtà non ha fatto che aumentare il mio bisogno di sapere. E se la malinconia, quest’indole che da un momento all’altro può sfociare nella patologia (depressione), non fosse altro che l’effetto di questo pensiero ingrovigliato sul mio essere? Un luogo comune che come tutti i luoghi comuni conserva in sé qualcosa di vero e indimostrabile. Per questo, nonostante tutto, Flaubert – uno che di luoghi comuni si intendeva – si domandava se pensare e soffrire fossero la stessa cosa. Più si riflette e si abbraccia la condizione umana, più il dolore si fa largo nei pensieri e nelle membra. Ma è la malinconia che ci spinge a sapere o è il sapere che ci rende malinconici? Impossibile rispondere. È pero possibile affondare lo sguardo nelle profondità della malinconia, spiandone i movimenti, scordandosi però di poter arrivare a un racconto universale e scientifico (clinico) delle sue innumerevoli manifestazioni. Una fenomenologia dai labili confini, dunque, e che si serve di immagini che hanno il merito di suggerire – non definire – sensazioni confuse, ma tra le più seducenti. Si potrà così viaggiare, con l’aiuto del linguaggio poetico e della lucidità filosofica, tra febbri, battaglie, cadute, lutti, deserti, nostalgie. Come fa la malinconia a partorire così tante metafore, spronandoci a superare il linguaggio comune per approdare a lidi nascosti della nostra interiorità, i quali, accarezzati dalle sue visioni, sentono ora la necessità di esprimersi? È ancora quel connubio tra pensare e soffrire a venirci incontro: la malinconia ci accompagna a visitare gli abissi del nostro essere, in un processo di conoscenza graduale (di noi stessi e del mondo) nel quale ci scopriamo lucidi, e così nudi di fronte al mondo per noi doloroso. Pensiamo e soffriamo. Soffriamo e pensiamo. Ma non basta. In questo processo a crescere e imporsi in noi è il bisogno di senso. Pensare, conoscere, sapere, e il loro tingersi di malinconia; oppure la malinconia nell’aprire brecce di lucidità nell’esistenza; accumulano significati. Significati che vanno narrati per ristabilire l’equilibrio – o crearne uno – della vita ferita. Ecco l’arte, il racconto di significati attraverso linguaggi simbolici, e con essa l’arte di soffrire, la malinconia che si esprime, che impara a farlo. Con essa crescono i significati, trovando canali di espressione, in un viaggio che risponde alla necessità di dirsi per trovare un senso alla sofferenza, o più semplicemente alla vita, che nella sofferenza mostra le radici. Difficilmente, però, si troverà conforto in una risposta. Il senso latita; è la ricerca del senso a dar fiato ai giorni. E quanta bellezza, nel corso della storia, ci hanno regalato le malinconie degli uomini! A partire da quel connubio tra genio e malinconia ipotizzato da Aristotele (o da un suo allievo) per spiegare l’eccezionale creatività di alcuni esseri umani – eroi e sapienti –, in seguito riproposto in altre forme nel Rinascimento e poi dai Romantici, fino all’esplosione novecentesca dell’io, foriera di forme d’arte mai viste e sentite prima.

Certo, non è solo bellezza. È anche tenebra, abisso, pulsione di morte. La malinconia e quello che in essa può scatenarsi (ansia, angoscia, noia, mania) fino alla depressione – la sua forma più attanagliante, che spesso seda qualsiasi impulso vitale – è pericolosa, cioè viva. In essa convivono gli opposti, luce e ombra, vita e morte, come in ogni sentimento autenticamente vitale. Ed è proprio dall’ombra che sgorga la luce, non c’è bisogno di ricordarlo. O forse sì, considerato il tempo in cui viviamo, anestetizzato dalla ricerca frenetica del divertimento, un modo per non pensare a noi stessi, ma di consumarci interiormente, consumati dalla macchina capitalistica i cui occhi hanno il simbolo del dollaro. Ci dobbiamo distrarre, siamo spinti a farlo, per non soffermare lo sguardo sulle catene luccicanti che ci stringono mani e pieni. Eccolo il paradosso: nel mascherare la malinconia, propensione profondamente umana che ha a che fare con la costruzione dell’identità e con la ricerca del senso, il sistema sociale (ormai mondiale) – e quindi noi stessi, volontariamente asserviti a esso – instilla in tutti noi i germi di una malinconia ancor più profonda che non vogliamo ammettere. La repressione della pericolosità dei sentimenti più vitali ci ha reso apparentemente più “felici”, ovvero distanti dalla vivida sofferenza, ma al contempo più sterili, incapaci di creare e vedere bellezza (il “bello” sarà quello che ci dicono essere bello). In sostanza depressi, di quella forma di depressione che si insinua nell’autoinganno del benessere (prettamente materiale). Ma cosa sono ansia, angoscia, preoccupazione, precarietà, paura, incertezza, frustrazione indotte dalla nostra società della prestazione e dell’efficienza, se non una forma profonda di depressione che coviamo in noi senza accorgercene? Schiacciati da un pensiero unico che ci vuole col sorriso, sempre pronti e reattivi, e instupiditi dai media digitali – la vera droga del nostro tempo – andiamo incontro alla schiavitù della mediocrità (vivere senza sapere, senza senso), perdendoci tutto di noi, l’occasione irripetibile di conoscerci ed esprimerci. Siamo la benzina di un sistema livellatore, che non ha occhi per le persone, ma solo per lo sfruttamento dei loro bisogni. Ipocritamente, non si mette in discussione, non ha alcuna intenzione di limitarsi: la gente è depressa? diamogli i farmaci, inventiamone sempre nuovi e sempre più potenti cosicché possa distrarsi di un malessere che nasce da uno stile di vita imposto ovunque – un dolore assurdo, inspiegabile, insensato perché disumano. La malinconia è un’altra cosa, non ha niente a che fare con la schiavitù, è libera conformazione dei nostri desideri, ci fa soffrire perché ci consente di vivere – le giornate che molti conducono oggi tra lavoro, traffico e social network sono solo un surrogato della vita – permettendoci, nel conoscerci, di crearci, forgiando così la nostra identità, scoprendo la bellezza che si cela in tutti noi sotto il velo del dolore di essere al mondo. E dunque riprendiamoci la nostra malinconia, riconquistiamo il diritto di avere il tempo e lo spazio per “pensare e soffrire”. Per essere vivi.

Non dobbiamo crogiolarci nella sofferenza, e nemmeno invocarla. Ma si soffre, la vita non sarebbe vita altrimenti. Impariamo a soffrire, a farne un’arte, senza soffocare ciò che di più profondo esiste in noi e cerca di parlarci, nel tentativo di essere noi fino in fondo, e non lo specchio di un mondo che non vede l’ora di finire per lasciare il posto a qualcun altro.   

 

Stefano Scrima

 

Scrittore, musicista e filosofo, sulla malinconia ha recentemente scritto L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa 2018). Il suo lavoro si concentra sull’applicazione della filosofia alla vita quotidiana, nel tentativo di analizzare la società in cui viviamo mettendone in luce le contraddizioni e creando spazi di confronto. Riflettere sulla malinconia, creatrice di bellezza, in un mondo depresso dal culto del mercato, diventa in questo senso un’urgenza. Così come lo è porre un argine all’amplificazione di odio e ignoranza sui social network, di cui si tratta in Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (Castelvecchi editore 2018), o ripensare i dogmi della contemporaneità come il lavoro e l’efficienza, spesso alibi del non-pensiero, attraverso una rivalutazione della pigrizia, tema affrontato in Oziosofia (Diogene Multimedia 2017) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (il melangolo 2017).

 

[Photo credits unsplash.com]

Una parola per voi: focolare. Dicembre 2018

La parola per voi scelta per questo mese di dicembre è “focolare”. Lo stato d’animo attorno al quale ruoteranno i libri, le opere d’arte, i film e le canzoni selezionati per voi, è tratto da una celebre poesia di Giuseppe Ungaretti intitolata “Natale”.


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

Ungaretti scrisse questa poesia durante il periodo natalizio del 1916, mentre trascorreva la sua licenza di guerra presso un suo caro amico a Napoli. Sorvolando lo stato d’animo malinconico del poeta, che non ha né voglia né forza di festeggiare il Natale col sorriso sulle labbra dopo aver vissuto le atrocità della guerra, approfondiremo le ultime due strofe, in particolare la parola “focolare” che chiude la poesia: «Qui/non si sente/altro/che il caldo buono/Sto/con le quattro/capriole/di fumo/del focolare». Questo, per molti di noi, è il vero significato del Natale, ciò che dà un senso a questa festività in origine pagana, diventata poi la “regina” delle festività cristiane. Per quanto la vita possa risultare amara, in quella che riconosciamo come “casa” (che sia la nostra, quella della nostra famiglia d’origine, quella d’un parente o d’un amico) percepiamo un “calore buono”, benevolo, rassicurante, capace di lenire le nostre ferite e fornirci una tregua. Ci troviamo attorno a un focolare (anche metaforico) che emana un fumo allegro, speziato, profumato di gioie, amore e affetto, un fumo che il poeta descrive con quelle parole, “quattro capriole”, per indicarci che purtroppo, come la vita, come ogni felicità, è qualcosa di effimero, destinato a passare. Ma adesso quel calore pregno di buoni sentimenti e speranze è qui, lo possiamo tenere stretto a noi, interiorizzarlo nella nostra anima, farci cullare da esso, in questo nuovo Natale alle porte.

Ecco la nostra selezione, in linea con la parola del mese:

 

UN LIBRO

paula-chiave-di-sophiaPaula  Isabel Allende

L’ambientazione è diversa dal classico quadretto familiare i cui membri siedono dinanzi ad un camino ascoltando le storie dei vecchi. L’ospedale in cui Paula viene ricoverata per una grave malattia è il capezzale dove la madre Isabel si reca creando magicamente un focolare intimo, fatto di storie di dolore, esilaranti e di speranza. Un fuoco narrativo a cui Isabel dà origine per distrarre la morte, per allontanarla un poco dal profondo stato di coma in cui versa Paula. Un fuoco evocatore della sua intera famiglia affinché circondi Paula e l’aiuti a non perdersi lungo il confine della vita.

UN LIBRO JUNIOR

il caso del dolce di natale chiave di sophiaIl caso del dolce di natale (e altre storie) – Agatha Christie

Prendete un investigatore. Aggiungete un Natale in campagna. Metteteci un principe e un rubino rubato. Glassate con un gioco all’omicidio, e servite fumante. Cosa convincerà Poirot a lasciare il solitario, ma comodo, caminetto (a gas!) di casa, per indagare anche a Natale? Riuscirà a risolvere il caso, e soprattutto: capirà qual è il vero spirito del Natale? Una raccolta di sei imprevedibili racconti, frutto di una penna geniale che, dietro la semplicità stilistica, nasconde cura dei dettagli e volontà di stupire: una miscela perfetta di suspence e linearità. Adatto dai 12 anni in su.

UN FILM

il-cacciatore-chiave-di-sophiaIl cacciatore  Michael Cimino

Il Cacciatore è considerato uno dei capolavori del genere cinematografico di guerra, seppur ne parli poco. Come Ungaretti si trova di fronte a contrasto emotivo, rappresentato dalla condizione abietta dei ricordi di guerra in contemporanea all’arrivo del Natale, così nel film i protagonisti appena rientrati dal Vietnam si presentano deboli e speranzosi di poter ritrovare un loro proprio equilibrio. Focolare non è solo casa e famiglia, ma anche comunità. Una comunità che deve essere in grado di favorire la ricerca del proprio posto nel mondo. Purtroppo, non tutti i protagonisti del film riescono a trovare il loro, tant’è vero che alcuni perderanno se stessi. Per Ungaretti la soluzione furono le quattro capriole di fumo; in questo film invece è l’amicizia.

UNA CANZONE

chiave-di-sophia-tiromancinoImmagini che lasciano il segno  Tiromancino

Se la parola “focolare” rimanda all’insieme di relazioni ed affetti che compongono quella che riconosciamo come “casa” (ovunque essa sia e in qualsiasi forma essa si proponga), questa canzone del 2014 può fare da sottofondo a un momento di scambio e condivisione tra genitori e figli. Scritta e interpretata da Federico Zampaglione, la canzone è una dedica alla figlia Linda, diventata “la ragione che lo muove, l’essenza della sua esistenza, la sua motivazione”. Una canzone dalla sonorità sempre fresca, che propone agli ascoltatori una piacevole presa di coscienza da parte del cantante riguardo l’importanza che la figlia ha per la sua vita.

UN’OPERA D’ARTE

lecture de la bible chiave di sophia focolareLa lecture de la Bible – Jean-Baptiste Greuze (1755)

Il concetto di focolare viene sempre associato a situazioni e ambienti che riuniscono un gruppo intimo di persone in un contesto di calore materiale o figurato. Esso viene così a identificarsi come momento di condivisione e di unione, spesso inteso in ambito familiare. Quello che viene raffigurato nel dipinto dell’artista francese Greuze è proprio uno di questi momenti, vale a dire quello in cui il padre di famiglia, circondato da moglie e figli al completo, siede a un tavolo per leggere un passo della Bibbia. La scena, di efficace realismo, si svolge all’interno di una casa scarsamente arredata, dove la crudezza dei muri freddi sembra farla da padrona. Tuttavia il forte senso di calore, abilmente trasmesso dal pittore mediante l’uso di tonalità calde, emerge dallo stretto legame affettivo esistente tra i familiari: un legame sacro quanto le parole pronunciate dal pater familias chino sopra la sua Bibbia, verso il quale i volti attenti dei figli manifestano un senso di profondo rispetto.

 

Appuntamento al prossimo mese, con la prossima parola!

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, David Casagrande, Simone Pederzolli, Federica Bonisiol, Luca Sperandio

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Una parola per voi: malinconia. Ottobre 2018

A partire da questo mese i nostri Selezionati per voi – libri e film cambiano la loro veste. D’ora in avanti ogni mese sceglieremo per voi una parola: un’emozione o uno stato d’animo tipico del periodo che andremo a vivere, che vi presenteremo di volta in volta con una poesia o una citazione. Selezioneremo allora, come d’abitudine, libri, film, canzoni e opere d’arte legati alla parola del mese! Come vi sembra questa nostra proposta?

Si alzi il sipario e iniziamo con “malinconia”, parola introdotta dalla poesia Canzone d’autunno del poeta Paul Verlaine.

I singulti lunghi
dei violini
d’autunno
mi struggono il cuore
d’un languore
monotono.

Ah squallido
e smunto, quando
risuonan l’ore
io mi ricordo
dei giorni in fuga
e piango;

e vado errando
nel cupo vento
che mi trasporta
di qua, di là,
simile alla
foglia morta.

 

Fil rouge del mese è l’autunno e la sensazione di languore malinconico che ci fa ripiegare su noi stessi, lasciandoci sospesi fra una stagione nuova e una vecchia ormai conclusa, piena di ricordi. Veniamo trasportati dalle stagioni senza poter controllare lo scorrere del tempo (siamo sospinti di qua e di là come foglie morte), ma al contempo il mutare dei colori attorno a noi, le foglie che cadono, l’aria frizzante e le giornate più corte ci provocano nel cuore uno struggimento speciale e dolce – una sorta di dolore misto a piacere che temiamo ma ricerchiamo. Singhiozzi e violini: Verlaine richiama una musicalità che gli era familiare e crea una sconfinata voglia di rimembrare – magari di quand’eravamo bambini e la scuola ricominciava portando con sé doveri, novità e crescita.

 

UN LIBRO

chiave-di-sophia-parla-ricordoParla, ricordo – Vladimir Nabokov

Quell’andare errando a cui Voltaire dà voce nella sua Canzone d’autunno risuona tristemente nelle pagine, forse ormai perdute nel limbo della memoria, di Parla, ricordo di Nabokov. Questi insegue ovunque la sua Musa, la Nostalgia. Nostalgia per una patria perduta, per una lingua, per una vita rubata. Sopra ogni cosa la nostalgia di cui racconta è per una bellezza ormai perduta, imputabile alla crudele mano umana e all’azione erosiva del tempo che porta ad una sconsolata ed irrimediabile solitudine.

UN LIBRO JUNIOR

la-chiave-di-sophia-scrivilalaguerraScrivila, la guerra – Luigi Dal Cin, Simona Mulazzani

Un album illustrato con un lungo contenuto testuale, ideale per portare i bambini d’oggi indietro nel tempo, a quando la guerra faceva piangere e non dava da mangiare. Il piccolo protagonista tira fuori la sua guerra e la scrive nel taccuino nero che il papà gli ha regalato dopo essere tornato dal fronte. La guerra, infatti, non può rimanere dentro, altrimenti finisce per soffocarti. Un libro semplice e commovente, che lascia nei cuori una sana scia di malinconia, consigliato a tutti i piccoli lettori dai 6 ai 10 anni all’incirca.

UN FILM

chiave-di-sophia-frantzFrantz – François Ozon (2016)

Presentato in anteprima alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film di François Ozon è un omaggio al cinema dei classici, versione moderna di Broken Lullaby di Lubitsch, ispirato a sua volta alla pièce L’homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Nell’atmosfera elegante e rétro del primo dopoguerra, tra la Germania e la Francia del 1919, attraverso la sapiente scelta del bianco e nero per documentare il passato e evocare il grigiore di una vita in lutto, il thriller psicologico di morte e rinascita indaga il triangolo affettivo tra Anna, il defunto Frantz e Adrien, il poeta annientato dal ricordo, freudianamente sostituto dell’oggetto perduto. Frantz, leitmotiv di tutta la storia, è evanescenza pura, assenza così evidente da rendersi paradossalmente presenza protagonista e i versi della Chanson d’automne di Verlaine, che risuonano malinconici lungo la pellicola, rivelano la sua archetipica funzione rigeneratrice.

UNA CANZONE ITALIANA

chiave-di-sophia-ultimo-bacioL’ultimo bacio – Carmen Consoli

È una chitarra malinconica, accompagnata da archi leggeri, a raccontarci “l’eroico coraggio di un feroce addio”, la fine di un amore siglata da un bacio sotto la pioggia, momento di stacco tra la promessa di una vita in due e la realtà della solitudine che verrà. La ballata dal cuore gonfio di Carmen Consoli fa di “mille violini suonati dal vento” un eco di quelli cantati da Domenico Modugno in Piove e dei “violini d’autunno” di Verlaine, sottofondo musicale di un “per sempre” pieno di rimpianto e nostalgia, la certezza che ogni pioggia che verrà riporterà mente e cuore a quella che ha lavato via le lacrime dalle guance di due amanti separati-uniti dal loro ultimo bacio.

UNA CANZONE STRANIERA

the wall chiave di sophia pink floydComfortably Numb – Pink Floyd

Lampi del passato ad illuminare un oscuro presente. Ciò è quanto accade a Pink, la rockstar protagonista del pezzo Comfortably Numb della band inglese Pink Floyd – nonché dell’album The Wall (1979). Sulle note di uno dei migliori assoli di chitarra di David Gilmour, nei versi cantati da Roger Waters e dallo stesso Gilmour, la canzone racconta delle allucinazioni provocate al musicista dall’inoculazione del farmaco che avrebbe dovuto farlo uscire dall’abulia depressiva in cui è scivolato. In questi deliri, emerge l’immagine del passato, vagheggiato malinconicamente da Pink come porto sicuro al quale tornare dopo aver affrontato i marosi della sua vita da rockstar – ed essere naufragato in un’esistenza di eccessi, ridotto alla scoglio del guardare assente lo schermo di una tv in una camera d’albergo.

UN’OPERA D’ARTE

chiave-di-sophia-turner-fightingThe fighting Téméraire – William Turner

Le acque placide del Tamigi, una grande nave a vela della Marina inglese trascinata da un moderno rimorchiatore e un caldo tramonto che altro non rappresenta che l’inesorabile volgere al termine delle glorie di quella nave da guerra, reliquia della vittoriosa battaglia di Trafalgar ora dismessa e condotta lentamente alla demolizione. L’immagine è semplice e immediata. Parla di un passato glorioso che è definitivamente concluso, di un’età dell’oro che non tornerà, del destino di tutti e di tutte le cose, il quale, impietoso, conduce alla decadenza anche i più valorosi. La pietà resta solo negli occhi di chi, rimanendo, assiste con vena malinconica al tramonto di eroi le cui gesta soltanto sopravvivranno al logorante trascorrere del tempo.

 

Al prossimo mese, con la prossima parola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Rossella Farnese, Giacomo Mininni, Riccardo Coppola, Luca Sperandio

 

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“Call me by your name”: sulla bellezza malinconica dell’amore rimasto possibile

Prima di diventare un successo mondiale come film attraverso la raffinata regia di Luca Guadagnino, Call me by your name è un romanzo, scritto dallo statunitense André Aciman. Uno di quei romanzi che più che raccontare una storia dipinge un sentimento, che abbiamo provato tutti anche se forse ce lo siamo dimenticati. L’amore adolescenziale, con la sua violenza totalizzante e quel misto tra pulsante desiderio fisico e idealizzazione della persona amata. Quasi una divinizzazione che ci fa proiettare sull’altro la risposta a tutti i nostri dubbi e l’esaudirsi di ogni nostro desiderio.

È questo che prova il diciassettenne Elio per Oliver, giovane e affascinante dottorando americano, ospite per l’estate della famiglia di Elio. Quando infatti Oliver chiede al ragazzo “Ti piaccio così tanto?” Elio risponde candidamente “Se mi piaci, Oliver? Io ti adoro”.

E in questa adorazione anche avere ed essere si mescolano, il desiderio di possedere la persona amata si trasforma in quello di essere come lui. In quest’età confusa, in cui la nostra identità è più fragile e iniziamo a chiederci chi siamo e chi vorremo diventare, la persona amata diventa anche un modello:

«Volevo essere come lui? Volevo essere lui? O forse volevo solo averlo? Oppure essere e avere sono verbi del tutto inadeguati nell’intricata matassa del desiderio, per cui avere il corpo di qualcuno da toccare ed essere quel qualcuno che desideriamo toccare è la stessa cosa?».

Per questo Elio e Oliver si scambiano il proprio nome, come il titolo suggerisce. È un gioco erotico ma anche qualcosa di molto più profondo: uno scambio di identità, un annullamento della propria personalità per fondersi con l’altro, per superare i confini ontologici che ci dividono e diventare come lui, diventare lui, essere insieme una cosa sola.

Spesso con amore adolescenziale si intende un sentimento immaturo, una cotta estiva destinata a essere dimenticata. Aciman mostra invece tutto il potere di questo primo amore, inesperto ma forse per questo ancora più autentico, fondante perché è il primo della nostra vita. Crescendo Elio e Oliver prenderanno inevitabilmente strade diverse, ma non potranno mai dimenticarsi di quel momento in cui hanno annullato la propria identità per fondersi l’uno con l’altro. Quell’estate insieme rimarrà un momento di felicità totale, incastonato nel tempo e non diluito dalla quotidianità. Il simbolo di una felicità perfetta e struggentemente malinconica, perché rimasta nel regno del possibile che non si può tradurre in realtà:

«Questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta, avrei voluto dirgli. Quei due non possono disfarla, né riscriverla, né far finta di non averla vissuta, nemmeno riviverla; è lì, bloccata, come un’apparizione di lucciole in un campo d’estate verso sera, e continua a ripetere a ognuno di loro: Avresti potuto avere questo, invece. Ma tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso. Cercare di rimediare a tutte queste falsità è a sua volta falso».

 

Lorenzo Gineprini

 

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Libri selezionati per voi: novembre 2017!

Ecco a voi puntuale la nostra selezione di libri per i vostri momenti di tranquillità. Senza farlo apposta, i nostri autori hanno selezionato dei libri legati tra loro da un interessante fil rouge, che può essere ben espresso in una sola parola: il concetto di esistenza! Si saranno forse lasciati influenzare dalla malinconia delle foglie che cadono? Godetevi questo mese carico di colori autunnali, accompagnati dalla nostre proposte di lettura. Buon novembre!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

memorie-di-adriano-la-chiave-di-sophiaMemorie di Adriano – Marguerite Yourcenar

Dopo anni di correzioni e di bozze, il libro vede la luce nel 1940, quando l’autrice si è ormai trasferita negli Stati Uniti. Prende la forma di una lunga epistola, mai noiosa, che l’anziano e ormai malato imperatore, Adriano, indirizza al giovane Marco Aurelio, suo successore. Scorgendo il profilo della sua morte, egli riflette, con una profondità che ne caratterizzò l’intera esistenza, sulla sua vita pubblica e privata, esaminando i trionfi militari, l’amore per la musica, la poesia, la filosofia e, infine, la passione per il giovane schiavo di Bitinia, Antinoo, cui cercherà di consegnare l’immortalità in terra.

 

che-tu-sia-per-me-il-coltello-la-chiave-di-sophiaChe tu sia per me il coltello – David Grossman

Il titolo, che riprende una celebre frase di Kafka, introduce il lettore nel tormento di due sconosciuti che si uniscono in un rapporto che esiste solo nella carta e nella penna con cui intrattengono una lacerante corrispondenza epistolare. Entrambi i protagonisti, Myriam e Yair, sono così soli da abbandonarsi all’altro, all’estraneo, senza pudore, esprimendo desideri così sensuali da non poter trovare realizzazione. Da ciò, emerge in entrambi la consapevolezza che c’è ancora la possibilità di conoscere e provare la bellezza e che l’attesa è più dolce della realizzazione stessa.

 

UN CLASSICO

una-donna-la-chiave-di-sophiaUna donna – Sibilla Aleramo (1906)

In un’epoca in cui l’uguaglianza e i diritti femminili costituiscono un lume troppo lontano, Rina Faccio ci consegna un romanzo carico di pathos emotivo, mettendo a nudo gli aspetti più drammatici della propria condizione di donna, quali il tema dell’affidamento di un figlio, del diritto al lavoro, dell’uguaglianza sociale rispetto all’altro sesso. Scritto in prima persona, in una sorta di auto-narrazione nella quale non appaiono i nomi dei protagonisti, Una donna si configura come un romanzo di formazione, durante il quale la protagonista cresce e prende coscienza e conoscenza di se stessa e di ciò che la circonda. Un libro che spinge alla riflessione, in un mondo, quello odierno, in cui tutto appare scontato e alcuni diritti vissuti come semplice e ovvia quotidianità.

 

SAGGISTICA

raccontarsi-la-chiave-di-sophiaRaccontarsi. L’autobiografia come cura di sé – Duccio Demetrio

Il bisogno di narrazione e di auto-narrazione è insito nell’essere umano. Coinvolti in scene di vita, veicoli d’emozioni e azioni proviamo quell’insoddisfazione, quell’incompletezza estesa tra ciò che è stato, ciò che è – o per meglio dire che sta essendo – e ciò che sarà. Nella prigionia data da un determinato lasso temporale poniamo il nostro sguardo altrove, avanti o indietro, fantasticando e ricordando. È proprio tale ultima funzione, in forma di racconto, che funge da terapia, da auto-cura che ci tiene presenti a noi stessi, che ci fa essere realizzatori della nostra soggettività.

 

JUNIOR

crack-un-anno-in-crisi-murail-la-chiave-di-sophiaCrack! Un anno in crisi – Marie-Aude Murail

Questo romanzo è la storia di una famiglia come tante altre. Ecco a voi i protagonisti: Charline, 14 anni appassionata di manga; Esteban, il fratello minore che a scuola è un asso ma fatica a farsi degli amici; mamma Nadine, maestra d’asilo quasi impeccabile; infine papà Marc, direttore d’azienda con grosse responsabilità che pesano su di lui. A loro insaputa, i quattro familiari inizieranno a sviluppare un forte desiderio di evasione e ad immaginare la loro vita in una yurta mongola.. Che cos’è??? Scopritelo con questo romanzo coinvolgente, adatto tanto a ragazze quanto ai ragazzi, dai 13 anni.

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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Piero Chiara, “Il cappotto di astrakan”

Scrittore tra i più cordiali e affabili del Novecento, Piero Chiara (1913-1986) ebbe coi suoi romanzi e racconti un meritato successo specie tra gli anni Sessanta e i Settanta. Il cappotto di astrakan, del 1978, rappresenta molto bene il suo mondo narrativo e le sue qualità di piacevole intrattenitore e insieme raffinato disegnatore di stati d’animo e sentimenti.

il-cappotto-di-astrakan-copertina_La-chiave-di-SophiaSiamo nel 1950 a Luino, il piccolo centro sul Lago Maggiore dove l’autore ambienta quasi tutti i suoi romanzi. Il protagonista, che racconta la storia in prima persona, decide di lasciare per qualche tempo la provincia e recarsi a Parigi. Con questo viaggio cerca nuove esperienze con cui farsi bello al ritorno: un soggiorno parigino «poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate».

A Parigi, il protagonista conosce due donne. La prima è la signora Lenormand, che gli affitta una bella camera, piena di libri e occupata in pianta stabile dal gatto Domitien (un piccolo protagonista del romanzo). La signora, vedova di guerra, ha notato la somiglianza del protagonista col figlio Maurice e gliene parla molto: fidanzato con una brava ragazza, si è poi innamorato di un’altra donna che ha seguito in Indocina. Maurice ha lasciato nella camera un grosso quaderno pieno di stravaganti appunti, «tentativi di poesie, pensieri vari, spesso datati, brani d’autori celebri, minute di lettere d’amore, formule algebriche, trame di racconti e di romanzi».

L’altra donna è Valentine, che il protagonista intravede per la prima volta, nuda e intenta a fare degli esercizi, dietro le tapparelle mezzo abbassate dell’appartamento di lei. Riesce a conoscerla e i due si frequentano, trascorrendo le domeniche in tranquille passeggiate nei dintorni della città. Il protagonista è incerto su come comportarsi con Valentine, che non sembra interessata a un’avventura da poco.

In realtà entrambe le donne scorgono nel protagonista il riflesso di un’altra persona. Lo scopriamo quando la signora Lenormand gli lascia usare un bel cappotto in pelliccia di astrakan appartenuto a Maurice. Valentine, vedendolo con questo indumento, appare stupita, e finisce poco per volta col rivelargli il motivo: Maurice era il suo fidanzato. E non è affatto in Indocina: si trova in prigione dopo aver compiuto rapine e furti d’opere d’arte.

E una sera, all’improvviso, Maurice torna: fa irruzione nella sua camera, ora occupata dal protagonista, prende una gran somma di denaro che teneva nascosta nell’imbottitura di una poltrona, e scappa. Il nostro protagonista decide irrazionalmente di fuggire, subito, e torna in Italia. Dai giornali viene a sapere che Maurice è stato arrestato: dopo essersi recato a prendere Valentine a casa, ha cercato di raggiungere il sud ma è stato denunciato da un camionista.

Il protagonista è ripreso dalla vita di provincia, e i suoi racconti delle esperienze parigine hanno molto successo tra gli amici. Non vuole più tornare a Parigi, ma è Valentine che lo raggiunge: è disposta a vivere con lui sul lago, rinunciando a una buona proposta di lavoro. Ma il protagonista è combattuto: se era riuscito a accettare l’antica storia di lei con Maurice, la gelosia per questo breve periodo che gli ex fidanzati hanno trascorso insieme dopo l’evasione gli è troppo penosa. Dopo un ultimo pomeriggio insieme in una camera d’albergo, lui la accompagna al treno; poi le scrive una lunga lettera, su cui il romanzo si chiude.

Il protagonista del romanzo è tutt’altro che una figura eroica: privo di grandi qualità come di gravi difetti, sembra fatto per la routine della provincia, e anche quando si reca a Parigi sembra che la viva come una provincia più eccitante, che offre occasioni insperate come una donna che si spoglia al di là delle tapparelle di una finestra. Ma le due donne, attraverso di lui, scorgono Maurice: che prima ci incuriosisce attraverso i suoi quaderni e i racconti che ne fa la madre, ma alla fine si rivela anche lui un uomo dappoco, un banale rapinatore e carcerato evaso.

In questo calcolato gioco di specchi il racconto sembra costruirsi davanti ai nostri occhi: sono i non detti fra i personaggi a nascondere e poi svelare la trama. E l’autore governa questo gioco in maniera sapiente e un linguaggio di estrema eleganza: un parlato disinvolto e calcolato, come quando vogliamo raccontare una storia e, per fare bella figura, la ripetiamo più volte a noi stessi per sentirne l’effetto. Il romanzo, nella sua vena umoristica e insieme malinconica, suggerisce sempre la presenza di un ascoltatore: i compaesani del protagonista, che si fanno incantare dalle sue storie. E, con loro, anche noi lettori.

Giuliano Galletti

Piero Chiara, Il cappotto di astrakan, Milano, Mondadori, 1999.

[Immagine tratta da Google Immagini]

I ritagli del tempo che passa

E’ passato solo un anno e qualche giorno da che è morta la mia gatta, Eva. Eva perché era nera, sinuosa e furba come la compagna di Diabolik; in effetti a modo suo anche lei ne ha combinate di belle, però poi abbiamo scoperto che era anche capace di immensa dolcezza: per esempio, ti bastava dire “Eva!” e guardarla negli occhioni verdi che lei cominciava a fusare.

Sono circa 370 giorni dalla sua morte così inaspettata e già certi ricordi di lei cominciano a sfumare. Ha vissuto con noi per nove cortissimi mesi e ormai ho il terrore costante che, col passare degli anni e delle decadi, finirò col dimenticarmi di aver vissuto del tempo con lei. Per lei sono stata un’amica per tutta la vita, mentre lei rischia di diventare, un giorno, solo una minuscola sbiadita parentesi della mia. Ne ho il terrore perché mi sembra, in un certo senso, un insulto alla sua memoria: abbiamo passato lunghissime giornate a casa da sole, io lei e l’altra gatta, ho vissuto tanti piccoli momenti, esasperanti, dolci e divertenti, che non avrei mai voluto dimenticare – quei momenti che mentre li vivi dici “Non potrei mai dimenticarmi di questo istante” – e invece, alla fine, se ne vanno quasi tutti.

«La vita fugge e non s’arresta un’ora»¹. Da quando ho analizzato questo componimento di Petrarca al liceo non sono più stata capace di cancellare quell’idea, l’idea che la vita stia fuggendo e che ciascuno di noi la stia faticosamente inseguendo, minuto dopo minuto, anno dopo anno. I ricordi sono solo la moneta di scambio dell’implacabile tempo che passa. Non si può nemmeno dire che sia uno scambio equo, dato che questi ricordi (molti di essi, la maggior parte) hanno una scadenza: si depositano silenziosi in anfratti dove non li puoi raggiungere, finché non accade qualcosa, inaspettatamente, casualmente, che diventa come l’odore dei limoni per Montale, apre un’altra dimensione, spalanca certe conche negli abissi della memoria e il ricordo affiora, torna alla mente, «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza»², un momento di ricchezza che è svanito. Una malinconia (non tristezza, malinconia) che resta. Sono tuttavia occasioni troppo rare perché io possa darmi pace, troppe sono le cose che voglio ricordare.

Per fortuna, un po’ come per i limoni, i ricordi sembrano depositarsi dentro a degli oggetti: quasi fossero frammenti della nostra anima che richiudiamo nelle cose più svariate, concrete o astratte che siano, affinché li custodiscano per noi. Per esempio, per me c’è anche il caffè al ginseng: l’ho sperimentato il primo giorno in cui ho vissuto a Milano perché la mia coinquilina ne aveva sviluppato una sorta di dipendenza, e da allora un po’ anche io; adesso che non viviamo più assieme lo bevo molto meno, ma quando lo faccio penso a lei e al “ging” del dopopranzo o del “ok è tardi abbiamo sonno e dobbiamo ancora finire di lavorare al progetto ma ce la faremo”. Allo stesso modo, L’ombelico del mondo di Jovanotti adesso mi fa ridere mentre penso ai balletti scemi che facevo (con imbarazzo e divertimento) insieme agli altri volontari all’Expo, oppure c’è quel profumo di Lancome che credo assocerò sempre a mia madre, e la “furia buia” del film Dragon trainer alla mia piccola Eva pelosa. Ciascuno di noi ne ha un buon numero, se ci pensiamo bene. Certo, sarà sempre il nostro cervello che metterà in moto il processo di rimembranza, ma a pensarci è un po’ come avere dei nostri ricordi che camminano nel mondo: a volte li incontriamo e tac!, un pensiero risorge, ci fa stare bene e ci fa stare male. Purtroppo resta sempre da decidere se anche quelli abbiano una scadenza, se, cioè, l’oggetto in cui depositiamo il ricordo ad un certo punto non decida di espellerlo, disperdendolo definitivamente.

Del resto, con quale criterio il cervello dovrebbe scegliere i ricordi da eliminare e quelli da mantenere? Non è affatto detto che scelga in base alla loro importanza, altrimenti non dovrei cantare ancora a memoria Barbie girl degli Aqua. Pensiamo anche soltanto a tutto quello che abbiamo imparato del mondo quando eravamo piccoli! Ho da poco conosciuto la figlia di mia cugina, che ha solo cinque mesi ma sta seduta e ha due occhioni azzurri spalancati sul mondo; perché ad osservarla mi rendevo conto con profonda sorpresa che non si tratta solo di imparare a camminare e a parlare, si tratta di tutto quanto, di imparare a mettere in sintonia il nostro corpo con il mondo, cioè con i suoi suoni odori gusti volti superfici rumori colori… Tutte cose che oggi diamo per scontate (spesso niente ci sembra essere abbastanza interessante), e questo proprio perché non ci ricordiamo la magia dello scoprire il mondo pazzesco in cui siamo. Non ricordare il passato a volte ci tradisce nel modo in cui viviamo il nostro presente.

Dicono che in genere usiamo solo una piccola parte del nostro cervello. Questo potrebbe voler dire che i ricordi in realtà dentro ci sono tutti senza che noi ce ne accorgiamo. Magari sono come nodi nel lanoso gomitolo del tempo di Bergson: sono lì tutti in fila, ma è difficile per noi sgranare il rosario ed arrivare al punto giusto, lì dove si trova il ricordo che stiamo inseguendo. E’ dura anche perché il gomitolo, anche se non sembra a vederlo così appallottolato, è molto lungo – di fatto hai una vita che ti passa davanti al contrario – e all’improvviso pensi che ti sembra l’anno scorso che hai fatto la tal cosa e invece sono passati anni. E pure troppi. Allora te ne rendi proprio conto: la vita scappa a gambe levate, e non sta lì ad aspettarti. A volte addirittura ti punisce per la tua pigrizia e non ti lascia dietro nessuna traccia del suo passaggio – o, almeno, non in superficie.

«Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità».³

Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. Francesco Petrarca, Componimento CCLXXII, in “Canzoniere”;
2. Eugenio Montale, I limoni, in “Ossi di seppia”;
3. Ibidem.

La noia è come un ragno silenzioso

Luglio, un caldo atroce. Seduta per terra in mezzo agli alberi di susine dell’orto di mio papà ieri stavo pensando alle “soluzioni a buon mercato” con cui vi ho lasciato, gentili lettori, nell’ultima puntata di questa rubrica.

Conversazioni piatte come marciapiedi di strada, pensieri errabondi e nessuna voglia di approfondirli. Cercare di spiegare a se stessi cosa s’intende nella vita con la parola “felicità”, che sembra tanto bella nei libri, ma senza farsi troppo male. Prolungare le illusioni e rassegnarsi ad esse.

Credo che tutte queste siano soluzioni a buon mercato e in ognuna di esse io m’imbatto senza colpo ferire.  Nel frattempo, però, consapevoli che siamo o meno, «la noia, come un ragno silenzioso, fila la sua tela nell’ombra.»[1]

D’estate, chissà perché, la noia mi cattura. Succede anche a voi? Per tutto l’anno questo ragno silenzioso e pesante ha tessuto la sua tela ma io me ne accorgo solo quando l’afa non mi permette più di respirare, quando ovunque girando con lo sguardo il respiro non mi si calma, e sono costretta a chiudere gli occhi, a farmi violenza nel tentativo di refrigerare lo spirito.

Se però rimaniamo impigliati nella tela, e lasciamo che la noia vinca su di noi, l’avvenire diventa come un corridoio tutto nero, e in fondo una porta serrata. Che fare?

Imparare a nuotare nel mare della vita è fare piccoli passi, volta per volta. Prima si prende confidenza con l’acqua, la sentiamo scorrere su di noi placida e tumultuosa assieme, ci accarezza e ci rinfresca. Poi, iniziamo a muovere i piedi per stare a galla e proviamo a spaziare con lo sguardo. Tanti nuotano accanto a noi, e bene, dunque possiamo stare tranquilli. Infine, muoviamo le braccia a ritmo del nostro respiro. I ragni della noia si allontanano da noi nel momento in cui ci ascoltiamo respirare, affondiamo nella ritmicità del soffio vitale, ci innamoriamo di noi stessi mentre respiriamo.

Talvolta è la nostra immaginazione che ci rovina: ci immaginiamo vite degne di re, crediamo di non poter essere felici se non arriviamo per forza dove la nostra fantasia ci vorrebbe portare, crediamo, come Emma di Madame Bovary, che l’amore debba essere un colpo di fulmine, tra grandi tuoni e lampi, un uragano del cielo che piomba sulla vita, la sconvolge, strappa la volontà come una foglia e trascina il cuore nell’abisso. Non sappiamo invece che sulle terrazze delle case la pioggia forma dei laghetti quando le grondaie sono intasate e, aprendo delle fessure, è lì che permette all’amore di  infilarsi.

Ciò che è grande, bellissimo, meraviglioso si manifesta nei dettagli più minuscoli.

Parole grandissime, esagerate ed imbellettate all’inverosimile nascondono invece effetti mediocri.

I ragni portano fortuna, dicono. Altroché: silenziosamente, infatti, ci parlano di noi.

Ci dicono che la pienezza della vita non trabocca dalle metafore vuote.

Sara Caon

[1] Flaubert, Madame Bovary.

[ immagine tratta da phio, Creative Commons License.]

Malinconia?! Portami via!

Spesso parliamo di giovani pensando alla spensieratezza, alla gioia di vivere, alle aspettative che hanno del loro futuro.

Poche volte si associano sentimenti negativi ai ragazzi quali malinconia, nostalgia, paura.

Credo che l’errore sia grave perché sono convinta che questi ultimi aggettivi descrivano accuratamente la fragilità di un giovane di oggi frustrato dalle responsabilità, dalla società opprimente, dalla superficialità delle relazioni e dalla perdita di genuinità.

Il giovane di oggi è ben diverso dal giovane dei decenni passati, perché non lotta più per un ideale da condividere con la società ma combatte per se stesso contro quella stessa società, colpevole, a suo avviso, di renderlo inerme di fronte alle difficoltà.

Ecco la prima parola chiave: difficoltà, la seconda è malinconia.

Le difficoltà o rafforzano o distruggono. O aggregano o allontanano.

Il giovane d’oggi spesso soccombe alle prime difficoltà, innescando in sé un processo di allontanamento da tutto e da tutti che porta alla malinconia della solitudine.

Occhi speranzosi che si tingono di un vuoto malinconico che rischia di portare all’oblio.

Non bisogna, però, essere negativi, perché è dal fondo che si costruisce, è con la paura che si diventa forti, è con la malinconia che si tocca l’apice della passività per poi riprendersi.

È proprio il senso originario della parola malinconia a dimostrarci quanto essa sia un sentimento inconsapevole ma di aiuto per  cogliere aspetti della vita invisibili ai più audaci, infatti essa nell’antichità significava un dolce oblio che, penetrando nell’animo, lo  rendeva profondo ed orientato all’introspezione, alla ricerca in sé.

Il malinconico è consapevole di esserlo ma impotente  di reagire a causa di una spiccata sensibilità che lo riporta ad analizzare il passato per poter proseguire la strada nel presente rivolto al futuro.

La malinconia nei giovani permette loro di conoscersi, vivendo nella frustrazione e nella difficile consapevolezza dell’impossibilità di certi eventi di cui nessuno può essere responsabile; proprio per questo il giovane malinconico piuttosto che audace è sempre da non sottovalutare, perché nasconde in sé un logico mondo dove il passato che spaventa viene tenuto in considerazione per le scelte future.

Malinconia

che fugge

…tra le dita.

 

Malinconia incostante,

derisa da pensieri futili.

 

Malinconia rabbiosa,

trepidante d’attesa

di ciò che non esiste.

 

Malinconia eterea,

flebile come un alito di vento.

 

Malinconia subdola,

divoratrice di anime sospese.

 

Malinconia dolce

che culla la speranza del sogni.

Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]