“Due razze di uomini”: complessità oltre il pregiudizio

Il nostro tempo si caratterizza per una crescente complessità che negli ultimi anni è stata amplificata dal trauma pandemico e dalla ingiustificata violenza che la guerra alle porte dell’Europa sta portando con sé.

Un’epoca difficile da decifrare proprio per la sua complessità che si sottrae ad ogni tentativo di riduzionismo analitico e ancor di più ad ogni incerto sforzo di semplificazione. In un simile contesto è ricorrente imbattersi in confronti, dialoghi e discussioni che hanno la pretesa di ridurre i fenomeni umani a categorie preconfezionate che in maniera manichea intendono distinguere arbitrariamente, non solo il bene dal male, ma anche e soprattutto di indicare chi sta dalla parte dell’uno o dell’altro a seconda che appartenga a un gruppo sociale, a una nazione, a un continente, a una razza, a una religione, a un genere. La conseguenza di un tale semplicistico modo di pensare – nel gomitolo aggrovigliato di questo tempo che muta a una velocità insostenibile per le risorse cognitive dell’essere umano –, è quella di cadere in pensieri e atteggiamenti discriminanti, non inclusivi e che tendono a giudicare le azioni umane come buone o cattive a partire semplicemente dal gruppo di appartenenza. Nefaste sono le implicazioni di questo modo pregiudiziale di approcciarsi alla realtà: razzismo, discriminazioni, esclusione sociale, diffidenza, paura, cultura dello scarto, guerre. Veri e propri virus sociali che nascono dal tentativo, impossibile (sic!), di ridurre a categorie semplici, ciò che per definizione non è riducibile ovvero la complessità. Solo allineandoci con la prospettiva di quest’ultima, possiamo adottare un atteggiamento personale e di conseguenza interpersonale, quindi sociale e politico di tipo inclusivo e non discriminante verso qualsivoglia categoria di persona.

A questo proposito risulta illuminante la lezione che abbiamo ereditato dallo psichiatra e filosofo viennese Viktor Frankl, ebreo sopravvissuto a quattro diversi lager nazisti. Al termine del secondo conflitto mondiale e della barbarie scatenata in Europa dai regimi totalitari, ai pochi sopravvissuti era spesso chiesto di raccontare la propria esperienza di prigionieri nei campi concentramento e di sterminio. L’aspettativa era che i testimoni delle atrocità puntassero il dito contro il popolo tedesco colpevole delle nefandezze compiute. Anche Frankl fu invitato più volte a raccontare la propria esperienza di internato in diverse occasioni. Saldo nella sua esperienza, forte della sua libertà di pensiero e incurante delle ostilità che il suo punto di vista avrebbe procurato nella comunità ebraica, Frankl riportò sempre l’attenzione dei suoi uditori sul concetto di responsabilità individuale, ricusando ogni tipo di semplificazione e di generalizzazione che portasse a sostenere la tesi della colpa collettiva di un gruppo sociale, di un popolo, di una nazione.

Celebre il discorso da lui tenuto il 10 marzo 1988, davanti a trentacinquemila ascoltatori, sulla piazza del municipio di Vienna, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Anschluss: «Il Nazionalsocialismo ha diffuso il delirio razziale: in effetti esistono soltanto due razze umane, ossia la ‘razza’ degli uomini onesti e quella degli uomini disonesti. E la separazione razziale taglia tutte le nazioni e, all’interno di ciascuna nazione, tutte le fazioni. Persino nei campi di concentramento si incontrava qualche SS appena decente, come pure qualche imbroglione e farabutto anche tra i detenuti» (Frankl, 2001). Con coraggio Frankl evidenzia il fatto che non esistono gruppi sociali buoni o cattivi ma che in ogni umana aggregazione sono presenti individui che perseguono il bene e la giustizia e altri che rincorrono, con ogni mezzo, fini che si distanziano da valori quali il bene e la giustizia che tutelano la vita e l’umanità degli individui. L’intellettuale viennese richiama con forza a due grandi dimensioni che contraddistinguono l’essere umano: la libertà e la responsabilità. Libertà di decidere, momento dopo momento, che cosa fare di sé stessi e responsabilità per questa scelta. Dunque, libertà di decidere che tipo di persona si vuole essere e si vuole diventare: abbassarsi a livello animale o far fiorire la più nobile dignità umana che consiste nel pensiero e nella capacità di amare e donarsi all’altro da sé dilatando i confini di quelle espressioni che favoriscono un’esistenza e una convivenza più umana.

Frankl ci aiuta così a delineare un importante indicatore di maturità intellettuale ovvero la capacità di non essere discriminativi o abbonati a infondato pregiudizio. Il bene e il male attengono alla responsabilità personale e non a questa o a quella appartenenza categoriale. La persona va considerata per ciò che è nella sua singolarità, nella sua libertà e responsabilità. I soli fondamenti a partire dai quali è possibile una valutazione etica che non può mai riferirsi all’appartenenza di un individuo a una categoria piuttosto che a un’altra. Solo così è possibile non cadere in deplorevoli pregiudizi che scadono facilmente in razzismo, classismo, sessismo. Seguendo questa prospettiva è verosimile non scivolare in uno sterile riduzionismo che perdendo di vista la singolarità dell’individuo ambisce, illusoriamente, a semplificare approssimativamente la complessità umana e sociale nella quale siamo immersi.

 

Alessandro Tonon

 

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L’origine del male secondo Hannah Arendt

Nel 1961 Hannah Arendt chiese esplicitamente al settimanale New Yorker di essere inviata come corrispondente a Gerusalemme per seguire il processo al funzionario e militare nazista Otto Adolf Eichmann (1906-1962). La pensatrice politica seguì con attenzione tutte le centoventi sedute del processo al gerarca nazista che era stato catturato dai servizi segreti del neonato stato di Israele a Buenos Aires, dove si era rifugiato con una nuova identità sfuggendo al processo di Norimberga del 1946.

Eichmann era stato responsabile dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Con questa funzione aveva coordinato l’organizzazione dei trasporti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato e poi condannato a morte per impiccagione, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “solo di trasporti”. Il resoconto di quel processo e le riflessioni che Arendt fece in presa diretta, vennero poi raccolte – con ampliamenti e leggere revisioni – nel celebre libro La banalità del male. Un testo che ha avuto un grande successo internazionale e che è stato altresì contestato – con sommo dispiacere di Arendt stessa – la quale ha lottato strenuamente a livello intellettuale, per far comprendere le sue tesi anche a coloro che non ne avevano colto fino in fondo la profondità.

In questo testo Arendt ha proposto la nozione di “banalità del male” evidenziando il tratto più pericoloso di Eichmann: la sua assenza di pensiero e l’implosione della coscienza. Quest’ultima, nel gerarca nazista, si era assopita non lasciando spazio alla consapevolezza, allo scrupolo, al senso di colpa. È qui che si gioca quella che Arendt ha definito la “banalità del male”. Obbediente allo spirito della storia Eichmann era diventato un esecutore meccanico di ordini, un piccolo ma fondamentale ingranaggio di una macchina infernale che altrimenti non avrebbe potuto funzionare così “bene”.

L’autrice rimase colpita dall’assoluta mediocrità di Eichmann, dalla sua superficialità. Le azioni compiute dal funzionario tedesco erano mostruose, ma l’agente era ordinario, non aveva alcunché di demoniaco. Era un animo semplice che obbediva, in maniera a-critica, allo spirito della storia. Scrive Arendt: «Quando io parlo della “banalità del male”, lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Machbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” – come Riccardo III – per fredda determinazione» (H. Arendt, La banalità del male, 2014). Punto focale della riflessione dell’intellettuale tedesca è la constatazione del fatto che il criminale nazista non aveva nulla di malvagio e non aveva nei suoi gesti precipue intenzioni di compiere il male.

«Egli non capì mai che cosa stava facendo […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo» (ivi).

Facilmente fanno qui capolino le critiche all’analisi proposta da Arendt che viene accusata di assolvere, di giustificare, di svalutare quanto accaduto per opera dello stesso Eichmann. Niente di più distante dal pensiero e dagli intenti della pensatrice tedesca. La sconvolgente lezione che Arendt sostiene di aver appreso dal caso Eichmann e che ci ha tramandato è lì ad ammonirci che la “banalità del male” è quanto di più pericoloso possa presentarsi per l’uomo sul palcoscenico della storia. I piccoli complici che non pensano e obbediscono supinamente allo spirito del tempo sono il vero pericolo. Eichmann era un uomo assolutamente normale sostiene Arendt ma «questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica […] che questo nuovo tipo di criminale […] commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male» (ivi).

Parafrasando Arendt possiamo dunque affermare che il suddito ideale di un regime totalitario non è il comunista convinto o il nazista convinto, ma l’individuo per il quale non esiste più la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso. Abdicare al pensiero critico, rinunciare a interrogarsi, escludere la vigilanza interiore, finisce per impedire di riconoscere il male, estromettendo l’uomo dall’orizzonte etico. Di Eichmann, Arendt mette in risalto la peculiare superficialità, lo iato fra azione e pensiero, fra emozioni e razionalità. Quest’ultima ridotta a mero ossequio di ordini giunti dall’alto. Al quale si aggiunge la totale incapacità di percepire e sentire l’altro da sé come un essere umano dotato di medesima dignità.

La lezione senza tempo del messaggio arendtiano è quella di non abdicare all’esercizio del pensiero critico, non tanto come mero processo cognitivo ma come pratica di vita. Affinché il vuoto dal quale Eichmann era attraversato non diventi la regola che preannuncia tragedie umane, è necessario educarsi al pensiero autonomo e riattivare la vigilanza della coscienza. Sono questi gli unici antidoti al cedimento morale e all’allineamento dilagante che permea la nostra società. Scrive Arendt:

«La manifestazione del lieve vento del pensiero non è la conoscenza: è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei vari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé» (H. Arendt, La vita della mente, 2009).

 

Alessandro Tonon

 

[Immagine tratta da Unsplah.com]

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Filosofia: amore per il peccato

“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire”1

“Ma il serpente disse alla donna: “Voi non morirete affatto!” Anzi. Dio sa che nel giorno in cui mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male2.

Un divieto imposto a priori e una tentazione che, come un vento leggero, rinvigorisce un fuoco già acceso: così sembra procedere il racconto biblico di Adamo ed Eva, primi peccatori e ultimi dogmatici.

La scelta effettuata da Eva rappresenta una straordinaria svolta nella “storia umana” e nella concezione che da essa ne deriva: l’uomo sceglie infatti volontariamente di tendere al peccato più grande e affascinante, cercando di raggiungere l’albero del bene e del male.

In questo passo della Bibbia, si assiste ad una sorta di nascita allegorica della Filosofia come tendenza umana alla fuga verso tutto ciò che è imposto e che appare assolutamente certo: i personaggi, soggetti apparentemente nudi nella carne e nello spirito, dubitano di Dio stesso, della verità che sembrerebbe essere incontrovertibile, e scelgono di imboccare la strada del dubbio, assai più ripida e ben più pericolosa.

E da lì in poi, da quel fatidico giorno di storie lontane e di visioni allegoriche, l’uomo scivola verso l’abisso più profondo, la dimensione dell’incertezza, in cui ogni posizione apparentemente certa è in realtà un filo sottile o un terreno instabile da cui fuggire: ed è proprio nel suo “andare oltre”, scacciando il dogma, che risiede la grandezza di un uomo nuovo, consapevole di se stesso e della propria capacità di esercitare il dubbio.

Adamo ed Eva scelgono infatti di coprire il proprio corpo: non sono personaggi in preda al pudore e alla vergogna, ma dimostrano invece di essere dei soggetti nuovi che hanno maturato una nuova visione di sé… L’individuo si spoglia della verità certa e inconfutabile, capace di celarla persino a se stesso e trova quindi il coraggio di osservarsi, scoprendo, con differenti occhi, di essere fragile, nudo.

Ed è proprio dalla morte della certezza, dallo stupore verso il mondo, dalla meraviglia, dal timore di sé e della voglia di scoprirsi veramente che nasce la Filosofia e che sembra emergere una nuova vita, non già edificata, ma da costruire, pezzo dopo pezzo.

Continueremo a costruire incessantemente la nostra esistenza, la nostra scala, poi faremo qualche passo indietro e osserveremo la nostra creazione, chiedendoci se in fondo non sia tutto il gioco di un bambino che crea e immediatamente distrugge, perché è nella creazione e nella costruzione che risiede tutto il suo divertimento.

Forse è anche questo il destino dell’uomo, perennemente bambino: edificare teorie ed edifici, distruggerli e poi creare nuova vita.

Costruire pensieri e abbatterli.

Costruire se stessi e mettersi radicalmente in discussione: perché senza fine non c’è inizio e senza caduta non c’è sollevamento.

Probabilmente però, una scala debole e instabile, resisterà alla distruzione e consentirà all’individuo di tornare a vedere, per qualche istante, il proprio Paradiso.

L’uomo chiederà a Dio di poter osservare per un’ultima volta l’albero del bene e del male, per poter peccare ancora, elemosinando un frutto di dolce conoscenza e di amaro dubbio: e sarà proprio quando le sue mani toccheranno i frutti sacri e maledetti che inizierà nuovamente la sua caduta.

Questa volta si chiederà però se quei frutti siano mai maturati e se Dio sia realmente esistito al di fuori della propria mente: nessun urlo durante la caduta, solo il rumore di insostenibili pensieri.

 

Gabriele Iacono

Gabriele Iacono è uno studente di diciotto anni: ha collaborato con “Bravi Autori” e “Archivio Immaginazione”, partecipando inoltre ad alcuni concorsi di scrittura e alla pubblicazione di numerose antologie di racconti.
Oggi è articolista presso il giornale online “Il Post Scriptum” e recentemente ha pubblicato il suo primo libro, intitolato “Eterni Prigionieri”.

 

NOTE:
1. Genesi 2: 16-17
2. Genesi 3: 4-5

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Siamo tutti un po’ Raskol’nikov

In un mondo sempre più indifferente e nel quale l’Io assume una posizione sempre più centrale, gli esseri umani risultano più inclini all’esaltazione illusoria della libertà che li porta a credere di essere onnipotenti e a giustificare azioni e pensieri spesso ingiustificabili.
Emblema di un simile delirio di onnipotenza è Raskol’nikov, protagonista di una delle più celebri opere di Dostoevskij: Delitto e Castigo (1889), ambientato in una tetra Pietroburgo, nella quale il protagonista uccide una vecchia e avida usuraia. Potremmo inizialmente credere che egli compia un simile assassinio per appropriarsi del capitale della vecchia, ma così non è: Raskol’nikov, infatti, decide di ucciderla per estirpare una cattiva erbaccia dal mondo, tenendo con sé solo una piccola parte dei soldi per non gravare più sulle spalle della madre, distribuendo poi il resto del denaro ai più bisognosi.

Dostoevskij ha la capacità magistrale di farci addentrare negli abissi più reconditi del sottosuolo umano; nelle sue opere, infatti, i personaggi principali sono degli esseri umani divisi, alla perenne ricerca della strada “giusta” da percorrere nell’eterna lotta interiore tra il bene e il male. Non a caso l’autore sceglie Raskol’nikov come nome del protagonista, infatti raskol’ in russo vuol dire “scissione”.

Raskol’nikov architetta l’omicidio ponendosi in una dimensione superomistica alla maniera nietzschiana, decidendo che sia legittimo uccidere la vecchia in quanto ritiene che essa sia inutile per il progresso dell’umanità, essendo lei un’incarnazione del male in terra.
Ciò che salta subito all’occhio è la descrizione di un uomo dominato dagli ideali, dalle passioni incontrollate, da un libero arbitrio spinto all’ennesima potenza, non certo dominato dalla ragione e dalla morale canonicamente intesa; ma siamo sicuri di poterci permettere di giudicare negativamente l’operato di questo personaggio?

La risposta sarebbe istintivamente un sì, in fondo Dostoevskij mette al centro della scena un assassino a pieno titolo, un uomo che si fa portavoce di una propria morale, che trasgredisce deliberatamente la legge per appagare un suo più alto desiderio, quello di diventare übermensch e di porsi in uno stato “al di là del bene e del male”, cercando di estirpare il male dal mondo, cadendo però nella trappola del male stesso e credendo di ottenere, con la sua azione fuori dagli schemi dell’ordinario, una superiorità che lo porterà a sentirsi libero nella maniera più assoluta. Ma dopo aver commesso il delitto, Raskol’nikov avverte immediatamente di non aver ottenuto la tanto agognata superiorità, di fatto ha solo ucciso senza ricevere nulla in cambio, se non il peso insostenibile del senso di colpa che lo attanaglierà fino a diventare una vera e propria ossessione, che lo porterà infine ad autodenunciarsi e a riconoscere l’inumanità del gesto commesso, seppur senza mettere in dubbio gli ideali che l’hanno mosso.

A questo punto l’interrogativo che sorge spontaneo suona machiavellico: il fine, relativamente al delitto commesso, giustifica i mezzi?
La risposta è un categorico no e in fondo è Dostoevskij stesso a condurci verso tale pensiero. Delitto e castigo, infatti, sancisce proprio la convivenza forzata e insopportabile tra la violazione delle leggi del diritto e della morale e l’inevitabile imbattersi dell’essere umano in se stesso.
Se consideriamo il protagonista come un mero deviato mentale e crediamo di non avere nulla in comune con lui, ci sbagliamo di grosso: Raskol’nikov tenta, seppure invano, di appagare la sua coscienza prima di appagare la volontà del mondo che lo circonda; non è forse ciò a cui tendiamo tutti noi in qualità di esseri umani? Tutti noi rivendichiamo il nostro libero arbitrio, senza pensare che proprio tale caratteristica che permette di discernere il bene dal male, possa condurre non sempre nella direzione giusta. Allo stesso modo, quando commettiamo un’azione negativa, anche se spinti da ideali a nostro avviso corretti, non avvertiamo come Raskol’nikov, la sensazione di non aver ottenuto nient’altro che l’aver commesso il male?

Questo personaggio appare, dunque, non solo estremamente universalizzabile, ma anche e soprattutto attuale: basti pensare al fatto che egli uccida una persona che considera riprovevole; ma quante volte noi “abbiamo ucciso”, metaforicamente parlando, alcune categorie di persone che abbiamo ritenuto non alla nostra altezza, emarginandole, parlandone negativamente, ignorandole? Quello che è certo è che tutti noi abbiamo commesso un “delitto” almeno una volta nella vita e tutti, o quasi, abbiamo fatto i conti con il più inflessibile giudice inquisitore che esista: la nostra coscienza. Ed è per questo che, in fondo, siamo tutti un po’ Raskol’nikov.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit John Silliman via Unsplash]

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Essere felici in un mondo assurdo e senza Dio: la prospettiva di Camus

Camus è tra gli autori francesi più letti al mondo, una fama ben meritata vista la profondità intellettuale delle sue opere. Il suo percorso si snoda tra l’infanzia vissuta in povertà in Algeria e il clima metropolitano di Parigi, dove si confronterà con la cultura filosofica del suo tempo, in particolare con Sartre, massimo esponente dell’esistenzialismo francese. È sul senso del corpo concepito come limite che si misura la distanza tra Camus e gli esistenzialisti. Per Camus, il corpo rappresenta il luogo in cui nasce il conflitto dell’uomo, tra la felicità ottenuta attraverso la bellezza e il dovere di essere felici in un mondo senza Dio.

L’uomo fin dall’antichità ha ricercato il principio primo del suo essere e della sua iniziale condizione di non esistenza, poiché in quanto creatura finita avvertiva il bisogno di giustificare il suo esistere. La morte non può essere prevista dagli uomini, i quali hanno davanti a sé due strade: cercare una giustificazione al divenire o rassegnarsi all’assurdo. Il divenire risulta angosciante se non si introduce una condizione positiva, ma porre Dio come condizione di esistenza e di non esistenza, comporta un problema: per chi non riesce a compiere il salto nella fede, è impossibile conciliare l’idea di un Dio perfetto, onnipotente, onnisciente e buono, con lo stato di assurdità in cui versa il mondo.

Un giudizio semplicistico che circola su Camus è che fosse ateo; sarebbe tuttavia più corretto definirlo un semplice non credente, uno che pur non avendo fede, non nega perentoriamente l’esistenza di Dio.
Essere non credente non equivale per Camus ad essere indifferente ai problemi religiosi. L’esperienza della fede gli era estranea e lui non fece altro che collocare il proprio pensiero fuori da essa. Ma come vivere fuori dalla fede? Contemplando l’universo senza cercarne la chiave in un essere trascendente e riflettendo su come condurre una vita senza Dio, rinunciando alla serenità che la fede fornisce mediante la speranza di una vita eterna e guardando lucidamente al nostro destino mortale.

A Dio non è imputata la colpa del male che pervade il mondo, il male proviene da un’insensatezza metafisica necessaria all’umanità affinché possa prendere coscienza dell’assurdo. La felicità può essere raggiunta attraverso l’appropriazione della propria vita con la consapevolezza di non poter ambire ad un miglioramento della stessa, ma di essere accomunati con l’intera umanità dal medesimo destino. Gli esseri umani devono imparare a convivere con l’assurdo e questo potrebbe far pensare che tale convivenza debba essere di tipo passivo, occorre invece, che l’uomo si muova all’interno dell’assurdo inaugurando una lotta contro qualcosa che è molto più grande di lui ed è per questo che Sisifo rappresenta l’esempio da seguire, poiché vive consapevolmente la sua condizione.

Il mito di Sisifo è lo scritto in cui Camus espone la teoria dell’assurdo partendo dall’analisi del suicidio, come ciò che interrompe il rapporto tra uomo e mondo, senza risolvere il problema dell’assurdo. Il rapporto con l’assurdità, va dunque affrontato diversamente: cosciente dei propri limiti, l’uomo non deve uscire dal gioco, ma resistere e deve farlo senza rassegnazione, proprio come Sisifo, condannato dagli Déi a portare sulle spalle un pesante masso sulla sommità della montagna, il quale però ogni volta che tocca la cima rotola perennemente giù, costringendolo a ripetere in eterno lo sforzo.

Sisifo, però, accoglie il suo destino e lotta contro la passiva accettazione, considerando il macigno sulle sue spalle parte integrante del suo esistere, traendo dalla sua condizione la forma più autentica della felicità.
La rivolta contro l’assurdo è inizialmente solitaria, ma quando si giunge alla consapevolezza di essere tutti accomunati dal medesimo destino, diventa solidale.

La rivolta collettiva rappresenta il culmine del pensiero camusiano e nasce dalla comprensione che l’assurdo sia di tutti. Ma solo attraverso la rivolta, mai distruttiva o autodistruttiva, è possibile limitare gli effetti del male e, dunque, pur non potendo ambire ad un miglioramento della propria condizione, è possibile appropriarsi della propria vita.

Il male non ha una giustificazione logica se si crede nell’esistenza di Dio; un Dio che non possa evitare l’assurdo, è un Dio su cui Camus non si sente di scommettere. Tuttavia, non è altrettanto concepibile un assurdo che sia meramente contingente, poiché è comunque necessario che abbia una giustificazione, che Camus individua nel male, insito nella radice delle cose stesse. Questa esigenza di ricercare un principio metafisico come giustificazione all’assurdo, fa sì che Camus possa respingere l’etichetta di ateo in senso stretto.
È sconvolgente quanto sia importante recuperare il pensiero di Camus in un mondo come il nostro, caratterizzato dall’individualismo e da una quasi assenza di Dio nella vita comune e ricercare una propria dimensione morale e allo stesso tempo collettiva e condivisa, che possa portarci a vivere e non semplicemente a sopravvivere, ad essere e non semplicemente ad esistere, in una delle epoche più “assurde” in cui potessimo essere gettati.

 

Federica Parisi

 

Federica Parisi, classe 1991, ha conseguito la laurea in Filosofia e si è specializzata in Scienze filosofiche, presso l’Università degli studi Roma Tre. I suoi principali campi d’interesse riguardano la Filosofia morale e la Filosofia delle religioni. È inoltre una grande appassionata d’arte e letteratura.

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Perché l’uomo compie il male in modo volontario?

Per secoli grandi filosofi e teologi si sono confrontati sulla vecchia domanda: Unde malum? Il loro fu un tentativo di giustificare Dio, l’Uno, l’Assoluto, trasformando le azioni umane malvagie in una colpa da ricercarsi nel peccato originale o nella degradazione di bene, come disquisiva già Plotino1, ma partecipante di un disegno divino da compiersi alla fine dei tempi, o in costruzione, mai comprensibile. Il male fu definito come inesistente. Non fecero di meglio i filosofi metafisici che, pur arrivando a vette razionali straordinarie, non seppero precisare la provenienza del male  relegandolo ad altrettanta degradazione finendo per assecondare la visione teologica.

Questo costante e incisivo supporto al male, attraverso la sua negazione, ha permesso la giustificazione costante di ogni atto malvagio fino a quello che viene definito da Hannah Arendt, il peggiore di tutti, cioè quell’atto che tentò di cancellare il concetto di uomo: il genocido nazista2. La seconda guerra mondiale, per questo,  fu una cesoia decisiva. La responsabilità umana e la libertà delle proprie scelte, che diventano azioni, doveva essere affrontata in modo diretto. Tutto ciò fu spinto dai lavori della Arendt che, attraverso il suo libro La banalità del male, Eichmann a Geruslamme, rivitalizzò l’interesse per un tema sempre scansato dai più. Seppur in modo involontario, la teorica politica tedesca obbligò a riprendere in mano il vecchio tema del male radicale di Kant e a svilupparlo in maniera moderna, fino a definirlo banale dando priorità alla questione della libertà e responsabilità3, ma anche a quello dell’incomprensibile, che si palesò  già nelle opere di Dostoevskij4 e di Schelling5.

Le varie diatribe e studi sorti  dagli anni Sessanta in poi, hanno portato ad una visione più ampia  del male. Attraverso gli esperimenti di Zimbardo e Milgram, messi a confronto con la filosofia e le teorie antiche – moderne, il male pare essere diviso in due grosse macro categorie: quella degli “istigatori” e quella dei “perpetratori” ed entrambi sono definiti come assolutamente liberi nell’attuazione delle proprie scelte. Gli “istigatori” sembrano essere  quelle persone che hanno una innata predisposizione al male. Non solo a compierlo in modo subdolo, ma attraendo individui e indirizzandoli a piacimento. Questo tipo di persone possono essere leader carismatici, ma possono essere anche persone comuni che agiscono all’interno del proprio ambito sociale, lavorativo e familiare6. Questi istigatori, però, non avrebbero forza, se ad agire non ci fossero altri, in maggior numero: i “perpetratori”. Essi, secondo Hannah Arendt e Joseph Conrad, non sono nient’altro che uomini comuni legati in modo viscerale alla vita come sua depauperazione; non hanno empatia, parlano per clichés, sono sprovvisti di pensiero critico e subordinati al sistema dominante, che sono felici di servire. Necessitano di fare parte di un gruppo, di essere riconosciuti e accettati a tutti i costi. Sono disposti a far qualunque cosa per perseguire il proprio interesse, vivono nell’autoinganno e non sanno stare con se stessi. La comunità umana è piena di questo tipo di personalità, mentre il numero degli istigatori pare essere inferiore. Ciò rappresenta una speranza ma anche una condanna. Il “maggior numero” può esser guidato verso una maggior coscienza di sé ma, allo stesso modo, essi sono più attratti da quell’oscuro che, all’interno del sistema umano, sembra essere una necessità. I soggetti che tendono alla scelta del bene sono pochi e spesso ostracizzati.  Il male, perciò, può essere controllato? Secondo Arendt, si: seguendo il modello socratico attraverso uno sviluppo della propria conoscenza del sé, cioè dialogo con se stessi, del pensiero critico, che apre le porte ad una capacità di giudizio di tipo kantiano tale da rendere il soggetto empatico, di mentalità aperta e disinteressato (cioè non ricercatore del proprio inter-esse ma di armonia) da ritrovare nel senso comune, cruciale per costruire una società libera e in equilibrio all’interno di una “necessità” che spinge inevitabilmente verso l’opposto7.

La risposta alla domanda dovrebbe essere, quindi: l’uomo compie il male perché sembra necessitato a prendere una decisione. La libertà pare essere il suo dramma e la sua opportunità. La sua scelta (responsabilità) è decisiva all’interno della mondanità. In quanto tale, il male morale potrebbe essere controllato ma egli è, allo stesso modo, costantemente in pericolo in quanto parte di un contesto “oscuro” imperscrutabile. Se per secoli, dunque, la risposta alla domanda sembrava essere “Necessità”, l’ago della bilancia, nel XX secolo, si è spostato su “Libertà”. Si potrà mai avere una risposta definitiva? Necessità O libertà oppure Libertà E Necessità?

 

Luca Cerardi

Luca Cerardi, 42 anni, docente di Lettere presso la scuola superiore di I grado di Grumolo delle Abbadesse (Vi). Laureato magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università degli studi di Padova (2019) e in Storia, vecchio ordinamento, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (2004) con master in Educazione audiovisiva e multimediale presso l’Università degli Studi di Padova (2006). Maestro di batteria dal 2012 e musicista dal 1995 con esperienza nazionale – internazionale in produzione discografica, management, organizzazione eventi e concerti. Giornalista per il magazine statunitense Steel Notes Magazine in cui si occupa di far conoscere i musicisti sotto un profilo umano più che tecnico – musicale. Amante della natura, ha costruito un giardino “filosofico” su un vecchio campo coltivato intensivamente, bonificandolo. Attualmente impegnato nella specializzazione in consulenza filosofica e in filosofia per bambini (philosophy for children).

 

NOTE:
1. Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Bompiani, Milano, 2010, p. 151.
2. Cfr. H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, Introduzione di Alberto Martinelli, Edizioni di comunità, Milano, 1996, p. 628.
3. Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della ragione, a cura di Vincenzo Cicero e Massimo Roncoroni, Rusconi libri, Milano, 1996, p. 19.
4. Cfr. S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi  male e potere, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 142.
5. Cfr. H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1927-1975 e altre testimonianze, Einaudi, Torino, 2007, p. 16.
6. Cfr. M. Ravenna, Quando individui ordinari compioni atti “mostruosi”. Relazioni tra banalità del male, obbedienza all’autorità, realizzazione della Shoah, Rivista internazionale di filosofia e psicologia, Vol. 2 (2011), n. 2, pp. 96-113, p. 100.
7. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987.

[Photo credit Arisa Chattasa su unsplash.com]

La politica incontra il male per il bene: Machiavelli e il Divo di Sorrentino

“Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale sanitario alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo; sono morti loro.

Inizia così Il Divo, film del regista Paolo Sorrentino su la vita di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti non era solo un politico, il Divo così soprannominato, fu l’immortale uomo di Stato, tra i maggiori esponenti della Democrazia Cristiana nel lasso 1948-1993 e pilastro indiscusso della Prima Repubblica, conclusasi in merito allo scandalo Tangentopoli.
Un uomo che ci viene raccontato magistralmente dal regista napoletano Paolo Sorrentino, in quello che lui stesso definisce il proprio capolavoro cinematografico, facendosi beffe del premio Oscar La grande bellezza.
Una pellicola dirompente tra realtà e menzogna perché tutto si è scritto sul Gobbo, ma nulla si è veramente compreso. Tutto nascosto dalla sua criptica mimetica, dall’impassibilità nel volto e dell’impenetrabilità della prassi politica. Non è bastata neppure la nota pop voluta nel film, per rendercelo familiare e neanche la maschera di Toni Servillo come interprete. Ma nei dialoghi e nelle citazioni desideranti di immedesimare l’ironia cronica del Senatore, è possibile delineare le dinamiche che lo hanno reso tale nella storia e la formazione politica che lo ha introdotto nelle istituzioni repubblicane.

Il film è ambientato tra il 1991 e il 1993, quando Giulio ancora occupava la vita politica nel Paese. Diventato per la settima volta presidente del Consiglio è in corsa per la successione a Cossiga al Quirinale. Gli ultimi ruggiti pacati del democristiano prima degli scandali giudiziari che lo videro imputato per presunte collisioni con la mafia.
Scene arricchite dai palazzi di potere, dalle correnti di partito, dalle cene e dai festini nelle più celebri palazzine di Roma. Tutto contrapposto alla perenne solitudine nella quale riversava e alle frequenti emicranie che gli impedivano lunghi periodi di lavoro.
Due soli anni per poter delineare, quello che oggi viene definito il politico di professione.
Tralasciando le sue peculiarità fisiche e intellettuali, è doveroso indagarne la formazione politica in termini di opere nelle quali è possibile collocarlo.
Uno di questi è Il Principe1 scritto da Machiavelli nel 1513 trattato di dottrina politica. Fu dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico e duca di Urbino, allo scopo di educare il giovane esuberante e ambizioso alla vita politica, che richiedeva non solo abilità intellettuali ma astuzia, scaltrezza, virtù e resistenza. Tutto per il bene della Repubblica seppur i mezzi da utilizzare possano essere definiti poco benevoli e dall’esito incerto.
Andreotti quest’opera la conosceva bene come la maggior parte della classe dirigente non solo della Democrazia Cristiana ma di tutto il mondo politico. L’ambiente d’allora lo esigeva. Infatti nella Prima Repubblica veniva attuata una democrazia puramente rappresentativa, ancora poco soggetta alle trasformazioni odierne di sistema e ad un’opinione pubblica onnipresente.

La sezione diciottesima intitolata Quomodo fides a principibus sit servanda2, ovvero in che misura i principi debbano mantenere la parola data, è uno dei capitoli più controversi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e venir meno agli impegni sottoscritti ufficialmente.
Viene descritto come il principe d’allora potesse governare servendosi della forza e come dovesse essere per metà uomo e per l’altro bestia.
Una bestialità divisa tra volpe (astuzia) e leone (violenza), entrambe necessarie all’azione di governo. L’astuzia si manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato. Tema che si lega strettamente a quanto affermato nel capitolo XV relativamente alla necessità per il principe di comportarsi in modo non etico perché lo Stato è un valore assoluto da preservare a ogni costo, baluardo contro il disordine e l’anarchia.
Inoltre il concetto della simulazione e della dissimulazione rappresentano i mezzi utili al sovrano per, non avendo tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui, parere di averle. Ciò non significa che il sovrano debba necessariamente compiere il male ma non deve rifuggire dal compiere azioni delittuose se necessitato e, al contempo, badare che non gli esca mai di bocca qualcosa che contraddica le migliori qualità che normalmente ci si attende dall’uomo di governo, per cui egli deve apparire pietoso, fedele, umano, leale, religioso. Un’immagine che identifica Andreotti con tutti i suoi segreti e ben è stata rappresentata nel monologo finale del film di Sorrentino.

“(…)Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute (…) Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta.”

La politica così rappresentata deve includere dentro di sé il male – nella simulazione e dissimulazione – per il bene. Il fine che giustifica i mezzi3 riutilizzando le parole di Machiavelli così che il Principe possa conservare lo Stato nei momenti di crisi.
L’epoca odierna della politica al cui centro risiede la trasparenza incondizionata, ostacola tutto ciò considerando il bene per il bene. C’è da chiedersi dove stia la verità e il buon ordine di governo. Comunque sia, il primo passo è prendere consapevolezza della realtà, agendo di conseguenza, senza dimenticare che la politica prima delle sue correnti è partecipazione.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti
2. Quomodo fides a principibus sit servanda, capitolo diciottesimo del Il Principe, N. Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti p.154
3. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti, cap. XVIII p.155

Immagine di copertina tratta da una scena del film.

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Libri selezionati per voi: settembre 2018!

Con l’arrivo del mese di settembre l’estate sta ufficialmente andando incontro al rettilineo finale della sua corsa 2018. Se vi siete persi i nostri consigli estivi non vi resta che tornare in carreggiata e riprendere a leggere insieme a noi!

Puntuali come sempre, ecco allora a voi le nostre proposte di lettura!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-neve-di-primaveraLa neve di primavera – Yukio Mishima

Primo lavoro della “quadrilogia della fertilità”, Neve di primavera rappresenta a detta di molti critici il romanzo più maturo e ricercato dello scrittore giapponese. La delicatezza della sua penna fa in modo che ad ogni riga il lettore si senta parte della veneranda tradizione giapponese e dei suoi rituali, i quali rappresentano lo sfondo su cui le due storie d’amore e di amicizia si dischiudono. Accanto a una profonda analisi introspettiva, l’autore delinea il lento incedere dell’amore tra Kiyoaki e Satoko, l’acerba capacità del primo di guardare oltre l’amore verso di sé e l’amicizia con il giovane razionale Honda.

 

chiave-di-sophia-palazzo-della-mezzanotteIl palazzo della mezzanotte – Carlos Ruiz Zafón

Zafón, da narratore di storie qual è, rivisita un consueto tòpos letterario indagando come l’animo infantile si riversi e risorga nella coscienza adulta con il suo bagaglio di ricordi, enigmi, interrogativi esistenziali sull’essere umano, sulle scelte e sulla contrapposizione manichea tra bene e male. Tra questi interrogativi si snoda una vicenda ambientata nella Calcutta dei primi anni del Novecento, dove un ufficiale inglese riesce a salvare due gemelli dal loro persecutore e ad affidarli alla nonna materna. Sarà quest’ultima a separare i nipoti per salvaguardarne l’identità. Tuttavia, essi dovranno ben presto raccogliere le ceneri del passato.

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-mastro-don-gesualdoMastro-don Gesualdo –  Giovanni Verga (1889)

Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, dopo il capolavoro di I Malavoglia, Il Mastro don Gesualdo verghiano affronta tematiche care all’autore quali il contrasto tra borghesia e aristocrazia, la contrapposizione tra buoni sentimenti e attaccamento al denaro e il tentativo di riscatto sociale, convogliati nella figura di Gesualdo Motta, unico vero protagonista dell’opera. Già come nei Malavoglia Verga dipinge l’ambiente che lo circonda, approfondendo le debolezze e le aspirazioni di chi si è fatto da sé, effettuando una vera e propria scalata sociale che ha del miracoloso. Ma non tutta la felicità può ruotare attorno all’aspetto economico… Consigliato a tutti coloro che amano riflettere sulla contrapposizione tra affetti e denaro, sugli elementi che ci rendono umani e a cui, spesso, diamo un significato maggiore di quello reale.

 

 

SAGGISTICA

chiave-di-sophia-democrazia-in-trenta-lezioniLa democrazia in trenta lezioni – Giovanni Sartori

Professore emerito all’Università di Firenze e alla Columbia University, Giovanni Sartori propone trenta brevi lezioni volte a offrire delle risposte ai maggiori interrogativi che la Filosofia Politica si pone ormai da decenni. Che cosa significa la parola “democrazia”? Qual è la natura di tale forma politica? Quali sono le condizioni necessarie affinché essa funzioni? Come si può oliare la macchina della democrazia? Perché preferire la democrazia? La democrazia è esportabile? Quali differenze e somiglianze tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni? Qual è il futuro che l’attende?

 

JUNIOR

chiave-di-sophia-quasi-signorinaQuasi signorina – Cristina Portolano

Questo fumetto racconta la storia della sua autrice, nata a Napoli sul finire degli anni Ottanta. Cristina racconta e disegna gli anni dell’asilo e le sculacciate delle suore; le prese in giro degli anni delle elementari a causa dei suoi occhiali; le villeggiature estive a Riccione; infine, il giorno in cui diventò (per fortuna e purtroppo) signorina. Un testo particolarmente adatto a tutte le ragazzine delle scuole medie, che leggendolo acquisiranno un po’ più di fiducia in loro stesse; e a tutti gli adulti che vogliono ritagliarsi una mezz’oretta di lettura per tornare indietro con la memoria agli anni della loro infanzia.

 

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Federica Bonisiol

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Arthur Schopenhauer: la lezione del disincanto

Arthur Schopenhauer, spesso, è ricordato come uno dei più celebri pessimisti che abbia mai osato esprimere la propria opinione. Il suo pensiero è duro, limpido nella sua crudezza, senza fronzoli e diretto; indubbiamente difficile da accettare.

Il pessimismo è una modalità di pensiero che poggia su un unico pilastro: il disincanto. Se la filosofia ha sempre voluto svegliare le menti, aprire gli occhi, e rendere coscienti i cuori, il pessimismo lo fa proprio a partire dal disincanto, dalla disillusione.

Per quanto il primo istinto sia quello di rifuggirlo, vi è un’importante lezione che Schopenhauer ha lasciato e che, probabilmente, non è stata colta.

La filosofia di Schopenhauer è ormai fin troppo nota: il nocciolo della vita, in tutte le sue forme, è un bisogno mai soddisfatto, una fame che non trova sazietà, un impulso senza appagamento. Il destino dell’uomo è segnato nell’insoddisfazione e nell’egoismo, poiché egli intenderà l’altro come strumento, e sarà per coloro che lo circondano un mezzo a sua volta, per placare bisogni e aspirazioni. La direzione degli eventi è tracciata dal dolore e dalla mancanza. Della filosofia di Schopenhauer si è appreso soprattutto questo e altro non si è voluto vedere.

Eppure, proprio il pessimismo di Schopenhauer ha lasciato un profondo insegnamento, che ben si adatta allo scoramento a cui si è abituati.

Se il male, cioè l’egoismo, la mancanza, il dolore, sono la madre dell’esistenza, dov’è il bene? Se è il male il diamante grezzo che l’uomo ritrova scavando dentro di sé, che cos’è effettivamente il bene?

È la più grande conquista dell’essere umano. Schopenhauer parla di diverse forme, attraverso le quali l’uomo può giungervi, ma il percorso è sempre lo stesso.

Quando l’individuo guarda dentro di sé, e trova il suo dolore, la sua voracità, il suo egocentrismo, e ne ha orrore, allora il bene può emergere, in quanto coscienza ed empatia.

Schopenhauer suggerisce, in sostanza, che il bene non è andato perduto, e non è un principio aleatorio e irraggiungibile; è frutto di consapevolezza, e soprattutto, è una vittoria dell’uomo su stesso.

L’effetto di porre il male come fulcro della vita, e il bene come costruzione, sta nel fatto che, d’un tratto, ci si accorge dell’altro non più come strumento, ma come carne che combatte contro lo stesso dolore che si sperimenta ogni giorno. Il risultato del pessimismo di Schopenhauer è che, quando si riesce a intendersi, l’altro non è più invisibile. Quel nucleo negativo diviene così la possibilità di empatia, di apertura.

Il disincanto di Schopenhauer dà così avvio, per chi è pronto ad accoglierlo, alla ricerca del bene, inteso non come perdita in seguito a una colpa o a un’imperfezione, bensì come desiderio di rivoluzione, costruzione, salvezza.

Sebbene questa sia un’interpretazione azzardata del pensiero di Schopenhauer, soprattutto per chi lo conosce bene, è probabilmente quella di cui si ha bisogno.

Se gli autori del passato non sono solo carta stampata, ma possono divenire consiglieri del mondo che conosciamo, in cui i giovani hanno già le rughe agli angoli della bocca, e i vecchi non vogliono ricordare ciò che hanno fatto, allora è necessario proprio il disincanto di Schopenhauer. Egli può insegnare a riconoscere il male come la possibilità del bene, l’egoismo dell’empatia, e che nulla di tutto ciò si ottiene, se non si è pronti a riconoscere se stessi per ciò che si è. Il bene emerge dal male, e lo sovrasta, solo se l’individuo osa guardare in profondità.

Il pessimismo diventa ciò da cui bisogna scappare, solo quando si avvera l’unico rischio insito in sé: la resa alla realtà così come l’abbiamo trovata*.

 

Fabiana Castellino

 

* Per comprendere al meglio la filosofia di Schopenhauer, si consiglia la lettura della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, edito da Einaudi, 2013

[Photo credits: Annie Spratt via Unsplash]

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Grazie perché mi hai fatto male

Seneca disse: «Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto».
Con queste parole si apre questo promemoria filosofico che, forse, non sarà utile solo a me.
Il dolore è una grande forza che corrode, come l’acqua la roccia.
Arriva seguito da uno spiacevole evento, di quale natura non importa, e rapisce per un momento la nostra vita.
Si può decidere di superare il dolore, questo è certo, ma non si può cancellare quella scia che ha lasciato dietro di sé. Il dolore è oggettivo, qualsiasi essere vivente può testimoniare la sua esistenza.
Si può essere coraggiosi e non temerlo, ma ahimè è inevitabile.
Si può pensarlo ma non smettere di provarlo. Urla senza fare rumore, non ha nome, ma sostanza.

Il dolore può sfociare nella sofferenza, che, per fortuna, può placarsi e trovare pace.
Non si parlerà però di resilienza in questa occasione, non vorrei ripetermi.
Questa volta, all’insegna di Seneca, vorrei prendere distanza dal dolore e così facendo ringraziare chi del male ne è stato il fautore. Forse sarà più una lettera che si può leggere senza impegno, ma non senza cuore. Spero possa dare voce anche al tuo dolore.

Grazie a chi oggi ti ha ferito con le parole, si dice che siano più taglienti di una spada.
Tu ringrazia chi ti ha sbattuto la porta in faccia, quella strada forse non era la tua.
Grazie a chi se ne è andato volontariamente e ti ha lasciato solo, ora, se ci pensi bene, ci sarà un posto libero per chi vorrà sedersi e viaggiare con te.
Grazie anche a te che, magari con l’ansia, le fissazioni, le paranoie, quando te ne accorgi diventi più cosciente delle tue preoccupazioni e, perché no, potresti anche riuscire a ridere di te stesso, ricalibrando i pesi del tuo presente.
Potresti dire grazie anche a chi ti ha tradito, ti ha insegnato cosa significa il concetto di fedeltà.

Grazie a chi non ha creduto in te, ora non hai più scuse, devi provare a essere il tuo vero e unico fan. Resti solo tu con la tua interiorità.

Quell’interiorità che Seneca descrive come il solo luogo in cui si può salvaguardare la propria libertà − e aggiungerei serenità − da tutti gli assalti della vita di ogni giorno.
In merito il filosofo latino ci invita ad un semplice esercizio1 senza tempo: prima di un nuovo giorno, dunque alla sera, suggerisce di provare a rivivere la giornata appena trascorsa, di fare quindi redde rationem, una ricognizione di tutto quello che è stato fatto per sincerarsi che si abbia agito nel bene, senza aver recato danno a sé e agli altri.

Il dolore, ad ogni modo, è una forza come l’amore: ti scuote, ti travolge, ti fa a brandelli e non lascia scampo. Durante la tempesta ti scopre da tutte le certezze e spesso ti annichilisce. Tirerà fuori il meglio e il peggio, quello che resta di te.
Tu cosa sceglierai?

Prima di concludere vorrei dare voce anche al mio dolore e mi rivolgo ora a chi mi ha fatto e continua ad arrecarmi dolore.
Grazie, ma nonostante tutto, io sono ancora qui.

 

Al prossimo promemoria filosofico,

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. Tratto da L. Anneo Seneca, De ira, III, 36, edizione Bur, 1998

[Credit Jeremy Bishop]

 

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