Una prospettiva etico-filosofica della magia

La magia oggi non riveste alcun ruolo nella cultura. È scaduta a prodotto di nicchia per creduloni e ambito di perizia per ciarlatani. L’unica magia che si salva è quella oggetto di studio dell’antropologia. È di qui che dobbiamo passare se vogliamo interrogarci sull’eventualità che la magia abbia ancora qualcosa da dirci.

L’universo del pensiero magico potrebbe avere un importante messaggio filosofico da darci. Esso ha a che fare con una domanda cruciale: perché la mente umana, fin dalle sue manifestazioni più remote, ha creato un mondo simbolico immenso? Dall’oscuro serbatoio dei pensieri umani in cui germinano sogni di gloria e incubi di dissolvimento si espande un cosmo di proiezioni cariche di inesauribili contenuti. Questo accade almeno da quando alcuni esseri umani hanno iniziato a trasferire i loro pensieri sui dipinti all’interno delle caverne in cui vivevano. Un mondo in cui magia, spiritualità e conoscenza erano solo sfaccettature della stessa impresa: la fabbricazione di senso.

Il pensiero magico ha sempre accompagnato la vita degli umani, ma ad un certo punto non ce l’ha più fatta, non è riuscito a sopravvivere a due fatali eventi: l’Inquisizione e la Rivoluzione scientifica. Il mondo è cambiato molto da allora, per molti aspetti in meglio, ma non per tutti. Ma torniamo all’antropologia.
Dobbiamo a Frazer, agli inizi del ‘900, il primo importante approccio antropologico alla magia. Sebbene laureato in giurisprudenza, Frazer era molto più interessato agli studi sul folclore e sulle culture cosiddette “primitive”. La sua più famosa opera è Il ramo d’oro1, in cui partì dall’idea di confrontare la singolare pratica, secondo un’antica leggenda italica, di sottrarre un ramo dall’albero nel santuario della dea Diana, a Nemi, per poi procedere all’uccisione del sacerdote in carica e prenderne il posto. Da qui continuò allargando l’indagine su pratiche magiche in culture di tutto il mondo.
Il suo lavoro diventò il punto di riferimento, nonché di critica, per molti autori successivi, come Wittgenstein2 , ad esempio, il quale denunciò come l’idea di “selvaggio” e il punto di vista sulla magia fossero permeati di forte etnocentrismo. Fatto sta che sia Frazer, sia Wittgenstein, ma in generale l’antropologia, sentirono il bisogno di esplorare e spiegare la magia perché fondamentalmente, da un bel po’, non siamo più in grado di capirla. Eppure lei era qui, in mezzo a noi, è stata lume della nostra relazione con il mondo fino qualche secolo fa.
Ma che cos’è la magia? Detto con le parole di Guidorizzi, la magia è “un orientamento del pensiero” che si presenta «come visione obliqua e perturbante del mondo, come una possibile risposta al tentativo di indirizzare la realtà affidandone la guida all’Uomo»3.

La magia come guarda al mondo? In questa risposta credo risieda il potenziale valore etico di questa modalità del pensiero. Secondo la magia l’universo è un tessuto la cui fitta trama lega tutti gli elementi, visibili e invisibili. Potremmo dire che la magia vede a priori quei collegamenti che la scienza cerca di discernere man mano, organizzandoli in termini deterministici. Nella magia tutto è connesso e le formule magiche servono a sollecitare l’intercessione di forze occulte per fini pratici umani.

Nella nostra epoca di sapere parcellizzato e fortemente dominato da un approccio riduzionistico, fatichiamo a cogliere la preziosità della complessità che la magia invece dava come presupposto dell’esistenza. È proprio l’incapacità di vedere la complessità che ci porta a infliggere danni ormai irreversibili all’ecosistema, insensibili alle intime connessioni che tengono in vita il nostro pianeta e noi stessi.
Molte analogie e contrapposizioni sono state evidenziate tra magia e scienza. La seconda, lungo tutto il corso della sua emancipazione, si è resa autonoma proprio a partire dalla magia. Il primo a voler depurare un approccio “proto-scientifico” da uno magico fu Ippocrate, il quale affermò che ogni malattia ha una causa naturale e le pratiche di cura basate su esorcismi, ad esempio, sono fuorvianti se non dannose. In questo caso la superstizione, come la chiamiamo noi ora, era il risvolto di una modalità di visione iper-connessa. Il fatto è che se tutto è potenzialmente interconnesso, è possibile che il risultato sia il caos. Vedere lo spirito maligno al posto di un difetto di conduzione nervosa a carico del cervello, come aveva già compreso Ippocrate nel caso dell’epilessia, distoglieva da più concrete possibilità di cura. Questo accade purtroppo ancora oggi, quando persone che professano poteri guaritivi anti-scientifici arrivano a plagiare alcuni malati, con il risultato di allontanarli da possibilità di cura più efficaci. I veri maghi di un tempo – naturalmente esistevano anche gli impostori – non erano affatto dei ciarlatani: la magia era piuttosto una forma di sapere pre-scientifico.

Dunque, è chiaro che la capacità di orientarsi nella realtà deve essere un compromesso tra una visione eccessivamente “iperconnessa” e una totalmente “sconnessa”, cioè riduzionista e anti-complessa.
Un altro grande pensatore che si dedicò all’antropologia fu Ernesto de Martino. Muovendosi da un background filosofico, egli si approcciò allo studio della magia con l’intento di comprenderne lo sfondo esistenziale. Anche lui la confrontò con la scienza, definendo quest’ultima come un sapere che ha gradualmente ritirato la “psichicità” dalla naturalità4.
Tutte le proiezioni che la mente magica vedeva stagliarsi nell’universo, la scienza le ha man mano dissipate, lasciando solo la materia con le sue connessioni causali. Chiarezza al prezzo della perdita di complessità. La magia, per de Martino, è una risposta all’angoscia prodotta dall’incertezza della propria presenza, quotidianamente messa alla prova dal rischio di scomparire.
Insomma, è lo stesso motivo per cui esiste la filosofia.

La magia è la risposta al rischio di non esserci e lo sciamano è il grande esploratore del limite, colui che possiede le virtù per sfidare il rischio, portarsi alle soglie del caos e porsi come ordinatore della labilità.
E noi progrediti occidentali, digiuni di pratiche collettive e sguarniti di visioni di armonia universale, come ci poniamo di fronte alla nostra angoscia di scomparire? La scienza è preziosa, ma non possiede i requisiti per placare la nostra naturale inquietudine. La magia si è estinta, certamente aveva i suoi difetti, ma non la filosofia. È lei che ci può ancora guidare nell’esplorazione del perduto terreno delle sconfinate connessioni tra gli elementi del cosmo, costruendo significati, mentre la scienza è ormai fondamentale per scartare alcune connessioni rivelatesi fuorvianti. Un approccio complesso alla realtà sulla scorta della capacità “visiva” del pensiero magico è quanto di più etico la filosofia può desumere dalla storia della magia. Con una certa urgenza, oserei dire, visto che cogliere la complessità è la premessa per salvarci.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Editori, 1992, Roma.
2 Note sul Ramo d’oro di Frazer. Ludwig Wittgenstein. Adelphi, 1975, Milano.
3 G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Il Mulino, 2015, Bologna.
4 E. de Martino, Il pensiero magico. Prologomeni a una storia di magismo, Boringhieri, 1973, Torino.

[Immagine tratta da Google immagini]

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Il senso perduto dei riti dedicati ai morti e alle divinità

L’idea che la vita continua anche dopo la morte sembra essere pressoché universale, quasi intrinseca alla natura umana. Questo forse perché la fede in una vita dopo la morte nasce assieme alla capacità di pensiero simbolico che tanto caratterizza gli umani sapiens. Le prime sepolture di cui abbiamo notizia avvenivano in posizione fetale e sono proprio queste a testimoniare la comparsa del pensiero astratto per la forte simbologia presente in questi due elementi: la posizione fetale dà l’idea del feto all’interno dell’utero in attesa di rinascere. Anche il ruolo metaforico della terra è una costante universale perché è il luogo dove si esprime la fertilità della natura e la sua ciclicità vita-morte, basti pensare all’esperienza della semina, in cui solo dai semi interrati si avranno dei germogli. Questo simbolismo rimane parzialmente nel nostro linguaggio: il luogo dove siamo nati è la terra natale, la nostra nazione è la madre patria. Dalla terra nasciamo e alla terra torniamo, secondo natura.

L’antropologia ha evidenziato come in ogni cultura i morti svolgevano un ruolo di medium tra i due mondi affrontando un processo che inizia dal cadavere, passa per una transizione e solo alla fine trova pace. Mentre il cadavere si decompone, i morti manifestano una doppia presenza: sono un po’ nell’oltretomba e un po’ spettri che continuano a girare attorno le case dei loro cari. Il periodo del lutto corrisponde al tempo che serve al corpo del defunto per consumarsi, ma è anche il tempo adeguato perché il lutto dei vivi espleti il suo decorso. Considerato ciò, è necessario saper intrattenere con i defunti dei rapporti adeguati, perché, essendo loro ancora in parte presenti, hanno delle necessità. Vogliono cibo, attenzioni, lusinghe e anche oggetti. Non solo, il morto, essendo entrato nel dominio delle forze misteriose e potenti dell’aldilà, da dove solo alle divinità è stato concesso di tornare, possiede dei poteri e per questo va pregato e ingraziato, in un dialogo continuo che consente ai sopravvissuti di mantenere una relazione con l’oggetto del loro lutto.

Di fronte a ogni morte, tutte le civiltà del passato attuavano rituali basati sulla coesione; nessuno viveva in solitudine la morte se era parte di una società o di un clan e in tutta l’antichità si festeggiava attraverso i banchetti la comunione alimentare con divinità e morti: cibo per i morti e cibo per i vivi.

L’unico modo per combattere il terrore della morte era costruire narrazioni di gloria attorno al confronto con essa e solennizzare attraverso riti di coesione, comunione e condivisione di cibo. Grazie al rituale, era possibile far morire definitivamente il morto nei cuori di chi lo aveva amato. Non dimenticandolo, ma contrastando ritualmente l’effetto paralizzante e parassita di un lutto che non viene portato ad elaborazione finale. I riti, inoltre, creavano una separazione, un momento di interruzione con la vita normale, di sospensione delle attività da parte di tutta la comunità, per dedicarsi assieme alle celebrazioni, nelle quali elementi costanti erano le divinità e il cibo. Una ricostruzione preziosa di questa triplice connessione morti-divinità-cibo/natura ci viene dal lavoro di De Martino1, che in Morte e pianto rituale ci racconta una tradizione millenaria scaturita dallo stretto contatto con la natura e con la forte consapevolezza della sua duplicità: da un lato benevola, quando concede i suoi frutti, da un lato incerta, sfuggente e addirittura pericolosa, quando manifesta il suo lato catastrofico. L’invenzione dell’agricoltura ha concesso agli umani un piccolo spazio di controllo e manipolazione della natura (arare, seminare, curare i germogli e infine raccogliere) ed essendo essa la grande madre, dunque una dea, anche le varie colture erano assimilate a divinità. Quando arrivava il momento del raccolto e con la falce (ancor oggi simbolo della morte) si procedeva a mietere il grano, si compiva l’assassinio simbolico della divinità. E come farsi perdonare questo gesto di prevaricazione verso la natura? Ecco che nasce il canto e il lamento funebre. I contadini delle antiche civiltà mediterranee, mietevano e intonavano pianti funebri collettivi. Non solo, il rito del pianto si svolgeva secondo schemi abbastanza definiti. Una volta che si giungeva all’ultimo covone, esso simboleggiava il covone della colpa, che veniva addossata per intero a chi lo mieteva. Il pianto manifestava il tentativo di espiazione, ma esso si associava anche alla ricerca di un capro espiatorio, che spesso diventava uno degli animali che viveva e si nascondeva nel grano, per il quale si innescava una battuta di caccia. (Capossela ha scritto una canzone bellissima che rievoca questa esperienza come parte delle antiche tradizioni contadine dell’Irpinia: si tratta de “La bestia nel grano”, brano tratto dall’album “Le canzoni della cupa”).

Nel rapporto con la coltura delle piante gli umani si confrontano con l’esperienza della morte, delle divinità e la propria, poiché di fronte alla potenza della natura la nostra sopravvivenza è sempre incerta.

I nostri antenati hanno elaborato le loro angosce di morte costruendo riti collettivi di comunione con l’aldilà e con il divino attraverso la mediazione onnipresente del cibo come frutto concesso dalla natura e dalle sue divinità. Il cibo serviva ad acquietare i morti, ma era anche un pretesto per continuare a occuparsi di loro e contemporaneamente placare l’ansia, oltre che un modo per prendersi cura dell’universale bisogno umano di coltivare il sacro e dialogare con il divino interrogandosi sul ciclo vita-morte.

I nostri antenati mangiavano con i loro morti per digerire attraverso riti collettivi il lutto e per lenire la disperazione per la perdita del caro defunto. Forse noi abbiamo perso la capacità di lavorare attraverso un simbolismo così potente e siamo meno provvisti di rimedi, quando invece gli antichi conoscevano bene le tecniche per lenire il dolore e non soccombere alla follia che minaccia ogni perdita. Ora, dimentichi di millenni di storia di ritualità collettiva, siamo rimasti soli nella nostra individualità e alquanto carenti di strumenti di risanamento di fronte al dolore della morte.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1975.

[Photo credits Ashley Batz su unsplash.com]

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Libri selezionati per voi: febbraio 2018!

Siamo monotoni e pedanti, avete ragione! Ogni mese la nostra selezione bibliografica vuole ricordarvi il piacere della lettura. Ebbene, questa volta vogliamo proporvi un altro punto di vista sulla questione. Leggere, infatti, non è soltanto un piacere. Leggere aiuta.. Aiuta a rilassarsi e a prendere distanza dalle preoccupazioni quotidiane; favorisce le più diverse riflessioni sulla vita e sul mondo grazie ai personaggi con cui, attraverso la lettura, facciamo conoscenza. La lettura è quel piccolo ritaglio di tempo, non importa se di soli dieci minuti o ben tre quarti d’ora, che ci ritagliamo per stare in silenzio, dando forma, colore e dimensione alle parole che, nero su bianco, viaggiano di fronte ai nostri occhi. E allora, avete capito bene: cambino i modi per dirlo, ma la sostanza resta sempre la stessa.. Fatevi compagnia con un buon libro!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

qualcuno-con-cui-correre-grossman-la-chiave-di-sophia Qualcuno con cui correre – David Grossman

In questo suo libro l’israeliano Grossman indaga il mistero dell’adolescenza, superando gli aspetti più capricciosi e meschini per mostrarci la generosità di cui i giovani sono capaci. Il fil rouge è rappresentato dalla cagna Dinka, la quale porta i personaggi a trovarsi e scoprirsi. È Dinka che guida il giovane Assaf in una folle corsa per le brulicanti strade di Gerusalemme, ai cui angoli incontrerà strani ed inquietanti personaggi. Fino all’incontro con una giovane, Tamar.

 

il-valzer-degli-addii-la-chiave-di-sophiaIl valzer degli addii – Milan Kundera

Uno dei romanzi più scorrevoli e semplici di Kundera. La struttura è composta di cinque atti, come del resto l’intera vicenda narrata è suddivisa in sole cinque giornate. Il tempo di un valzer, uno scambio di movimenti, di gesti del corpo in relazione all’altro da sé. L’infermiera Ruzena e il trombettista Klima si propongono come protagonisti ma saranno solo una parte di tale composizione. La staticità è rotta, impedita dalle coppie danzanti, dagli spettatori in sala fino al termine della rappresentazione, fino all’esaurimento di tutti gli atti volti ad un’unica necessaria conclusione degna delle più grandi tragedie greche.

 

UN CLASSICO

se-questo-e-un-uomo-la-chiave-di-sophiaSe questo è un uomo – Primo Levi

Da poco è trascorsa la giornata della memoria, cogliamo l’occasione per consigliarvi la lettura di un classico che molti conoscono ma non tutti hanno letto: Se questo è un uomo di Primo Levi. L’esperienza del lager, narrata in prima persona dal protagonista, coglie la drammaticità della vita precaria di chi è sottoposto ad atroci pene e si intreccia a profonde riflessioni umane. Un percorso che, dagli albori dell’esperienza leviana, attraversa l’intera vicenda storica, non risparmiando le narrazioni più crude, fatti che solo chi ha vissuto in prima persona non riesce a dimenticare. Con grande maestria Levi è in grado di raggiungere il lettore, lasciando una nota a dir poco amara, che segna le coscienze. Un romanzo adatto a tutti coloro che amano lo sguardo storico, la narrazione nuda, efficace che, senza tanti orpelli retorici, racconta la realtà dei fatti, facendo riflettere sui veri valori e sul buio profondo che talvolta riempie l’animo umano.

 

SAGGISTICA

il-ramo-doro-la-chiave-di-sophiaIl ramo d’oro – James G. Frazer

Una grande raccolta in tredici volumi di credenze e tradizioni popolari sulla magia e la religione dei popoli di tutto il mondo, pubblicata tra il 1911 e il 1936. Partendo dal culto di Nemi e distinguendo tra magia e religione, Frazer si sofferma sui riti praticati dai più diversi popoli e tribù. Li spiega in modo coerente, facendo un parallelismo fra la nascita, la morte e la rinascita della vegetazione e la nascita, morte e resurrezione del dio, che viene visto come personificazione della natura, come «dio arboreo».

 

JUNIOR

da-uno-a-infinito-la-chiave-di-sophiaDa uno a infinito – Donata Turlo

Se ai vostri bambini piacciono la matematica, gli indovinelli e gli enigmi questo è il libro adatto a loro. Protagonisti due piccoli-grandi amici, Marcy e Leo, che passano tutti i pomeriggi studiare (e fare merenda) insieme. Dopo lo strano ritrovamento di una chiavetta USB conficcata nel divano di casa di Marcy, i due intraprenderanno un misterioso viaggio davanti allo schermo del vecchio computer del papà di Leo. Un viaggio fatto di enigmi che di volta in volta li porteranno ad un livello di gioco superiore. Chi mai avrà nascosto la chiavetta? Cosa avrà voluto far sapere ai due amici? A voi la lettura per scoprirlo!

 

Sonia Cominassi, Alvise Gasparini, Anna Tieppo, Federica Bonisiol

 

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Twin Peaks: David Lynch e il concetto di “mana”, tra magia e illusione

Una grande tenda rossa, un pavimento a zig zag con motivi bianchi e neri che sembrano rincorrersi all’infinito, una lampada con accanto due grandi poltrone di pelle. Se ci si imbatte anche solo per sbaglio nel nano danzante o nella signora ceppo di Twin Peaks, le reazioni possono essere due: cambiare canale (e successivamente chiamare l’amico che ci ha consigliato di guardare una serie tv ambientata negli anni ’80 e che sembra pura follia) oppure entrare e sederci anche noi in quella sala d’attesa abbastanza inquietante.

Eh sì, perché il regista di Mulloland Drive e Velluto Blu o lo si ama o lo si detesta profondamente. Non sembrano esserci vie di mezzo, o perlomeno, fino ad ora, non ho incontrato nessuno che possa restargli completamente indifferente.  

Semafori lampeggianti, fasci di luce tremolante, cani che abbaiano, suoni che sembrano provenire da un’altra dimensione e personaggi che non hanno più nulla di umano. Il linguaggio visivo di Lynch è ricorrente, ma lungi dall’essere una semplice scelta stilista ed estetica, potrebbe trovare anche una spiegazione di tipo filosofico.

«Stare seduti davanti al fuoco è ipnotico. Magico. Provo le stesse sensazioni con l’elettricità. Il fumo. Le luci tremolanti»1. Nell’opera di Lynch ci sono veri e propri elementi magici. Prendiamo l’elettricità, per esempio, qui sembra essere una forza oscura dotata di vita propria, quasi una manifestazione di qualcosa che nulla ha a che fare con l’elettricità che noi tutti conosciamo grazie alla fisica. Anche il fuoco è un elemento centrale della serie tv che, come ha notato Roberto Manzocco,  quando appare, indica che si stanno per scatenare emozioni molto intense.  

Questa prospettiva sembra ricollegarsi a una mentalità pre-scientifica, primitiva. Per spiegarla si può fare riferimento al concetto di mana, una forza capace di permeare tutto, non solo gli oggetti viventi, ma anche quelli inanimati.

Fu il missionario ed etnologo inglese Codringtone a diffondere questo concetto, esponendolo per la prima volta nella sua opera The Melanesians del 1891. Un’espressione difficile da definire, su cui antropologi e sociologi si sono confrontati a lungo per diverso tempo. Una definizione molto efficace sembra essere quella di Durkheim, storico delle religioni, secondo cui il mana sarebbe: «la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri d’ogni tipo che le religioni d’ogni tempo hanno sacralizzato e adorato»2.

Molti studiosi sostengono che sia proprio il mana ad essere all’origine della religione, dal momento che, rappresentando il sacro per eccellenza, esso si identifica con una forza religiosa collettiva e anonima che è contemporaneamente immanente e trascendente alla realtà.

Per capire questo aspetto, è necessario fare un ulteriore passaggio. In tempi recenti, è stato il filosofo francese Georges Gusdorf a sottolineare come la mentalità primitiva sia essenzialmente monista. In tal senso, per i popoli primitivi non esistono un mondo naturale (governato da leggi fisiche) e un mondo soprannaturale (governato da leggi divine), ma c’è un’unica realtà, che vive e pensa. Che posto assume l’uomo all’interno di essa? Dimentichiamoci la contrapposizione tra soggetto e oggetto, frutto anch’essa di una separazione tramandata da Platone a Cartesio nella storia del pensiero occidentale. Per l’uomo primitivo, l’essere umano è parte integrante di questa realtà, è fuso con essa, la vive e la sperimenta con il corpo e con lo spirito, quotidianamente.

Il mana appare quindi come un approccio fondamentale della visione del mondo degli uomini primitivi, una caratteristica che essi attribuivano a tutto ciò che li circondava: dall’albero alla roccia, anche ciò che è inanimato, infatti, è dotato di questa «capacità di avere intenzioni»3.

Ecco che allora si capisce meglio perché il “mana”, secondo alcuni studiosi, sarebbe all’origine della religione: «[…] se il mana viene attribuito agli oggetti in sé, allora da ciò sorgerà l’idea che tale forza possa essere manipolata, il che porterà poi alla nascita della magia; se invece si riterrà che il mana non appartenga all’oggetto in sé, ma a uno spirito che lo controlla, allora da ciò nascerà la necessità di blandire quest’ultimo, e da questa esigenza si svilupperà successivamente la religione»4.

L’immaginario creato da David Lynch fa riferimento proprio a questa mentalità di tipo primitivo e magico, a una concezione della realtà monista.

Nella cittadina di Twin Peaks, infatti, materia e spirito si fondono, perdendo i propri confini. Ecco allora perchè nulla è come sembra, tutto nasconde una realtà che va al di là di ciò che si vede. É lo spirito, però, a prendere il sopravvento. Insomma, qualcosa mi dice che in Lynch, quel che a noi sembra un sogno è la vera realtà, di cui quella materiale appare come una mera manifestazione illusoria.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. D. Lynch, In acque profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano.
2. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religieuse, p. 284
3. R. Manzocco,  Twink Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, p. 26.
4. Ibidem

[immagine tratta da google immagini]

 

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C’era una volta…

Tutti cresciamo leggendo fiabe e favole o guardando le stesse in televisione.

Da bambini però è difficile capire l’enorme valore che esse celano dietro quegli strani personaggi che ci fanno così ridere e sognare; un valore che deriva da un significato profondo e da un messaggio che le favole e le fiabe vogliono trasmetterci.

Vi è mai capitato di osservare un bambino che guarda una fiaba in televisione o ascolta il genitore mentre gliela racconta? Che emozioni trasmettono i suoi occhi?

Meraviglia, stupore, sorpresa.

Eppure queste emozioni non nascono per caso, ma sono insite nell’essere umano da quando nasce per il bisogno di trovare il senso della sua vita, del mondo, per comprendere la realtà, per conoscerla e capirla.

Sono esigenze che necessitano di risposte e che i bambini trovano nei mondi incantati delle fiabe. Noi adulti, sempre pensando di sapere tutto, sorridiamo e proviamo tenerezza nel vedere l’attenzione incredibile con cui i piccoli guardano o ascoltano le fiabe, senza renderci conto che il loro inconscio sta assimilando esperienza di vita, principi etici e morali, educazione civica, consapevolezza e che tante di queste cose faranno parte della loro esistenza senza che nessuno se ne renda mai conto.

Le fiabe e le favole insegnano e il bambino è il migliore allievo che possano trovare, perché? Perché lui è curioso, ha voglia e necessità di conoscere, scoprire, rispondere ai più grandi interrogativi della vita, ad esempio “come sono nato?”, “dove è andata la nonna?”, “perché la mamma è diversa dal papà” ecc ma cerca risposte anche per gli interrogativi che, a nostro avviso, sembrano più banali, come “perché la Luna è gialla?”, “perché il Sole scotta?” e così via.

La fiaba e la favola permettono loro di riflettere senza snaturare la loro essenza pura e fantasiosa, mettendoli di fronte a situazioni che li inducono a pensare, ad escogitare le loro personalissime soluzioni. Con i racconti fantastici i bambini scoprono la morte, la ricchezza e la povertà, ciò che è buono e ciò che è cattivo, l’uguaglianza, la carità e la condivisione, tutti valori etico-morali che un ragazzino può ben apprendere se spiegati e raccontati in maniera fantastica perché vicina al loro modo di vedere la realtà. Tutti questi input si palesano nell’interiorità del fanciullo come conflitti (“lui è il buono, perché non lo capiscono?”, “perché il signore ha sparato all’orsetto?”, “perché il lupo ha mangiato la nonna?”) che poi cercano risposta nella sua mente e negli adulti che hanno accanto.

I libri di favole possono considerarsi i primi libri di Filosofia che un bambino può incontrare nella sua vita perché racchiudono tutte le questioni principali della nostra esistenza; ciò avveniva nel passato con le favole di Esopo e continua ad avvenire con le fiabe di Walt Disney. Basti pensare alla Cicala ed alla formica che insegna il bisogno di “guardare più in là del proprio naso”, o a Biancaneve e alla pochezza dell’esteriorità, a Pinocchio e al non dire le bugie, a Cappuccetto Rosso e al non fidarsi degli sconosciuti.

Ogni fiaba ed ogni favola racchiudono una morale, un insegnamento che attraversa il corpo fisico del bambino per arrivare a toccare le corde più profonde, smuovendo in lui un universo di emozioni e di consapevolezze; certo, un processo che è difficile che un bambino faccia da solo, ecco perché sono sempre necessari anche un dialogo ed un confronto costruttivi con gli adulti a lui vicino che lo aiutino a ragionare sul significato intrinseco di ciò che hanno letto o visto.

Questo processo mentale di acquisizione inconscia e rielaborazione logico-astratta di informazioni da parte dei bambini può considerarsi un “fare filosofia” , sicuramente grezzo, perché ancora non pienamente consapevole, ma comunque un “fare filosofia”.

Ecco che allora è necessario immergere da subito i nostri piccoli nel mondo fantastico delle fiabe, per fare loro il regalo più bello, quello del comprendere il mondo per comprendere se stessi e non viceversa: più si capisce il mondo attorno a noi, con le sue differenze, i suoi pregi e i suoi difetti, più si ha una visione di se stessi ridimensionata, come parte del tutto così come tutti gli Altri.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google Immagini]