Il tempo, anche quello di Planck. Dialogo con Fabio Fracas

Continua il nostro dialogo con il fisico Fabio Fracas a proposito di un tema su cui da secoli si interroga la fisica e, ancora da più tempo, la filosofia: il tempo. Potete leggere la prima parte all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #13 – Il senso del tempo!

 

In alternativa alla nostra visione ordinaria del tempo scandita in istanti, il filosofo francese Bergson riesce a dimostrare come il tempo che noi viviamo sia invece una durata reale, un fluire interiore costante, che non può essere frammentato in ore, minuti e secondi, perché «La durata assolutamente pura è la forma assoluta della successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore». In tal senso il tempo è allora un processo. Possiamo parlare ancora di un tempo della scienza e un tempo vissuto?

La posizione di Bergson tiene conto proprio di quanto emerso precedentemente. Quello che dobbiamo chiederci – a mio avviso – è se abbia ancora senso, alla luce dei principi controintuitivi della fisica quantistica, dover necessariamente distinguere fra un tempo della scienza e un tempo vissuto e la mia opinione al riguardo è negativa. Cerco di spiegare più approfonditamente questo concetto introducendo una definizione sulla quale – sempre a mio personale avviso – sarebbe oramai necessario che tra filosofi e scienziati (ma più in generale, fra tutti gli studiosi dei diversi campi dello scibile) si aprisse un costruttivo confronto: Quantum-Like. È indubbio che la fisica quantistica abbia condotto a un cambio di paradigma nel pensiero del Novecento ma ciò che sta emergendo è che i nuovi concetti e le nuove logiche introdotte da questa branca della fisica ora potrebbero essere utilizzate ‘in senso lato’ anche per descrivere eventi e fenomeni che non si collocano materialmente all’interno del ristretto ambito della fisica delle alte energie.

Nel caso di Bergson, con un approccio Quantum-Like si potrebbe ipotizzare che esista una dualità tempo della scienza/tempo vissuto – analoga ma solo dal punto di vista logico a quella onda/corpuscolo appena descritta – che fa sì che entrambe le rappresentazioni del tempo convivano simultaneamente fino a quando chi ne fa esperienza non ne determina la concretizzazione nell’una o nell’altra forma. Il tempo della scienza, quindi, non sarebbe più l’unica rappresentazione del tempo vero cronologico dato che anche il tempo vissuto, coincidente con la durata della coscienza, ne costituirebbe una sovrapposizione.

 

La questione del tempo è stata al centro del dibattito filosofico sin da Aristotele, il quale definì il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 12, 219 b). Nella concezione neoplatonica, da Plotino ad Agostino, il concetto di tempo è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all’anima e alla sua «vita interna». Per Plotino il tempo, «immagine dell’eternità» (Enneadi, I, V, 7) è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato all’altro della sua vita. Interessante è la relazione posta tra tempo e l’eternità, relazione che sembra descrivere molto bene il nostro rapporto con lo scorrere del tempo e la sua difficile accettazione. L’eternità è infatti desiderio profondo dell’uomo. Perché secondo te c’è questa forte tensione all’eternità e dunque all’immortalità?

Il rapporto fra l’uomo e il tempo è l’elemento cardine che consente la definizione di concetti molto profondi e complessi come la crescita e l’evoluzione sia personale, sia sociale, sia di specie. In questo senso è collegato direttamente al grande mistero della vita e di conseguenza, alla tensione per l’immortalità e alla paura della caducità umana. Per Plotino, come giustamente ricordato, il tempo è ‘immagine mobile dell’eternità’: si articola in passato, presente e futuro ed è solo grazie all’unità e alla correlazione di questi tre momenti che è possibile percepirlo e definirlo. «Se alle cose generate si togliesse il futuro, esse cadrebbero immediatamente nel non essere, perché così acquisterebbero a ogni istante qualcosa di nuovo; se alle cose non generate si aggiungesse il futuro, accadrebbe loro di decadere dalla dignità di esseri veri» (Enneadi, III,7,4).

Il ‘non essere’, in Plotino è direttamente connesso al non avere un futuro e di conseguenza, se si pensa alla parabola della vita umana – dalla nascita, all’età adulta, alla vecchiaia – la morte fisica viene a coincidere con la mancanza di un futuro e al ‘non essere’ dell’individuo stesso. Al contrario, l’eternità in senso aristotelico coincide con “ciò che è fuori dal tempo” e in questa accezione viene successivamente sviluppata fino ad arrivare alla determinazione di ‘eterno presente’ formulata da San Tommaso. Un eterno presente, cristallizzato nel pensiero cristiano, al quale sono estranei tempo e successione, principio e fine.

Eppure, secondo il filosofo Emanuele Severino, quando Aristotele afferma che la filosofia nasce dal ‘thauma’ non intende dire che nasce dalla ‘meraviglia’ bensì da un ‘angosciato terrore’. La filosofia stessa, quindi, sarebbe una forma di difesa nei confronti della morte, pericolo estremo dell’uomo. Nel Congresso Internazionale “All’alba dell’eternità” del 2018, Severino propone il seguente pensiero: «La filosofia non nasce come atto di meraviglia di “intellettuali” o di professori di filosofia di fronte a problemi che non sono in grado di risolvere, ma come difesa nei confronti del pericolo estremo per l’uomo. L’uomo da quando vive si difende dalla morte iscrivendola in un senso globale del mondo, in cui egli stabilisce un’alleanza con quelle che ritiene le potenze supreme, tentando in tal modo di arginare il pericolo della morte. Ma la filosofia comprende che il mito non può difendere adeguatamente dalla morte e che è necessario in relazione al terrore un rimedio che abbia i caratteri dell’incontrovertibilità».

Tendere all’immortalità, sconfiggere la morte, può quindi coincidere con la ricerca di un senso profondo della realtà stessa o quanto meno di quella parte di realtà che noi esseri umani siamo in grado di percepire, riconoscere e interpretare.

 

Se guardiamo alla filosofia contemporanea, Martin Heidegger invece di delineare una definizione della nozione di tempo (in Essere e tempo), considera la temporalità nelle sue tre dimensioni: passato, presente e futuro, come le caratteristiche costitutive dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo (l’esserci, il Dasein) e, come tale, legato al passato, al presente, ma anche proiettato nel futuro attraverso le proprie progettualità. Con quale approccio tu ti confronti con questa tripartizione? Sia in quanto fisico, sia in quanto Uomo.

Come ho scritto anche all’interno del mio saggio del 2017 Il mondo secondo la fisica quantistica (Sperling & Kupfer Editore), la mia personale opinione “è che la filosofia e la fisica – che dialogano fra loro dal tempo degli antichi greci e probabilmente ancora da prima – con l’avvento della fisica quantistica sono state obbligate a confrontarsi profondamente l’una con l’altra per cercare di definire, assieme, una nuova chiave di lettura della realtà”. Premetto questa considerazione, perché ritengo – almeno per quanto mi riguarda – che non esista una distinzione fra quello che, in quanto fisico, conosco della Natura e ciò che, come Uomo, ho la possibilità di esperire ogni giorno. E naturalmente, questa mia posizione vale anche nei confronti del tempo.

Il Dasein di Heidegger, come Essere costituito dalla propria temporalità, è una definizione traducibile con “Esser-ci” (espressione introdotta da Pietro Chiodi), dove il suffisso “ci” serve per indicare la modalità con cui l’Essere si manifesta concretamente nella storia. Dasein, quindi, nella mia personale comprensione può significare l’assumersi il proprio ruolo nel momento in cui è necessario farlo: essere ‘là’ e in quel momento. In questo senso, il passato, il presente e persino il futuro possono rivelarsi tutte occasioni giuste per esserci, in differenti modalità e situazioni. Certamente, ciò che è stato già lo conosciamo, quello che stiamo vivendo lo scopriamo attimo dopo attimo e sul futuro possiamo solo fare delle congetture e delle previsioni, ma se osserviamo questa tripartizione come un rivolo che scorre dalla sorgente e ingrossandosi si trasforma in un fiume per poi sfociare al mare, possiamo avvicinarci al senso stesso dell’ineluttabilità. È vero: il flusso dell’acqua potrebbe interrompersi per un periodo di tempo più o meno lungo, essere deviato da un impedimento o potrebbe verificarsi un qualsiasi altro evento; ciononostante, prima o poi arriverà al mare. E questa certezza, che contrasta ontologicamente con l’eterno presente di San Tommaso, diventa essa stessa dubbio quando, seduti in un punto della sponda, contempliamo solo quel breve tratto del fiume che ci si para dinnanzi.

Il dubbio, nella mia personale visione, diventa quindi l’unico strumento concreto a mia disposizione – sia come fisico sia come Uomo – per confrontarmi con la Natura, con la realtà e con il tempo. Una posizione già nota ed espressa chiaramente anche dal filosofo Bertrand Russell, “Non si dovrebbe mai esser certi di niente, perché nulla merita certezza, e così si dovrebbe sempre mantenere nelle proprie convinzioni un elemento di dubbio, e si dovrebbe essere in grado di agire con vigore malgrado il dubbio”; e ancora più radicalmente da Voltaire: “Il dubbio è scomodo ma la certezza è ridicola”.

 

Elena Casagrande

 

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Pascal e il Kundalini Yoga: due filosofie a confronto

«Noi conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi principi ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli». 
Pascal, Pensieri, edizione Bompiani, anno 2000, pensiero 479

In questo famoso brano dei suoi Pensieri, Blaise Pascal (1623-1662) ridimensiona il ruolo della ragione come unica facoltà conoscitiva, aggiungendo un’altra facoltà, il cuore.
Come sarebbe un mondo in cui cuore e pensiero razionale lavorano in sinergia? In cui conoscere possa significare anche sentire, capire, comprendere col cuore e forse avere una prospettiva più ampia e completa della realtà che ci circonda?

Per Pascal l’uomo non è solo cervello e non conosce solo con esso: è ragione e cuore, pensa con entrambi. Cuore e intelligenza sono dunque in sinergia: la razionalità dimostra di essere un’ottima chiave per conoscere l’universo fisico, ma una chiave limitata per aprire il mondo ben più ricco e complesso della realtà intesa in senso più ampio, in primis della realtà intima dell’uomo. Quando parla di cuore, o meglio di intelligenza del cuore, Pascal si riferisce all’idea delle Sacre Scritture, nelle quali il cuore rappresenta il baricentro intellettuale e morale della persona e il luogo di incontro con DioNe deriva che il pensiero, che costituisce per Pascal il proprium dell’uomo, è un pensiero del cuore che sente, che intuisce, che ha una sua finezza– e della ragione insieme.

Ma Pascal non è il solo a parlare dell’importanza di conoscere col cuore e centrarsi sul cuore.

La riscoperta del “potere” del cuore è il fulcro del Kundalini Yoga, di cui maestro e fondatore è stato Yogi Bhajan, che dall’India ha portato le conoscenze e la filosofia del Kundalini in occidente nel 1969.

«L’amore è il flusso costante e consistente della vita. È il veicolo del Prana. È il Divino che si manifesta nella radiosità. È, è sempre stato e sempre sarà».
Yogi Bhajan, 6 gennaio 1986

Ho avuto la fortuna di avvicinarmi a questi insegnamenti e precetti durante il periodo di “permanenza” forzata a casa a causa del Covid. Il Kundalini Yoga non si limita a insegnare l’esercizio fisico, la meditazione e le tecniche di respirazione yoga in quanto tali, ma insegna alle persone come vivere, come relazionarsi tra loro, e come relazionarsi a Dio riscoprendo la centralità del cuore, senza tralasciare però l’importanza di una mente lucida e di un pensiero razionale chiaro.

Guru Rattana Kaur, allieva storica di Yogi Bhajan, spiega molto accuratamente le tecniche, ma soprattutto la filosofia racchiusa nel Kundalini Yoga. Nel manuale L’evoluzione a un mondo centrato sul cuore con il Kundalini Yoga e la meditazione (edizioni Macro 2016) scrive:

«Yogi Bhajan ha proposto un percorso spirituale in cui l’elevazione non implica di trascendere il corpo. Ci ha offerto una tecnologia spirituale adatta alla gente comune, che ha famiglia, che vive in ambienti urbani, si sposa, ha dei figli e si guadagna da vivere. In definitiva, ci ha insegnato a onorare la nostra umanità, a rendere sacra la sessualità, incoraggiandoci a essere prosperi».

Il centro energetico del cuore, insegna il Kundalini, ha un impatto che è 108 milioni di volte più efficace di quello della testa.

Due filosofie molto diverse, quella di Pascal e quella indiana del Kundalini, ci conducono alla stessa riflessione: l’uomo non è solo cervello, è anche e soprattutto cuore. Nel cuore trova il suo baricentro, la sua intimità, la sua scintilla divina. Che mondo sarebbe se riuscissimo davvero a farli “lavorare” in sinergia, senza prevaricazioni?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Nicola Fioravanti su unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Medicina e filosofia nella cura del corpo: intervista a Maria Teresa Russo

La bioetica è una delle applicazioni pratiche della filosofia più note. Il corpo e la sua salute e dignità sono al centro di questa disciplina al fine di evitare, nella pratica medica, la visione del corpo come di un mero oggetto. Ne abbiamo parlato con Maria Teresa Russo, professore associato di Filosofia Morale e Bioetica presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre. Dirige la rivista MEDIC. Metodologia didattica e innovazione clinica, che si propone come uno spazio di dialogo tra scienze umane, tecnica e scienze biomediche. La prima parte dell’intervista si trova pubblicata nella nostra rivista La chiave di Sophia #12 – Sentieri del corpo.

 

Platone ha inaugurato l’idea del corpo come luogo delle dicotomie. Forse voleva semplicemente dare voce all’antitesi che la dimensione della materia corporea, per sua natura finita, crea quando si confronta con l’anima, o comunque si voglia denotare quell’altra dimensione, immateriale e protesa verso l’infinito, insofferente ai dettami della materialità. Attraverso più di due millenni di rimaneggiamenti, ci scopriamo ancora oggi intenti a gestire la pesante eredità lasciataci da Platone. A suo parere a che punto ci troviamo?

Non parlerei di “pesante eredità” in riferimento al pensiero platonico, al quale va il merito di aver tematizzato la grandezza della psyché, dell’anima, la dimensione immateriale e quindi immortale dell’uomo, che gli consente di pensare le Idee eterne e che richiede una cura ben più attenta di quella rivolta alle cose materiali. Certamente il dualismo platonico, anche per influenza dell’orfismo, ha svalutato il corporeo e lo ha reso una dimensione accidentale dell’uomo; questa posizione avrà poi un lungo seguito nella storia del pensiero. La ritroviamo, con le debite variazioni, nel dualismo cartesiano, ma oggi vedo più diffusa una tendenza materialista che, anche per l’influenza delle neuroscienze, rischia arbitrariamente di ridurre le operazioni dell’anima a meccanismi cerebrali, come il fisicalismo dell’homme neuronal di Changeux. Francis Crick pretendeva addirittura di aver individuato la sede cerebrale del libero arbitrio “nel solco cingolato anteriore, accanto all’area 24 di Brodmann, in area corticale frontale, o comunque nelle sue vicinanze”! 

 

Ci sono, secondo lei, importanti differenze tra Occidente e Oriente nel decorso che ha avuto la storia della dicotomia corpo-mente e corpo-mondo?

L’espressione “corpo-mente” è squisitamente moderna e ha la sua origine soprattutto a partire dall’ambito anglosassone. Fino alla modernità si parlava della coppia corpo-anima o corpo-spirito, espressione quest’ultima che comunque si conserva anche in filosofi contemporanei, come Bergson, visto che il sottotitolo di Matière et Mémoire (opera del 1896) è Essai sur la relation du corps à l’esprit. Mind o mente segna lo slittamento dall’orizzonte metafisico a quello gnoseologico: non è neppure la res cogitans cartesiana, perché non è una res, ma l’insieme delle sue funzioni. Detto questo, la differenza radicale è tra civiltà permeate dal pensiero ebraico-cristiano e civiltà dove questo è rimasto marginale o del tutto assente. Nelle prime troviamo la valorizzazione del corporeo e di tutto ciò che vi si riferisce. La teologia della creazione con la nozione dell’uomo come “immagine di Dio”, ma soprattutto la religione dell’Incarnazione, hanno apportato una novità rivoluzionaria in merito al valore del corpo. Ne è un esempio il dogma della resurrezione, in corpo e anima, che tanto scandalizzò gli Ateniesi quando Paolo di Tarso parlò all’Areopago. Pensiamo all’importanza del secondo concilio di Nicea, del 787, che pose fine alla lotta iconoclasta, decretando che si poteva rappresentare Dio in immagini, visto che si era reso visibile in un corpo.

 

Il prof. Umberto Galimberti sostiene che la medicina, che nasce come scienza dei cadaveri, necessita di oggettivare, sezionare, ridurre e astrarre per focalizzarsi sulla condizione degli organi malati, perdendo, per forza di cose, il malato come intero e come persona sofferente. Secondo lei è qualcosa di inevitabile o la cultura medica potrebbe essere differente?

Si tratta della nota tesi espressa da Foucault in Nascita della clinica (1963), secondo cui la medicina si caratterizza per la considerazione della vita a partire dalla morte, dato che i suoi progressi si devono allo sviluppo dell’anatomia, ossia alla dissezione e studio dei cadaveri. Visto che in tempi recenti si è rimproverato allo scomparso filosofo francese un uso fin troppo disinvolto delle fonti, forse si potrebbe avanzare qualche riserva a questa tesi, anche riflettendo sul fatto che il grande balzo in avanti della medicina è soprattutto merito della biologia, scienza dei viventi, per l’appunto. Ad ogni modo, è innegabile il rischio che la medicina da arte della cura si possa trasformare in tecnica delle cure, considerate in ottica “tayloristica”, ossia da catena di montaggio. Oggi però assistiamo a un grande movimento di reazione a questa tendenza, che propone un’umanizzazione della medicina, anche attraverso l’introduzione della narrativa nella relazione terapeutica e delle Medical Humanities nella preparazione del personale sanitario.

 

Oggi la tecnica applicata alla medicina è diventata occasione di ulteriori conflitti tra corpi e idee. Le ragioni di un desiderio che si strugge per cessare la vita in un corpo che non funziona più, o piuttosto per procrastinarne la vita, oppure la presenza pressioni al potenziamento indefinito della longevità (dei più abbienti) o alla manipolazione delle caratteristiche dei nascituri, sono tra gli argomenti più scottanti che la bioetica si trova a trattare. A suo parere, la bioetica riceve da parte delle istituzioni e della società l’attenzione che merita o dobbiamo promuovere maggiore considerazione riguardo le sue pratiche?

Nata per rispondere a un problema, la bioetica sembra essere divenuta essa stessa un problema, fonte più di conflitti che di pacificazioni, perché risente dell’eclissi di un éthos condiviso. Quindi la figura del bioeticista si vede assegnati alternativamente due ruoli: il primo, negativo e censorio, di chi intende “mettere paletti” all’avanzata della scienza, un ruolo di guastafeste del progresso che non può senz’altro attirargli delle simpatie. Il secondo è quello giustificazionista, di chi elargisce assoluzioni e distribuisce lasciapassare alle nuove frontiere della scienza, attirandosi il consenso dei più. Si sente quindi la necessità di una metabioetica, ossia di una riflessione critica della bioetica su sé stessa. Non può costituirsi come una disciplina di “pronto intervento”, che si convoca a cose fatte, per correggere o approvare. Deve invece precedere e accompagnare la ricerca scientifica, proporsi come un’etica del ricercatore o del medico, piuttosto che come un giudizio critico sulla frontiera già raggiunta o sul prodotto della ricerca. Il suo compito è fornire un orientamento perché la scienza biomedica si diriga sempre verso la costruzione di un mondo più umano. Ma per farlo ha bisogno di mantenere vivo l’interrogativo sull’uomo e sulla dignità della sua vita: si è umani dal concepimento alla morte, senza se e senza ma.

 

Pamela Boldrin

 

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

copertina-abbonamento-2020_nuovo

“Mamma, il mio compagno di banco è strano”

Quando qualche anno fa accettai una breve supplenza come docente di sostegno, riconosco che nutrivo qualche dubbio sull’utilità di far frequentare la scuola superiore ad alunni con disabilità gravissime insieme ai loro coetanei normodotati. Che cosa potevano imparare in classe? Che tipo di relazione poteva instaurarsi tra loro e gli altri ragazzi? Giorno dopo giorno ho trovato risposte sorprendenti a tutte le mie domande.

Nella routine scolastica ciascuno dei compagni di classe metteva in atto meccanismi diversi nel relazionarsi con il compagno disabile. Tali comportamenti spaziavano dall’ignorare o escludere il compagno, fino a schernirlo. Ben presto ho compreso che l’atteggiamento dei compagni era il frutto di un grosso sbaglio: nessuno dei ragazzi aveva gli strumenti per imparare a leggere e decifrare ciò che a prima vista appariva talmente diverso, da essere insignificante o addirittura oggetto di derisione.

Molti anni dopo, il mio bambino tornando da scuola mi disse: “Mamma, il mio compagno di banco è strano… non sa parlare, non cammina, fatica a muoversi e se si muove, fa gesti senza senso… a volte ho anche un po’ paura”. Ho deciso quindi di fornire a mio figlio gli strumenti per aiutarlo a conoscere e a confrontarsi in maniera attiva, dinamica e propositiva con quella stranezza. Non è necessario fornire complesse spiegazioni di carattere clinico, l’importante è non nascondere la diversità, non occultarla per pudore o per compassione.

Se scegliamo l’espediente dell’omissione, se decidiamo quindi di celare per non turbare la sensibilità altrui, la paura prenderà il sopravvento: il compagno disabile resterà “strano” per sempre e l’integrazione con la classe diventerà una chimera. È esattamente qui che la bioetica mi viene in aiuto, perché soltanto sul terreno etico posso e devo individuare l’esistenza di un medesimo referente ontologico tra mio figlio, “normodotato”, e il suo compagno “strano”, disabile: sono entrambi portatori della stessa dignità di persona umana. Infatti, la non attuazione di determinate capacità o atti non implica l’annullamento ontologico della persona: puoi impoverire esteriormente o fenomenicamente l’essere, ma non modifica la sua natura sostanziale. La persona portatrice di handicap va considerata nella sua peculiare individualità e valorizzata nella società secondo quelli che sono i suoi talenti e le sue possibilità.

Lo stesso modello bio-psico-sociale, affermatosi negli ultimi anni, proietta la disabilità oltre il singolo richiedendo il coinvolgimento attivo non solo della famiglia, ma anche delle istituzioni (scuola) e della società, in una relazione dinamica che possa aprire ad un mondo nel quale il disabile sia al centro di una rete relazionale e sinergica. L’etica suggerisce di operare attraverso un processo di normalizzazione, che rifiuta una passiva accettazione dell’handicap, un passivo assistenzialismo, e che punta a superare le barriere fisiche e psicologiche per compensare quel margine che rimane insuperabile della personalità integrale. Ovvero, laddove non si potrà rieducare pienamente il corpo, sarà doveroso cooperare per cercare di riabilitare la persona nella sua globalità funzionale, psicologica e affettiva. Tale orientamento richiede un modello d’azione che renda capace il disabile di recuperare la gestione di se è il proprio inserimento globale nella società. Quindi, autonomia diventa la parola chiave, autonomia diventa una meta da raggiungere ma anche un metodo da applicare.

Ecco la risposta a tutte le mie domande, ecco la “chiave di volta” per aiutare mio figlio ad approcciarsi al compagno di banco “strano”. Impareranno l’uno dall’altro cose diverse, ma altrettanto importanti. I nostri figli e i nostri alunni comprenderanno che, in una società nella quale si avverte sempre più la pressione verso una civiltà del fare e produrre, è importante prendere atto che nella vita delle persone portatrici di handicap, come in quella delle persone normodotate, le proprietà e le qualità superiori dell’uomo non sono sempre presenti, vanno e vengono, possono essere ostacolate e modificate in qualsiasi momento da fattori interni o esterni all’uomo stesso.

Impareranno che è necessario mettere un po’ da parte quella ricerca spasmodica di perfezione, efficienza e tecnocrazia che attanaglia il nostro vivere. Avvertiranno la necessità di propendere verso una civiltà dell’essere e del donare che sono esigenza reale e urgente di ogni essere umano in quanto persona.

 

Silvia Pennisi

 

[Photo credits youssef naddam su unsplash.com]

copertina-fb

La T.A.Z. come tattica insurrezionale: Bey, i rave e le prove di liberazione

Un dizionario storico un po’ acritico chiamerebbe “insurrezione” quel moto di rivolta spentosi ancor prima di poter produrre qualche cambiamento. Una sorta di spasmo fuggiasco. Della “rivoluzione” direbbe invece che è un totale riassestamento dei volti della Storia, una febbre efficiente, qualcosa al limite del necessario.

Se queste sono le definizioni però, un saggio che si trovasse a soppesarle sarebbe diffidente: cosa apporta in effetti la rivoluzione se non un’altra idea di paradiso? È solo Stato che sostituisce lo Stato, cosa storica perché giustificata dalla sua vittoria. Il movimento dell’insurrezione invece è diverso: se all’inizio si profila come una curva uscente, poi però si ripiega e torna nella via principale. Fallisce, non fa Storia e non viene giustificata. La rivoluzione è valida perché ha il consenso burocratico dei suoi stessi nemici; l’insurrezione è invece scalzata da qualsiasi ufficiosità perché considerata alla stregua di un brivido della Retta.
La rivoluzione allora delude; l’insurrezione invece ci si avvicina. C’è chi addirittura la privilegia alla prima come mezzo per ridimensionare il potere, come l’eclettico Hakim Bey nel suo saggio sulla T.A.Z., la Temporary Autonomous Zone (H. Bey, T.A.Z.). Con questo acronimo Bey si riferisce a degli spazi liberati dalla Mappa dello Stato che per un periodo indeterminato di tempo offrono la riscoperta dell’immaginazione e del contatto non mediato tra esseri umani.

Le T.A.Z. sono zone iconoclaste, anarchiche, generatesi per improvvisazione, partecipi di uno spirito a un tempo festante e sedizioso, vissute da organizzazioni più o meno orizzontali che agiscono lontano dall’occhio della Legge. Sono come “reti nella Rete”. A titolo d’esempio, citeremo gli spazi urbani che negli anni ’90 venivano occupati dai raver per coltivare la loro contro-cultura e inselvatichire un luogo reso civile dalla tassazione. Non vi era però violenza nei loro atti (auspicabilmente), dacché queste sono le conseguenze di un moto rivoluzionario, dedito alla realizzazione di un ennesimo Programma, mentre nessuna T.A.Z. ha mai creduto in esso, né nella Storia, né tantomeno nello Stato. Chi vive la T.A.Z. crea soltanto un’alternativa spirituale all’uniformità della scolarizzazione; va dietro le quinte e armeggia con quello che era stato lasciato là dietro.

La T.A.Z. è dunque uno strumento insurrezionale nel senso di una tattica ninja. Bey non tarda a definirla, quando conscia, un’arte marziale, nel senso di una coreografia del movimento che lascia il nemico disorientato. Allo stesso modo l’insurrezione è nomade, imprevedibile, psichicamente maliziosa, e più che attaccare il nemico gioca con lui, trasformando le sue armi in punti deboli. Un collettivo di dj diffonde la notizia di una festa abusiva (ossia gratuita) giù alla spiaggia e cominciando a montare l’attrezzatura disobbedisce. Lo Stato-Storia non riesce a prevederlo; la sua dialettica riferisce questi atti alla memoria di sommosse fallimentari che non ha avuto l’accortezza di studiare; così, nel momento in cui interviene per sedarli, questi si son già dissolti, i princìpi già nascosti, l’insurrezione ha già smarrito i suoi provocatori, ma solo per restare a covare e riapparire all’improvviso da un’altra parte.

Il techno-raver ci insegna che la libertà positiva sta in noi, che la T.A.Z. è l’individuo. In queste interzone l’individuo usa se stesso e genera la discordia del Bene – interroga il Maestro. Lo guida lo spirito musicale, perché ogni ribelle si s-catena quando sente la musica. Ora che non appartiene più allo Stato-Storia, ricorda a questo che non può agire impunemente e a se stesso che la pienezza è possibile. Si avventura nella ricerca di un senso nuovo dell’Umano che tradisca quanto confezionato dalla Fabbrica e mostri quanto buono sia questo tradimento (da qui il filone dell’insurrezione trans-umanista). L’individuo-T.A.Z. è l’eccezione cosciente di se stessa, il tempo liberato dal ticchettio.

Dovrebbe essere garantito universalmente il “libero diritto alla festa” come compromesso con lo Stato-Storia – aiuterebbe lo spirito ad amarsi. L’insurrezione intanto prepara quel che sarà. Non ci sono ancora i mezzi per una rivoluzione, ma c’è la capacità di comportarsi come virus. Forse il vero dramma sta nel fatto che non ci sarà mai tempo per una rivoluzione; crollerà tutto prima. Ma ballando con le Streghe, navigando coi Pirati e sognando coi Mutanti, impareremo almeno a essere spiriti che conoscono il mondo.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Spencer Imbrock via Unsplash]

copabb2019_ott

Call for Artists: realizza la Cover #3 della nostra rivista!

La Chiave di Sophia sta cercando nuovi illustratori, fotografi e artisti per realizzare la COVER #3 del prossimo numero cartaceo della nostra rivista.
Inviaci una tua idea all’indirizzo info@lachiavedisophia.com, potresti essere selezionato come autore della terza copertina della nostra rivista cartacea!

Chi siamo

La Chiave di Sophia è un progetto nato dall’esigenza di ridar luce alla Filosofia, materia molto spesso considerata astratta e poco pratica. Oggi La Chiave di Sophia è una rivista di Filosofia pratica registrata al Tribunale di Treviso. Una delle sfide che si propone è di tenere insieme la diversità, segno dell’autentica ricchezza del pensiero. Molteplici profili e discipline coinvolte nell’obiettivo di mostrare quanto sia permeabile lo spazio tra la filosofia e la quotidianità. È una rivista on-line ma anche cartacea (#1 clicca qui) oltre a porsi come organizzatore di eventi culturali.

Chi stiamo cercando

Cerchiamo artisti, illustratori, designer, fotografi che abbiano voglia di mettersi in gioco, illustrando la copertina del terzo numero della nostra rivista cartacea, dedicata al tema dell’viaggio: cosa potranno dire le discipline filosofiche, di pensiero autonomo, riguardo a questo tema?

Come partecipare

Invia la tua candidatura e la tua proposta di cover all’indirizzo email info@lachiavedisophia.com, corredata da una descrizione che possa restituire – seppur in poche parole – l’idea che sta dietro all’illustrazione; ed un breve profilo biografico.

L’artista selezionato sarà retribuito per il lavoro svolto.

Bando 2 – 2017

Il progetto grafico dovrà interpretare il seguente tema:
Oltre i confini del viaggio.
La complessità del mondo attuale ci spinge a indagare forme e significati del viaggiare: dal comune movimento alla ricerca di sé e l’incontro con l’Altro.

Per il tema completo e per leggere l’abstract clicca qui

Formato e layout
Il formato della cover dovrà essere di 20×27 e dovrà contenere lo spazio per alcuni degli elementi fissi: il marchio testata, numero, mese, anno, codici ISSN e codice e barre, titolo e sottotitolo e eventuali articoli in evidenza. A eccezione del marchio posto in alto, la disposizione degli altri elementi è a scelta dell’artista. Qualunque tecnica è ammessa purchè il lavoro poi venga consegnato in formato digitale (TIFF) con una risoluzione minima di 300dpi.

Scadenze
9.04.2017 – Invio della candidatura e consegna delle proposte grafiche
12.04.2017 – Comunicazione progetto selezionato
21.04.2017 – Consegna delle grafiche definitive

BANDO PROROGATO FINO AL 21 APRILE 2017

Comunicazione progetto selezionato 24.04.17

Per maggiori informazioni contattare l’indirizzo info@lachiavedisophia.com

Bando scaricabile: qui

Call for Artists: realizza la Cover #2 della nostra rivista!

La Chiave di Sophia sta cercando nuovi illustratori, fotografi e artisti per realizzare la COVER #2 del prossimo numero cartaceo della nostra rivista.
Inviaci una tua idea all’indirizzo info@lachiavedisophia.com, potresti essere selezionato come autore della seconda copertina della nostra rivista cartacea!

Chi siamo

La Chiave di Sophia è un progetto nato dall’esigenza di ridar luce alla Filosofia, materia molto spesso considerata astratta e poco pratica. Oggi La Chiave di Sophia è una rivista registrata al Tribunale di Treviso di Filosofia pratica. Una delle sfide che si propone è di tenere insieme la diversità, segno dell’autentica ricchezza del pensiero. Molteplici profili e discipline coinvolte nell’obiettivo di mostrare quanto sia permeabile lo spazio tra la filosofia e la quotidianità. È una rivista on-line ma anche cartaceo ( #1 clicca qui) oltre a porsi come organizzatore di eventi culturali.

Chi stiamo cercando

Cerchiamo artisti, illustraotori, designer, fotografi che abbiano voglia di mettersi in gioco, illustrando la copertina del secondo numero della nostra rivista cartacea, dedicata all’urgente tema dell’ambiente: cosa potranno dire le discipline filosofiche, di pensiero autonomo, riguardo a questo tema?

Come partecipare

Invia la tua candidatura e la tua proposta di cover all’indirizzo email info@lachiavedisophia.com, corredata da una descrizione che possa restituire –seppur in poche parole– l’idea che sta dietro all’illustrazione; ed un breve profilo biografico.

L’artista selezionato sarà retribuito per il lavoro svolto.

Bando 1 -2016

Il progetto grafico dovrà interpretare il seguente tema:
Uomo e natura: possibile connubio o antitesi inevitabile?

Per il tema completo clicca qui

Formato e layout
Il formato della cover dovrà essere di 20×27 e dovrà contenere lo spazio per alcuni degli elementi fissi: il marchio testata, numero, mese, anno, codici ISSN e codice e barre, titolo e sottotitolo e eventuali articoli in evidenza. A eccezione del marchio posto in alto, la disposizione degli altri elementi è a scelta dell’artista. Qualunque tecnica è ammessa purchè il lavoro poi venga consegnato in formato digitale con una risoluzione minima di 300dpi.

Scadenze
26.09.2016 – Invio della candidatura e consegna delle proposte grafiche
3.10.2016 – Comunicazione progetto selezionato
10.10.2016 – Consegna delle grafiche definitive

Per maggiori informazioni contattare l’indirizzo info@lachiavedisophia.com

 

Rileggendo il Simposio: l’Altro che non uccide, ma fortifica

Quando Aristofane, nel Simposio1, tenta di spiegare la natura di Eros, lo fa elencando i tre casi nei quali questo può declinarsi. Il mito, infatti, narra l’esistenza di tre esseri umani e non unicamente due: la natura del primo, maschile, ebbe origine dal sole, quella femminile dalla terra, mentre il terzo, che condivideva dei caratteri dell’uno e dell’altro, nacque dalla luna e prese il nome di androgino. Quando Zeus, preso dall’ira causata dall’ambizione e dalla spregiudicatezza degli uomini, decise di tagliarli a metà così da rendere ciascuno più debole, privandolo di una parte di sé, fece sì che ciascuna di esse iniziasse la ricerca di quella che l’avrebbe completata.

Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell’altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l’una all’altra, per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano di fame e anche di inattività, poiché l’una non intendeva far nulla separata dall’altra. E se una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima cercava un’altra metà e le si annodava […]2.

Nacque così Amore, secondo il mito, dall’unione e dal completamento di due metà che, originariamente, costituivano un solo essere umano. Pertanto ciascuno di noi, prosegue Aristofane, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso3.

Ci sono diversi aspetti, ricavati dal mito di Aristofane, sui quali riterrei importante soffermarci per portare a termine una riflessione circa la visione più comune dell’amore nella contemporaneità.

Il legame che si stabilisce tra due esseri umani ha origine dalla spinta del desiderio dell’altro che, a sua volta, trova il suo fondamento in una sorta di mancanza primordiale.

Pertanto, se continuiamo a seguire ciò che il mito suggerisce, dal momento che l’essere umano, sia esso uomo, donna o androgino, subì una scissione del proprio Sé in due parti che progressivamente si allontanarono l’una dall’altra fino a non ritrovarsi più, ciò su cui si fonda la vita di ognuno è esattamente la ricostituzione della natura originaria, possibile unicamente attraverso il ritrovamento delle due parti, in un completamento perfetto. Ciò che si desidera, dunque, è il congiungersi e il fondersi con l’amato, fino a diventare un tutto, un unico essere.

Ma a quale prezzo si paga la fusione all’interno della dimensione amorosa?

L’idea di due individui che si legano l’uno all’altro fino a fondersi richiama l’immagine di due metalli che, combinati assieme, diventano un unico e solo nuovo elemento le cui caratteristiche non sono il frutto della sommatoria e del completamento delle caratteristiche dei due elementi componenti considerati individualmente, ma dalla mescolanza delle loro qualità. La fusione, di per sé, indica una mancanza di chiarezza, una sorta d’indistinzione dei due materiali.

Tornando all’argomento che ci interessa più da vicino, quella della fusione amorosa è un’unione simbiotica che ci ricorda molto il legame che si crea tra la madre e il feto: questo, infatti, è sì una creatura distinta dalla figura materna, tuttavia entrambi fanno parte di un tutt’uno. L’uno vive nell’estrema dipendenza dell’altro, una dipendenza soprattutto fisica poiché la creatura ha bisogno della madre per nutrirsi: vive di lei.

Quando, durante la crescita del bambino, la dipendenza fisica si tramuta in dipendenza psicologica, quello che si crea è invece un rapporto fusionale che può sfiorare il patologico poiché uno dei due individui – è importante specificare che il fenomeno di reciproca dipendenza “fusionale” si crea a partire dalle figure parentali le quali non sono riuscite a fare in modo che il proprio figlio potesse “reggersi su” da solo -, vede se stesso solo come una metà che ha estremo bisogno dell’altro per sentirsi completo: stiamo quindi riprendendo il modello dell’androgino platonico basato sull’idea dell’unione degli opposti.

È talvolta la fusione che, entrando in gioco nelle relazioni d’amore, rischia di mettere in serio pericolo la crescita individuale della personalità di ciascuno.

Non esiste amore senza la messa a nudo della propria vulnerabilità, una vulnerabilità che fa sì che tutti abbiamo necessariamente bisogno dell’altro per sopravvivere; tuttavia, non può considerarsi nemmeno amore un rapporto basato sulla vitale dipendenza di uno dei due amanti.

Certo, l’amore ci spinge all’alterità, quell’alterità con cui condividiamo le giornate, attraversiamo la sofferenza, quell’Altro con cui proviamo la gioia. Tuttavia, se quest’alterità fosse lì unicamente per completarci, per renderci perfetti, per riempire tutti i vuoti lasciati da qualcuno nel corso della vita, vuoti che pertanto ci apparterranno sempre, essa perderebbe il carattere di vero “oggetto d’amore”.

Nel dialogo Platonico, Aristofane lo accenna: Amore è desiderio e ricerca.

Ma ricerca di che cosa? Desiderio di chi?

Ebbene, è quando Seneca prende la parola che la spiegazione del significato e dell’origine di Amore diventa chiara. Amore infatti nacque da Poros, letteralmente “Espediente”, “ricchezza”,e Penia, ovvero “Povertà”, durante il giorno della nascita di Afrodite, ed è per questa ragione che, da un lato essendo originato dalla mancanza, dunque da quell’ignoranza causata dalla privazione di risorse propria di Penia, e dall’altro lato, dall’avidità della conoscenza di Poros, Amore è naturalmente tendente a ciò di cui è privo, ovvero al sapere, che rientra tra ciò che di buono e bello esiste.

Se quindi, come conclude anche Socrate, Amore nasce da una forma di mancanza, ciascuno prova un sentimento d’amore nel momento in cui arriva a possedere l’oggetto della propria gioia, o meglio, più che l’”oggetto”, la persona che rappresenta il proprio bene e la propria felicità.

Nel momento in cui la si trova, non abbiamo più bisogno di porci delle domande circa l’esistenza o meno della “nostra dolce metà”, oppure “della nostra anima gemella”.

Quando si ama, le domande spariscono. Spariscono perché stiamo bene, perché non abbiamo bisogno di trovare un “Alter Ego” capace di completarci.

Siamo. E siamo insieme.

In generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto amore. […] E c’è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che l’amore non è amore né della parte né dell’intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro membra sono malridotte4.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1 Platone, Simposio, BUR, Milano, 2007.
Ivi, p. 143.
3 Ivi, p. 145.
Ivi, p. 187.

copertina-abbonamento-2020_nuovo