“Due razze di uomini”: complessità oltre il pregiudizio

Il nostro tempo si caratterizza per una crescente complessità che negli ultimi anni è stata amplificata dal trauma pandemico e dalla ingiustificata violenza che la guerra alle porte dell’Europa sta portando con sé.

Un’epoca difficile da decifrare proprio per la sua complessità che si sottrae ad ogni tentativo di riduzionismo analitico e ancor di più ad ogni incerto sforzo di semplificazione. In un simile contesto è ricorrente imbattersi in confronti, dialoghi e discussioni che hanno la pretesa di ridurre i fenomeni umani a categorie preconfezionate che in maniera manichea intendono distinguere arbitrariamente, non solo il bene dal male, ma anche e soprattutto di indicare chi sta dalla parte dell’uno o dell’altro a seconda che appartenga a un gruppo sociale, a una nazione, a un continente, a una razza, a una religione, a un genere. La conseguenza di un tale semplicistico modo di pensare – nel gomitolo aggrovigliato di questo tempo che muta a una velocità insostenibile per le risorse cognitive dell’essere umano –, è quella di cadere in pensieri e atteggiamenti discriminanti, non inclusivi e che tendono a giudicare le azioni umane come buone o cattive a partire semplicemente dal gruppo di appartenenza. Nefaste sono le implicazioni di questo modo pregiudiziale di approcciarsi alla realtà: razzismo, discriminazioni, esclusione sociale, diffidenza, paura, cultura dello scarto, guerre. Veri e propri virus sociali che nascono dal tentativo, impossibile (sic!), di ridurre a categorie semplici, ciò che per definizione non è riducibile ovvero la complessità. Solo allineandoci con la prospettiva di quest’ultima, possiamo adottare un atteggiamento personale e di conseguenza interpersonale, quindi sociale e politico di tipo inclusivo e non discriminante verso qualsivoglia categoria di persona.

A questo proposito risulta illuminante la lezione che abbiamo ereditato dallo psichiatra e filosofo viennese Viktor Frankl, ebreo sopravvissuto a quattro diversi lager nazisti. Al termine del secondo conflitto mondiale e della barbarie scatenata in Europa dai regimi totalitari, ai pochi sopravvissuti era spesso chiesto di raccontare la propria esperienza di prigionieri nei campi concentramento e di sterminio. L’aspettativa era che i testimoni delle atrocità puntassero il dito contro il popolo tedesco colpevole delle nefandezze compiute. Anche Frankl fu invitato più volte a raccontare la propria esperienza di internato in diverse occasioni. Saldo nella sua esperienza, forte della sua libertà di pensiero e incurante delle ostilità che il suo punto di vista avrebbe procurato nella comunità ebraica, Frankl riportò sempre l’attenzione dei suoi uditori sul concetto di responsabilità individuale, ricusando ogni tipo di semplificazione e di generalizzazione che portasse a sostenere la tesi della colpa collettiva di un gruppo sociale, di un popolo, di una nazione.

Celebre il discorso da lui tenuto il 10 marzo 1988, davanti a trentacinquemila ascoltatori, sulla piazza del municipio di Vienna, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Anschluss: «Il Nazionalsocialismo ha diffuso il delirio razziale: in effetti esistono soltanto due razze umane, ossia la ‘razza’ degli uomini onesti e quella degli uomini disonesti. E la separazione razziale taglia tutte le nazioni e, all’interno di ciascuna nazione, tutte le fazioni. Persino nei campi di concentramento si incontrava qualche SS appena decente, come pure qualche imbroglione e farabutto anche tra i detenuti» (Frankl, 2001). Con coraggio Frankl evidenzia il fatto che non esistono gruppi sociali buoni o cattivi ma che in ogni umana aggregazione sono presenti individui che perseguono il bene e la giustizia e altri che rincorrono, con ogni mezzo, fini che si distanziano da valori quali il bene e la giustizia che tutelano la vita e l’umanità degli individui. L’intellettuale viennese richiama con forza a due grandi dimensioni che contraddistinguono l’essere umano: la libertà e la responsabilità. Libertà di decidere, momento dopo momento, che cosa fare di sé stessi e responsabilità per questa scelta. Dunque, libertà di decidere che tipo di persona si vuole essere e si vuole diventare: abbassarsi a livello animale o far fiorire la più nobile dignità umana che consiste nel pensiero e nella capacità di amare e donarsi all’altro da sé dilatando i confini di quelle espressioni che favoriscono un’esistenza e una convivenza più umana.

Frankl ci aiuta così a delineare un importante indicatore di maturità intellettuale ovvero la capacità di non essere discriminativi o abbonati a infondato pregiudizio. Il bene e il male attengono alla responsabilità personale e non a questa o a quella appartenenza categoriale. La persona va considerata per ciò che è nella sua singolarità, nella sua libertà e responsabilità. I soli fondamenti a partire dai quali è possibile una valutazione etica che non può mai riferirsi all’appartenenza di un individuo a una categoria piuttosto che a un’altra. Solo così è possibile non cadere in deplorevoli pregiudizi che scadono facilmente in razzismo, classismo, sessismo. Seguendo questa prospettiva è verosimile non scivolare in uno sterile riduzionismo che perdendo di vista la singolarità dell’individuo ambisce, illusoriamente, a semplificare approssimativamente la complessità umana e sociale nella quale siamo immersi.

 

Alessandro Tonon

 

[photo credit unsplash.com]

banner-riviste-2023

È la morte che dà senso alla vita?

Dinanzi al mistero della morte molti uomini si chiedono quale sia il senso della propria vita. Che significato viene dunque ad assumere la vita al cospetto della morte che tutto annulla? Nel corso della storia del pensiero filosofico le risposte sono state molteplici e fra loro molto differenti, per contenuti e prospettive. Al contempo, le religioni, orientali e occidentali, nascono proprio come tentativi di rispondere al limite per eccellenza inscrivendolo all’interno di una prospettiva che sveli la vita, un certo tipo di esistenza che non ci è data di conoscere ma solo di immaginare ed eventualmente “tener ferma” come contenuto di una fede, dopo la morte.

Fra i tentavi filosofici di risposta al significato della vita in rapporto alla morte, più importanti del Novecento, come non annoverare quello dello psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl. Il suo contributo, oltre a riprendere e rimandare alle speculazioni dell’analitica esistenziale dello Heidegger di Essere e tempo, del concetto di uomo come essere-gettato nel mondo e come essere-per-la-morte, si arricchisce della sua esperienza di medico-psichiatra, delle sue competenze filosofiche, psicologiche e soprattutto della sua tragica ma determinante esperienza di vita nei lager nazisti. Invero, la vita dell’uomo Frankl ha certamente contribuito a corroborare le intuizioni e le competenze del Frankl filosofo e psichiatra.

In particolare, rispetto al significato della vita in relazione alla morte, l’intellettuale viennese ritiene che per rispondervi siamo rimandati a noi stessi, al fatto originario che l’esistenza è al contempo consapevolezza e responsabilità. La consapevolezza concerne la propria fragile condizione di esseri che hanno un termine. Mentre la responsabilità inerisce la nostra unicità e irripetibilità di singoli uomini, in rapporto alla singolarità e irripetibilità delle concrete situazioni nelle quali veniamo a trovarci di ora in ora. Singolarità e irripetibilità sono due aspetti che permettono di comprendere il significato della vita che si manifesta come finita. Il carattere limitato dell’esistenza, asserisce Frankl «contribuisce a darle un significato, e non a sottrarglielo»1. Secondo il pensatore viennese la morte non può dunque pregiudicare il senso della vita. Diversamente, proprio l’avere in vista la morte o poterla in qualche modo “anticipare” con l’immaginazione – servendoci di un’espressione heideggeriana – permette di inondare di senso la propria esistenza vivendola autenticamente. Scrive Frankl: «Domandiamoci che cosa accadrebbe se la nostra avventura terrena non fosse determinata nel tempo, ma fosse infinita. Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto»2. In questo senso verrebbe meno la nostra stessa responsabilità per la vita. Di fronte a un’esistenza infinita ogni nostro progetto verrebbe meno. Mentre, come aveva intuito Heidegger: «l’esserci, in quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare»3. È proprio il progettare, l’avere in vista il futuro che permette di realizzare ciò che siamo. La consapevolezza della limitatezza del nostro transito terrestre, permette di intraprendere una strada autenticamente nostra, dunque di rispondere responsabilmente alla vita. «È proprio in considerazione della morte» afferma Frankl «quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte, la cui somma ‘finita’ costituisce il consuntivo della nostra vita»4. Il senso della vita riposa proprio nel suo carattere irreversibile. Pertanto, la responsabilità di un uomo si può esaminare solo in relazione al tempo limitato della sua esistenza. In merito a questo Frankl paragona l’uomo ad uno scultore, che partendo dal materiale grezzo (la vita e il suo destino), si adopera con tutti i mezzi e le possibilità a disposizione per dar luce alla miglior forma possibile. Questo è concepibile allorché, pur essendo l’uomo “gettato” nel mondo e dunque condizionato, mantiene la libertà ultima di ergersi al di sopra di tale gettatezza, di tali limitazioni, al fine di realizzare valori che diano senso alla vita. Quest’ultima è conseguentemente un costante cammino di autotrascendenza che permette di attuare la libertà nella forma delle possibilità sempre presenti, al di qua della morte. All’uomo resta dunque la libera possibilità di «trasmutare il materiale che il destino gli fornisce, in parte con il proprio lavoro, in parte sperimentando o soffrendo: di ‘sbozzarne fuori’ quanto più può valori creativi, di esperienza e di atteggiamento»5.

Lo scultore ha a disposizione un tempo limitato per realizzare il suo lavoro e di questo tempo non conosce la scadenza. Il tempo a disposizione può essere molto come poco, persino pochissimo. Non sapendolo, tuttavia, lo scultore è chiamato dalla vita a utilizzare il proprio tempo in modo pieno e completo per portare a termine la propria opera unica e irripetibile. E «l’eventualità che egli non riesca a compierla non la destituisce di valore»6. Nessuna esistenza può essere dunque valutata in base alla sua lunghezza, ma in base alla ricchezza dei suoi contenuti, dei valori che è riuscita a realizzare nel tempo che le stato concesso. «Nella limitatezza del tempo e dello spazio terreno l’uomo deve compiere qualcosa, conscio sempre di essere mortale e tenendo ben presente la propria immancabile fine»7.

La vita e la morte costituiscono dunque un unico grande insieme, avvolto nel mistero (che concerne tutto ciò che sfugge alla comprensione razionale). Ma questo mistero non è mai destituito del proprio senso, a condizione che l’uomo prenda consapevolezza di essere «attaccato sul vuoto al suo filo di ragno»8, come recita un celebre verso di Ungaretti. Una condizione esistenziale che scorge il limite invalicabile della morte e che proprio per questo riconosce la propria responsabilità di fronte alla vita. Responsabilità che chiama in causa la libertà dell’uomo di prendere posizione nei confronti del proprio destino (il materiale grezzo dell’esistenza) per realizzare valori che concernono ciò che l’uomo riesce a creare, quanto riesce ad amare e sperimentare, come riesce a soffrire e persino a morire. Motivazioni che trascendono la vita e che in una certa misura la rendono eterna. Risultano nuovamente chiarificatrici e parenetiche le parole di Frankl, il quale afferma: «la responsabilità dell’uomo […] è rapportata alla singolarità e all’irripetibilità della sua particolare esistenza. L’esistenza umana è infatti un essere responsabile di fronte alla propria finitezza. Questa temporalità della vita non la rende […] senza senso: al contrario, è proprio la morte a renderla significativa»9. Seguendo le intuizioni frankliane è dunque verosimile rispondere alla domanda posta in esergo sostenendo, seppur con parola fragile e tremante, che è proprio l’orizzonte della morte a dischiudere il senso alla vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 20056, p. 108.
2. Ivi, p. 108.
3. M. Heidegger, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, p. 239.
4. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 108.
5. Ivi, p. 109
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. G. Ungaretti, La pietà, in Sentimento del tempo, in Giuseppe Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 19693, p. 171.
9. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 116.

 

[Photo credits: Matt su Unsplash.com]

Viktor E. Frankl: i pieni granai del passato

<p>UNSPECIFIED - CIRCA 1994:  Portrait of austrian psychologist Viktor Frankl, Photograph, 1994  (Photo by Imagno/Getty Images)  [Portr?t Viktor Frankl, Photographie, 1994]</p>

In alcuni momenti della vita, a molti di noi capita di fermarsi un istante, voltarsi indietro e osservare il film della propria esistenza sin lì vissuta. Una pellicola che scorre a velocità sostenuta davanti ai propri occhi. Ricordi, emozioni, fatiche, sofferenze, gioie e dolori. Le più diverse situazioni ed esperienze, declinate secondo l’unico ed irripetibile cammino di ognuno. D’improvviso però, lo sguardo si fa triste. La malinconia inizia a prendere il sopravvento sulle altre emozioni e ci inonda come un fiume straripante di sconforto. Tale sentimento non è dettato solamente dal sovvenir alla mente di scene e ricordi negativi, sofferenze o dolori. No. Il più delle volte è dovuto alla percezione nostalgica che quanto abbiamo vissuto se ne sia concretamente andato, sia svanito nel nulla, in una dimensione non più raggiungibile se non attraverso qualche sbiadito e non più certo ricordo. Questo vale anche e soprattutto per quanto abbiamo gioito e quanto di positivo abbiamo vissuto.

Lo psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl, fondatore della Logoterapia e Analisi Esistenziale, sopravvissuto a quattro diversi campi di sterminio nazisti, può aiutarci a rovesciare positivamente questa nostra, umana, tendenza al negativo. Differentemente dall’atteggiamento nichilistico, egli sostiene che se il futuro non esiste perché non ancora accaduto, il passato è ciò che davvero esiste, la vera realtà. Pertanto, ciò che è passato rimane fisso e immutabile. Non è possibile trasformarlo o modificarlo. Se, per la logoterapia l’uomo è un essere proiettato verso il futuro, è altrettanto vero che egli non può nulla rispetto al proprio passato. Ciò che è stato è fissato per l’eternità. Quanto è avvenuto non è stato tolto di mezzo, ma si è consolidato nel passato e in esso conservato. Per questo egli afferma che: “esser stati è la ‘più sicura’ forma dell’essere […] ciò che si serba nella transitorietà è quanto è conservato nel passato, la realtà che ha trovato salvezza nel suo essere-passata”[1]. Ecco che, ogni possibilità usufruita, ogni esperienza, ogni valore realizzato nella propria vita, escono dalla cerchia della transitorietà e divengono eternità. Frankl sostiene che ciò che viene serbato nel passato resta tale, indipendentemente dalla memoria dei singoli, perché il passato diviene parte dell’essere. Entra a far parte di una dimensione ontologica.

Nei campi di sterminio, com’è intuibile, la sensazione di essere stati cancellati come persone, di aver perso la propria dignità e il proprio passato erano pensieri quotidiani. A questo si aggiungeva la paura, fonte di angoscia e depressione, di aver vissuto invano la vita precedente all’internamento. Frankl racconta di come ha tentato di rassicurare, in merito, i propri compagni di baracca aiutandoli a capovolgere positivamente la propria prospettiva. Scrive:

parlai anche del passato, di tutte le sue gioie e della luce che esso emanava, pur nell’oscurità dei nostri giorni. Citai di nuovo […] il poeta che dice: ‘Quanto hai vissuto, nessuna potenza al mondo può togliertelo’. Ciò che abbiamo realizzato nella pienezza della nostra vita passata, nella sua ricchezza d’esperienza, questa ricchezza interiore, nessuno può sottrarcela. Ma non solo ciò che abbiamo vissuto, anche ciò che abbiamo fatto, ciò che di grande abbiamo pensato e ciò che abbiamo sofferto… Tutto ciò l’abbiamo salvato rendendolo reale, una volta per sempre. E se pure si tratta di un passato, è assicurato per l’eternità![2]

Quanto abbiamo fatto, pensato, amato e sofferto rimane lì, piantato per l’eternità. L’uomo attraverso il proprio passato si unisce con l’eternità dell’essere, o per meglio dire diviene eterno. A chi vive con questa saggezza e con questa consapevolezza esistenziale, ricca del proprio passato, “si può veramente applicare ciò che è così ben espresso nel libro di Giobbe: ‘Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come si ammucchia il grano a suo tempo’”[3].

Il pensiero di Frankl può essere un’intensa luce alternativa alla nostra, spesso tragica, visione della transitorietà dell’esistenza. Perché, come scrive Rilke in un verso della Nona Elegia duinese: “questo essere stati una volta, anche se una volta soltanto: essere stati terreni, sembra non revocabile”[4].

Alessandro Tonon

NOTE

[1] V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana, 19753, p. 123.
[2] V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113.
[3] V. E. FRANKL, La sfida del significato, a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Trento, Erickson, 20053, p. 184.
[4] R. M. RILKE, Elegie Duinesi, tr. it di R. Caruzzi, Trieste, Beit, 2013, p. 89.