Socrate e la filosofia come esercizio di morte

Che cosa accadrà al momento della nostra morte quando i nostri occhi si chiuderanno per sempre e i nostri polmoni esaleranno l’ultimo respiro? Precipiteremo in un sonno senza sogni oppure ci sarà qualcos’altro ad attenderci magari dopo esserci liberati del nostro corpo?

Queste sono solo alcune delle domande sulle quali sin dall’antichità l’essere umano si interroga. Da allora il mondo è cambiato e benché si siano fatti grandi passi avanti in campi come la medicina, la morte è ancora qualcosa che non ci piace, qualcosa con cui ancora non abbiamo imparato a convivere. Ciò avviene molto probabilmente perché l’essere umano tende per sua intima esigenza a volersi spiegare ogni fenomeno, in quanto la conoscenza produce in lui un forte senso di sicurezza; al contrario, l’ignoranza di fronte alla morte e a quello che ci potrà accadere una volta sopraggiunta, provoca disagio e spaesamento. Questo stato apre il campo alle supposizioni, ai timori che in alcuni casi possono condizionare la nostra vita e quella di chi ci sta intorno.

Per ovviarli, per impedire che essi non ci consentano di vivere appieno, in nostro aiuto ci viene un pensatore vissuto nell’Atene del V secolo a.C: Socrate. All’interno del Fedone, Socrate viene descritto da Platone nei suoi ultimi istanti di vita a dialogare in mezzo ai suoi discepoli. Li conforta, ricordando loro di stare sereni e li esorta a continuare la propria vita nella ricerca filosofica perché solo il vero filosofo è colui che è pronto e disposto a morire in ogni momento: «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte».

Quello che a Socrate preme far capire, e che risulta ancora oggi per noi una lezione importante, è che la fede e la speranza con cui il filosofo affronta la morte non sono altro che la logica conseguenza e la suprema affermazione dei princìpi in base ai quali egli ha regolato tutta la sua vita. Abbandonare la fede sarebbe contraddire l’intero carattere della vita passata; poiché, anche se il mondo lo ignora, la vita del filosofo è un lungo tirocinio in vista di essa. Solo egli sarà in grado di accettarla in modo sereno senza angosce e rimpianti: «Il mondo magari potrà dire di conoscere assai bene tutto ciò, sa che i filosofi sono creature vive a metà, e che è un modo per favorirli quello di eliminarli tutti. Soltanto su un punto sbaglia: non comprendere il senso in cui il filosofo, usa la parola morte».

Tale pratica filosofica si sviluppò nel contesto della più celebre scuola ateniese, l’Accademia platonica. Essa consisteva nell’usare la riflessione (logos) e le sue procedure, la dialettica, per operare sottilmente nell’individuo il distacco dell’anima dal corpo ancor prima dell’evento-morte. Il filosofo si rende ben presto consapevole che se vorrà intraprendere la vera ricerca della conoscenza dovrà tentare di sfuggire dalla fallibilità dei sensi e cercare di arrivare così a una verità più esatta e sicura.

Finché rimarremo legati al corpo, prosegue Socrate, è possibile avvicinarsi al bene supremo soltanto nella misura in cui l’anima concentrandosi su sé stessa e lasciando da parte ogni attenzione su di esso, aspetti pazientemente il giorno destinato per portare a compimento la liberazione. Quando ciò avverrà, potremo sperare, essendo divenuti intelligenza pura, di apprendere la realtà nella sua sostanza. È per questo che solo il filosofo, potrà considerare la sua vita come un vero e proprio tirocinio in vista di essa.

La concezione che sta alla base del dialogo è che vi è per l’uomo un bene supremo il quale, per sua stessa natura, non può essere ottenuto in questa vita. La migliore è pertanto quella diretta a prepararci alla piena fruizione di questo bene, al di là dei limiti imposti dall’esperienza temporale. Ciò significa che la vita più alta per l’uomo mentre è sulla terra è un vivere-morendo, un processo di liberazione dal vecchio per divenire nuovo. Questo perché il supremo fine del filosofo non è quello di fare cose, ma piuttosto quello di gioire di fronte alla visione di una realtà a cui egli diviene simile man mano che la contempla.

Ciò non ci deve condurre a pensare che Socrate ci stia invitando a una vita di astinenza puramente negativa in attesa che sopraggiunga la morte; lo scopo di queste rinunce è quello di rendere la vita dell’individuo migliore, purificandola da tutto ciò che le potrebbe impedire di raggiungere il suo obiettivo. La vita filosofica dunque non è una vita condotta nell’ozio e nella più tragica indolenza, ma una vera e propria missione alla quale bisogna scegliere di aderire oppure no.

Quindi, ascoltate Socrate, siate filosofi, vivete la vostra vita con coraggio e temperanza, curate la vostra anima e ricercate la saggezza, nella speranza, una volta morti di raggiungere quel bene supremo e conquistare così l’eternità.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

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I sofisti e i social network

Circa 2500 anni fa, in quel lembo di terra bagnato dal mediterraneo famoso per aver dato alla luce i padri della filosofia occidentale, si aggirava una particolare risma di intellettuali. Da molti riconosciuti come sapienti, eppure non da tutti stimati, per via delle idee che professavano e del loro rapporto tutto particolare con la ricerca e con la condivisione della conoscenza.

Erano chiamati sofisti.

Si proponevano come maestri a pagamento, e insegnavano l’arte di ragionare.
“Sofista” era un termine che stava spesso contrapposto a quello di “filosofo”: quest’ultimo infatti praticava il suo amore del sapere attraverso la ricerca della verità. Questa ricerca per i sofisti era del tutto vana. Vana dato che, a detta loro, non c’è nessuna verità da scoprire. Nessuna conoscenza certa, solo prospettive soggettive, ad ognuno la sua. Il mio parere, il tuo, il suo. Nessuno più vero degli altri. Tante verità quante sono le opinioni.

La parola, ritenuta dai filosofi il veicolo supremo del Logos, non era più riconosciuta come portatrice di un sapere affidabile e univoco. Ma non per era questo ritenuta meno potente. Anzi, al contrario: senza una verità esteriore a fare da garante alle affermazioni, l’argomentazione più forte, più convincente, era quella presentata nella maniera più persuasiva. Nelle dispute di ragionamento avrebbe avuto la meglio il discorso più seducente e ammaliante, capace di irretire la mente e il cuore degli ascoltatori.
La retorica, l’arte della parola utile alla persuasione, era quindi al centro dei loro insegnamenti. E i sofisti si proponevano come maestri insuperabili. A dispetto della logica, e con buona pace del principio di non contraddizione, affermavano che avrebbero potuto convincere una persona di una tesi, come pure del suo contrario.

Proprio nell’antica Grecia in cui il Logos aveva potuto ergersi alto e indicare la via per la storia del pensiero, dalla proiezione della sua ombra altrettanto lunga è fiorita l’anti-logica dei sofisti.

2500 anni dopo, oggi, si parla di era dell’informazione. L’informazione non è cosa nuova. Ciò che è del tutto contemporaneo e originale è la maniera travolgente e capillare con cui essa si può diffondere. E parallelamente, dare un’occasione potentissima al dilagare della dis-informazione.
Scorrendo le bacheche di Facebook, attraversando i titoli dei risultati di una ricerca fatta su Google, parrebbe che l’eredità dei sofisti sia stata raccolta, e sviluppata in nuove forme, in armonia con i tempi che corrono.
Fake news, bufale. Senza cura per logica e coerenza.
Ai tempi dei sofisti era la parola lo strumento attraverso cui esercitare il potere del convincimento, il mezzo che agiva sulle menti e di conseguenza sulle azioni, inesorabile come un veleno debilitante o come un farmaco ristoratore.
Le elaborate argomentazioni appaiono superate se si pensa alla nostra quotidianità. Più che dimostrare, basta mostrare: qualche immagine, un titolo che grida, un’etichetta risoluta. E poi è sufficiente condividere, passare ad altri l’informazione senza controllare, e sarà la diffusione di un messaggio a corroborare l’illusione della sua realtà.

“Menare per il naso come una bufala” è l’espressione che secondo la Crusca darebbe l’origine al termine “Bufala”, vale a dire farsi seguire da qualcuno trascinandolo per l’anello attaccato al naso, proprio come accade per i bovini. Cascare nell’inganno senza darsene conto.
Per quanto i sofisti rinunciassero ad una verità assoluta, conservavano ciò nonostante un’altra consapevolezza, che si può riassumere nell’espressione: “l’uomo è misura di tutte le cose”.  È uno dei loro slogan più famosi: significa che “là fuori” non c’è nessun riferimento che ci dà la garanzia e la certezza per le nostre credenze. Quello che affermiamo, dipende da noi.
Calato nella nostra quotidianità, è un po’ come dire che ognuno può essere responsabile di ciò a cui crede, e di ciò che racconta agli altri.

Prendendo ispirazione da questo aforisma, possiamo fare un passo in più: nell’assenza di una verità evidente e immediata, possiamo scegliere. Subire passivamente l’informazione che ci capita, o diventare attivi protagonisti del nostro sapere, radicandolo il più possibile in quelle fonti che perlomeno hanno l’intenzione di evitare la superficialità o l’inganno.

La formazione scolastica ci allena ad assorbire il sapere che ci viene trasmesso. A dire di “sì” ed accogliere quello che ci raccontano i libri e i professori. È faticoso a volte, ma necessario per allargare i nostri orizzonti e dare una realtà più ampia al mondo in cui viviamo.
Ma questa capacità di abbracciare positivamente nuova conoscenza non basta più. È sempre più urgente sviluppare un’altra abitudine: quella di dire “no”. E anche: “Aspetta un attimo”. Per darsi il tempo per esercitare un sano senso del dubbio, e dare sfogo al nostro spirito critico.

Come i sofisti, essere consapevoli di quanto può essere ingannevole la trasmissione del sapere. Come i filosofi, amarlo tanto da avere la pazienza di approfondire prima di diffonderlo.

Matteo Villa

P.S.: Ci vuole gusto per smascherare un inganno, come pure per crearne uno irresistibile.
Ecco un raggiro degno di un sofista 2.0: link.

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Fede, filosofia e mistero: intervista a Vito Mancuso

In questo articolo proponiamo la seconda parte dell’intervista al filosofo e teologo Vito Mancuso, pubblicata all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #5 – Le dimensioni dell’abitare. La nostra chiacchierata con lui è stata così profonda ed interessante che non possiamo non condividere con voi la versione integrale dell’intervista. Buona lettura!

 

La Scolastica ha formato generazioni di teologi ad affidarsi in egual modo a ragione e fede nella loro ricerca, ma negli autori contemporanei si rileva la tendenza a privilegiare la prima e ad abbracciare più una “teosofia”. È possibile in un’era post-illuminista mantenere il paradigma scolastico, o è inevitabile che l’aspetto razionale fagociti quello fideistico?

Partirei con una considerazione di tipo storico alla luce di quello che mi chiedete in riferimento alla scolastica e alla sua promozione dell’armonia tra fede e ragione. Ora, certamente c’è un paradigma scolastico che consiste nell’armonia di fede e ragione: è il paradigma tomista, che in Alberto Magno prima e in Tommaso d’Aquino poi trova la propria consacrazione. Un’armonia tra l’altro non del tutto simmetrica, perché in questa prospettiva si considera la filosofia in funzione servile rispetto alla teologia, si pensi alla famosa espressione Philosophia ancilla theologiae. In ogni caso qui ci muoviamo all’interno di un paradigma di concordanza, di armonia, di fiducia reciproca.

La scolastica però ha conosciuto anche un’altra linea, direi opposta, la quale non crede nell’armonia fede-ragione ma al contrario tende a costruire la fede sulle macerie della ragione. Questa visione la ritroviamo nel filone francescano dove con Ockham ha trovato la maggiore espressione. Da qui nasce la fortissima opposizione alla filosofia da parte della tradizione classica del protestantesimo, e noi sappiamo che Lutero ebbe una formazione occamista soprattutto mediata da Gabriel Biel.

Questo per dire che quando parliamo della scolastica in realtà ci troviamo al cospetto di una grande dialettica: da un lato una fiducia della fede rispetto alla ragione, dall’altro una vera e propria guerra. Tra l’altro la scolastica rimanda a sua volta alla patristica, perché anche lì ritroviamo i due filoni: il primo, quello di Giustino, di Origene, del primo Agostino (penso al De vera religione o al De Magistro e in genere ai suoi primi dialoghi), che è estremamente ottimista nei confronti del lavoro della ragione e in generale dell’impresa umana. Cito al riguardo una frase di Giustino tratta dalla Prima apologia, paragrafo 21, e rivolta ai pagani: «Nel dire che il Verbo, primogenito di Dio, Gesù Cristo nostro Maestro, è nato senza rapporto umano, è stato crocifisso, è morto, è risorto ed è asceso al cielo, nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che, presso di voi, parlano dei figli di Zeus.» È una frase sconvolgente, perché sostiene che il centro del cristianesimo, quello che viene chiamato il kèrigma, l’Annuncio, coincide totalmente con quanto la visione greca, e quindi in generale la ricerca umana, aveva colto già da sé.

Sempre in epoca patristica però abbiamo Tertulliano che nell’Apologetico sostiene esattamente l’opposto: che cosa c’è in comune tra il Cristianesimo e la filosofia, tra Tebe e Gerusalemme? Domanda retorica la cui risposta è chiaramente nulla. Ecco le parole precise di Tertulliano: «In che cosa sono simili i filosofi cristiani discepoli della Grecia e quelli del cielo?», domanda retorica la cui risposta è ovviamente “nulla” (Apologeticum, 46-18).

Questo ci rimanda a sua volta alla Bibbia, perché anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento troviamo allo stesso tempo una tendenza di apertura e fiducia e una tendenza opposta di chiusura e opposizione. Lo stesso apostolo Paolo da un lato nella Lettera ai romani, primo capitolo, condanna i pagani perché sostiene che avrebbero potuto tranquillamente, ragionando sulla creazione, giungere all’esistenza di Dio, e quindi raggiungere la conoscenza della verità, affermando perciò la stessa cosa sostenuta da Giustino quando pone una grande continuità tra il centro del cristianesimo e la ragione umana. Ma nel primo e nel secondo capitolo della Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo afferma quanto sostenuto da Tertulliano col porre l’opposizione più ampia possibile tra sapienza umana e sapienza divina.

Quindi noi ci troviamo al cospetto di un nucleo incandescente che dal Nuovo Testamento raggiunge la Patristica e poi giunge nella Scolastica, genera le divisioni all’epoca di Pascal tra la scuola dei gesuiti e la scuola dei giansenisti, e arriva fino ai nostri giorni, perché ancora oggi c’è una Chiesa che ha un’ala più progressista e un’ala più conservatrice, si pensi alla divisione del Vaticano II tra quella che fu la maggioranza conciliare e quella che fu la minoranza. Si tratta insomma di una dialettica che attraversa da sempre il Cristianesimo.

Il Cristianesimo è abitato da fiducia e da sfiducia nei confronti della ragione e questo vale sia per il cattolicesimo sia per il protestantesimo. La sfiducia è originaria, connaturale a Lutero, il quale parlava della ragione umana come di una puttana e pensava che la filosofia fosse un’opera del demonio. Si tratta di una prospettiva che nel Novecento rivive in Karl Barth e in genere nella cosiddetta teologia dialettica. Ma il protestantesimo conosce anche il protestantesimo liberale, quello di F. Schleiermacher, A. von Harnack, E. Troeltsch, i quali al contrario hanno nei confronti del rapporto fede-ragione lo stesso ottimismo che l’analogia entis cattolica porta con sé. Questo è lo statuto storico, detta in maniera sintetica, del rapporto tra teologia e filosofia.

Per quanto mi riguarda, io penso che sia nella stessa parola teologia che si ritrovi il senso del giusto rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Il termine teologia dice infatti rapporto tra Theós e lògos, e non si deve mai dimenticare tra l’altro che questa connessione non è specificatamente cristiana perché colui che ha coniato il termine ‘teologia’ è stato Platone nel II libro della Repubblica, mentre il termine teologia entra nel cristianesimo in epoca patristica perché nel Nuovo Testamento non c’è. Il che significa che questa connessione tra theós e lògos è qualcosa di originario, è una tendenza della mente e direi anche del cuore umano, in base alla quale si pensa che l’assoluto, il theós, non sia qualcosa di estraneo al mondo e alla mente umana, ma al contrario qualcosa che ha a che fare con la logica del mondo e con la logica della mente umana, direi con il linguaggio umano. Non è un caso che il termine lògos rimandi al contempo sia alla ratio nel senso di ordinamento complessivo del cosmo (come per esempio nel Vangelo di Giovanni e prima ancora negli Stoici, dove logos ha un senso metafisico), sia al senso linguistico per cui lògos è parola, frase, discorso… Questo implica l’intuizione primordiale, ovvero la grande fiducia nel fatto che la logica che governa il mondo, il lògos che è archè, che è “in principio”, abbia strettamente a che fare anche con il linguaggio umano e quindi con tutto ciò che dal linguaggio scaturisce: l’etica, la creatività, l’espressività. Siamo cioè all’interno di un unico discorso: theós e lògos, questa è l’idea di fondo che rende possibile il discorso teologico.

Ne viene a mio avviso una conclusione stringente, ovvero che nella misura in cui la teologia è fedele a sé stessa non può che essere condotta sulla base del paradigma della concordanza tra fede e ragione, ovvero secondo l’idea di Giustino, di Origene, del primo Agostino, di Tommaso d’Aquino, del protestantesimo liberale, della maggioranza conciliare nel Vaticano II e di teologi cattolici come Teilhard de Chardin, Congar, Rahner, Küng, Panikkar.

 

Nella storia del pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni razionali’ dell’esistenza di Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo, Tommaso, Kierkegaard… alternando prove e argomentazioni a favore della sua esistenza o della sua inesistenza. Ritiene che oggi i numerosi tentativi del passato a dimostrazione dell’esistenza di Dio possano ancora reggersi? O forse – già con Kant – siamo giunti alla consapevolezza che la ragione di fronte alla vita – e aggiungerei anche nei confronti della fede – non è sufficiente a ‘chiudere’ il discorso?

C’è una frase di Bobbio nella lettera che consegnò alla stampa con l’incarico di pubblicarla all’indomani della sua morte, che dice: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in molti modi». A mio avviso questa è una delle più lucide esemplificazioni contemporanee del rapporto fede-ragione, perché Bobbio afferma che, come uomo di ragione, egli sa di essere immerso nel mistero.

Vede, noi normalmente pensiamo che sia la fede a parlare di mistero, mentre al contrario riteniamo che la ragione sia chiarificatrice, le assegniamo un lume che arriva e illumina ogni cosa. Ma Bobbio dimostra che non è così. È lo stesso risultato a cui giunse la grande speculazione di Kant, che pose la critica della ragion pura che si chiude con irrisolvibili antinomie: e che cos’è il mistero, se non il vedere le contraddizioni che costituiscono le esistenze stesse e le varie antinomie?

Vedere la contraddizione e riconoscerla come tale, significa cogliere due nomoi, due leggi entrambe legittime ma contrapposte l’una all’altra, e così generare l’anti-nomia. In Kant si ha l’antinomia della ragion pura e l’antinomia della ragion pratica. Da qui si origina un fondo oscuro, capiamo cioè che la ragione esercitata fino in fondo non ci consegna alla luminosità. Benché qualche positivista possa pensare il contrario, vi sono eccellenti ragionatori che chiudono il senso del loro ragionare ritrovandosi al cospetto di un irrisolvibile chiaroscuro, dove le luci sono sempre connesse alla tenebre. Ne viene il senso del mistero, termine che rimanda a mystérion in greco, il quale si rifà al verbo myō, che significa chiudere, detto di occhi e di bocca, così che il mistero è ciò che ti fa chiudere gli occhi e la bocca. E quando uno chiude gli occhi e la bocca, vuol dire che ha capito di essere alla presenza di qualcosa di più grande che non può dire, o pensare di racchiudere in una formula, e in un certo senso vi si affida.

Non a caso da mistero deriva anche mistica, il rimando alla dimensione eccedente della mente che si ritrova al cospetto di qualcosa di più grande e vi si affida. Confida, si fida, ha fiducia, eccoci qui, siamo arrivati alla fede. In questa prospettiva la fede non è qualcosa che si contrappone alla ragione, o la fede o la ragione, o si pensa o si crede, come cita una raccolta di scritti di Schopenhauer. In realtà è proprio perché si pensa fino in fondo che poi, ad un certo punto, una persona, posta di fronte alla scelta di quali debbano essere i criteri per orientarsi nella vita, capisce che deve fidarsi di un orientamento. La semplice ragione ti dà argomenti tanto per aprirti quanto per chiuderti, tanto per dire di sì alla vita quanto per dire di no, tanto per benedire quanto per maledire. La fede dunque nasce dal continuo rapporto con le domande della ragione. Senza questo rapporto la fede è un’ideologia come altre, e consegna a una delle tante appartenenze religiose che fanno parte del variegato cammino dell’umanità. Ma la fede vera è quella che, come diceva il cardinal Martini, sa affermare «dentro di me c’è il credente e il non credente», c’è l’uomo di ragione che vuole trovare ragioni e al contempo c’è l’uomo di fede che sa che si deve fidare, i due sono legati l’uno all’altro.

In questa prospettiva l’idea che qualcuno possa sostenere che la fede si basa totalmente sulla ragione, la quale arriva e giunge a dimostrare l’esistenza di Dio, è qualcosa che sfiora l’empietà dal punto di vista spirituale, perché chiunque abbia fatto esperienza della vita e del mistero religioso, intuisce che non c’è nessuna possibilità di capire, proprio nel senso etimologico del termine capio, capere, il cui participio passato è captum da cui deriva captivus cioè prigioniero, dunque capire in quanto imprigionamento. Io con la mente capisco una cosa, la capisco e la carpisco; oppure la comprendo, la prendo dentro di me, la faccio mia. Se questo avviene, non si ha la genuina esperienza religiosa, non a caso diceva Agostino: «Si comprehendis non est Deus», se comprendi non si tratta Dio, perché da Dio, da questa dimensione dell’Assoluto, dell’Essere, del Bene, da questa dimensione più grande da cui veniamo e a cui torniamo, a cui normalmente ci si riferisce dicendo divino, è chiaro che si può essere solamente capiti, compresi, nel senso di contenuti, di essere dentro.

Le prove dell’esistenza di Dio sono dunque a mio avviso qualcosa di assolutamente contrario all’esperienza del pensare e del sentire religioso. Se ne può parlare semmai come di argomenti, di tentativi di legittimare un oggetto che non sarà mai oggetto e che tuttavia devo in qualche modo oggettivare se voglio pensare, perché non posso pensare se non oggettivando. C’è infatti un paradosso costitutivo della teologia, dato dal fatto che la cosa che voglio oggettivare non sarà mai oggettivabile, non lo sarà perché mi contiene e quindi io non posso mai renderla obiectium, metterla di fronte a me, gettarla di fronte a me, e quindi vederla e così capirla. Di fronte all’assoluto, che è per definizione ciò che non ha relazione, ciò che è l’intero, l’Uno, è chiaro che mi contiene e io non posso oggettivarlo. Tuttavia se in qualche modo non oggettivo, non parlo. Quindi capisco come mai nella storia del pensiero siano nate le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, anche se è del tutto evidente, anche alla luce di quello che hanno prodotto, che non sono prove. Sono piuttosto argomenti per dire che quel discorso ha una sua legittimità da un punto di vista razionale, e da questo punto di vista possono avere una loro utilità.

 

Lavori come Homo Deus di Yuval Noah Harari prospettano un’umanità che, rifuggendo il trascendente, divinizza se stessa e vede in un neopositivismo rivisitato un nuovo Vangelo. È questa la nuova prospettiva della teologia?

Che cosa ci riserverà il futuro non lo so, si possono fare previsioni naturalmente ma penso che non lo sappia di preciso nessuno, neppure Harari. Leggere i libri del passato che hanno parlato di futuro e quindi giungono a parlare del nostro presente non è sempre un’esperienza di grande consonanza, concordanza, si vede quante cose si immaginano che poi non avvengono per nulla. Il destino della teologia è legato a quello della libertà, a quella capacità di cogliere il mistero di cui ho detto sopra. Nella misura in cui negli esseri umani continuerà questo fremito di fronte alla dimensione dell’inattingibile, di fronte alla libertà e al sentire la pochezza del linguaggio rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, fino a quando rimarrà questo scarto tra il di più della vita e la mente umana, –un di più che la mente umana che comunque percepisce, che capisce che non può ridurre, ma percepisce e sente– vi sarà spazio per la teologia. È chiaro se l’umanità attraverso microchip o altri meccanismi a me ignoti riuscirà a togliere e pacificare ogni tensione, arrivando a quella conciliazione che Hegel assegnava come compito alla filosofia e che oggi si assegna invece alla tecnica, per cui l’uomo da passione diventa qualcosa di soluto, di sciolto, di assolto, e sarà un essere addomesticato, è chiaro che non ci sarà spazio per la teologia, per la religione, per la trascendenza.

Nel mio libro Il principio passione (Garzanti, 2013) ho scritto che il mondo è un esperimento e come tale può anche fallire. Ritengo che se avverrà una chiusura di un’umanità su se stessa, una totale conciliazione di un’umanità che si compiace di sé e della propria intelligenza volta a soddisfare solo i propri bisogni, questo sarà un fallimento dell’esperienza umana. Evidente quindi che non vi sarà spazio per la teologia e l’uomo sarà dio all’uomo, ma non nel senso classico Homo homini deus, cioè l’uomo è qualcosa di divino, ma nel senso che l’uomo sarà l’Assoluto. La storia del Novecento però insegna: quando l’umanità ha voluto porre l’umanità stessa, l’umanità concreta con le sue ideologie, ad assoluto, il sangue non ha cessato di scorrere. Non lo so come finirà, ma se la nostra corsa finirà in questo neopositivismo tecnologico, vi sarà certo un fallimento della religione, e con essa finirà probabilmente la filosofia, di sicuro questa sarà la sorte per quel tipo di filosofia che prende sul serio il suo essere philos e il suo coltivare philein, cioè amare, perché non vi può essere spazio per l’amore laddove tutto è appagato. E forse finirà anche il nostro essere sapiens, saremo solamente faber, non più Homo sapiens ma Homo faber, o peggio Homo consumans, ammesso che si possa dire in latino.

Per leggere l’intera intervista sulla nostra rivista cartacea: qui

Giacomo Mininni

[Credit Giacomo Maestri]

Due parole sull’ateismo di Leopardi

Al prof. Rolando Damiani

L’uomo non ha certezze metafisiche, quindi è disperato: di quest’assioma, Leopardi è indiscusso profeta. La sostanza della disperazione leopardiana si coglie nella formulazione della celeberrima teoria del nulla:

«Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. […] vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere»1.

Analizziamo queste righe. Se (il) nulla fonda (il) tutto significa che:

«Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è, o non sia assolutamente. L’assoluto è dunque voragine che tutto accoglie e tutto annienta, abisso orrido e immenso, ma insieme fonte e sede della forza»2.

Ora, poiché:

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,/καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,/καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος./Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. 3

sembrerebbe che, in mancanza di ragione, manchi anche divinità: se la sovrapposizione tra θεὸς e λόγος è esatta, da questa considerazione non c’è via di scampo.

Ora, se manca la Ragione-Ultima, manca la fondazione-metafisica del tutto: la Ragione è dunque non una presenza, ma piuttosto un’a-ssenza, che possiamo identificare con l’a-ssenza di Dio. Leopardi altresì afferma che Dio è fondato dal nulla: le cose non hanno un’idea platonica che le sostiene, e questo vale anche per Dio, s’Egli è una cosa …

Ma, a proposito di Dio e il suo rapporto con il nulla che lo fonda – e quindi non lo fonda –, Leopardi scrive:

«Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] Ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Io considero dunque Iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio»4.

Questa citazione spariglia le carte; chiunque voglia fare di Leopardi un gigante dell’ateismo non si è, evidentemente, preso la briga di leggere queste annotazioni del 1821. Rolando Damiani, in una conferenza dell’ottobre 2014, riguardo il tema della “religione” leopardiana, affermò che, d’essa, occorre parlare:

«In un senso anomalo […] perché in Leopardi la religione non è un fatto né semplicemente confessionale, cioè di adesione confessionale alla dogmatica cristiana, questione che evidentemente per Leopardi si pone solo fino a un certo periodo della sua vita […] e neanche nel senso di rifiuto del religioso in una prospettiva di laicismo ottocentesco, che è uno dei modi per i quali è passata l’accoglienza di Leopardi»5.

Torniamo al dettato di Zibaldone 1619-1621; ivi, Leopardi legge la tradizionale formula di presentazione che Dio fa di sé stesso in Esodo 3, 14, come una dichiarazione ontologica di autosussitenza. Dio esiste in quanto deve esistere e, per riprendere alcune osservazioni fatte da Kierkegaard negli Atti dell’amore, il dover-essere fonda l’eternità dell’essere; Dio deve essere, dunque è eternamente. Avendo in sé la propria ragione necessaria – e sufficiente – d’esistenza, il Dio di Leopardi esiste “in tutti i modi possibili”, ovvero ci appare come ci deve apparire.

Osserva ancora Damiani:

«Nel 1824, cioè nella piena maturità del pensiero, il Dio di Leopardi non è un dio malvagio, è un dio casomai impotente. Un dio che non può fino in fondo essere padrone del manifestato, cioè di ciò che egli stesso ha creato. Perché? Perché al di sopra di lui c’è un potere inconoscibile […] che viene chiamato da Leopardi, tradizionalmente, ‘ordo fatorum’. […] Esso ha a che fare con l’Ἀνάγκη, la necessità […]. Di essa, Leopardi fa un’ipostasi, ma un’ipostasi maligna»6.

Da questo punto di vista, la necessità è un ÜberGott che sovrintende a Dio, ma prima ancora alle cose di questo mondo. In questo quadro, Dio si inserisce come motore, e pro-motore, di quel poco di bene che possiamo rintracciare nella storia: Dio è esperibile nello straordinario, certo, ma anche nella quotidianità del dolore, in cui Egli, pur volendo inserirsi per modificarla, non può:

«Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente: […] Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature»7.

«I suoi rapporti con gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti a essi: sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perché i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti»8.

Il che significa che Dio tenta d’accompagnare le sue creature e lo farebbe, se potesse. Vi è però la Necessità che, in qualche modo, fa resistenza e s’oppone all’assolutà bontà di Dio. Ciò che ciascuno di noi ottiene dal suo rapporto con Dio, è sempre e comunque il massimo che potrebbe avere. Ergo, ciò che otteniamo da Dio come atto d’amore puro, è il massimo che possiamo ottenere: chiedere di più sarebbe sfidare non solo Dio, ma la necessità che lo sovrasta.

L’abisso che ci separa da Dio è incolmabile, vasto, non giungiamo a lui se non saltuariamente. E questa Necessità, che supera Dio e supera l’uomo, questo ordo fatorum, insondabile e invincibile, come lo chiameremo? Lo chiameremo nulla: nulla di buono, nulla di razionale, nulla in ogni forma.

In questo senso dunque, l’Ἀνάγκη – il nulla – fonda tanto le cose del mondo quanto Dio, perché ordina le prime e frena l’azione del secondo. Ma affermare che Dio c’è, ma non può agire, è ben diverso dal dire ch’Egli non (c’)è! Leopardi, esattamente come l’ultimo Sartre (ricordate la famosa intervista a Lèvy del 1980?) non era un ateo, piuttosto il testimone disincantato d’una sorta di “eclissi contemporanea del divino”.

Leopardi sentiva la mancanza di Dio. N’era ossessionato. Lo cercava nelle forme del rito tradizionale (come dimostra l’ultima lettera prima della morte a Monaldo, in cui afferma d’essersi confessato e comunicato) ma faticava a scovarlo, assuefatto com’era dal “piacere fremebondo della disperazione”.

David Casagrande

PS: consiglio a tutti la lettura de L’ordine dei fati e altri argomenti della religione di Leopardi, scritto da Rolando Damiani per Longo Editore, 2014.

NOTE:
1. Zibaldone 1341-1342 (18 Luglio 1821), a cura di R. Damiani, ed. Mondadori – I meridiani, tomo I, pp. 971-972.
2. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Biblioteca Economica Laterza, Roma-Bari 1995, p. 142.
3. Gv 1, 1-3.
4. Zibaldone 1619-1621, ed. cit., pp. 1135-1136.
5-6. Video: La “Religione” di Leopardi. ROLANDO DAMIANI al Caffè Letterario di Lugo.
7. Zibaldone 1637, ed. cit., tomo I, p. 1146.
8. Zibaldone 1621, ed. cit., tomo I, p. 1136.

 

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Occhio non vede? Ma il cuore duole. Il ruolo dei messaggi subliminali

Ci sentivamo un tempo schiavi della televisione, oggi forse di uno smartphone: ce lo dicevano ogni giorno a scuola, leggendo i giornali e sbraitando in famiglia. Per anni ci siamo sentiti in colpa per aver tenuto la televisione accesa in sottofondo, mentre giravamo per casa facendo altro, perché sapevamo che qualcosa entrava nella nostra testa, ci pervadeva e ci condizionava. Eppure sembrava farci compagnia, pensavamo di mantenere comunque saldo il nostro potere decisionale, senza subire il condizionamento di pubblicità, opinione pubblica e conduttori persuasivi.

Nel frattempo le ricerche sul funzionamento del cervello diventavano sempre più elaborate e abbiamo iniziato a sentir parlare dei messaggi subliminali: parole, suoni o immagini che non vengono percepiti consciamente, riescono comunque a influenzare il nostro giudizio, gli atteggiamenti e le credenze a livello inconscio. Immagini tratteggiate sullo sfondo che non sappiamo di vedere, suoni con una frequenza sotto la soglia della percezione e tutto ciò che riusciamo a ricondurre a un significato senza rendercene conto, diventa realtà per il cervello  e può sfociare in un’emozione fastidiosa, insinuata  e radiata.

Ci siamo sentiti attaccati nel profondo, nella nostra intimità: nessuno si permetta di toccarci l’anima, la psiche, la mente, il pensiero che desideriamo nostro e di cui speriamo ancora di essere gli unici tutori e amministratori.

I suoni, le immagini e le vibrazioni sonore eccitano i nostri organi di senso e influenzano le nostre percezioni anche quando sono sotto la soglia della consapevolezza. Il messaggio elettrochimico che i neuroni si trasmettono crea una concatenazione di informazioni che parte dall’esterno e arriva direttamente al cervello. Ma se tutte le strada portano al cervello, che percorso fanno queste informazioni in entrata? La strada non esiste già dentro di noi e la responsabilità di ciò che arriva – anche in modo subliminale – è in parte nostra.

Quando infatti esercitiamo il nostro pensiero e siamo immersi nella vita quotidiana, creiamo dei sentieri, delle tracce che anche le informazioni future potranno percorrere, andando a rinforzare e tracciare al meglio quel determinato percorso. Un messaggio subliminale trova quindi dei varchi nelle nostre abitudini e le va a consolidare, crea una via neuronale specifica e diretta alle nostre credenze più sensibili. Non sono dunque messaggi a cui siamo totalmente vulnerabili, ma diventano incontrollabili anche dalle tendenze che ogni giorno esercitiamo con i nostri pensieri.

La forza della ripetizione di un pensiero crea abitudini e automatismi, piccole fessure su cui va a insediarsi il contenuto inconsapevole di una vignetta, di un motivetto e di un’immagine pregnante.

Per massimizzare l’effetto di questo fenomeno, non si possono usare le buone maniere, il cervello non usa il bon ton: preferisce gli eccessi, la volgarità, omicidi, suicidi, violenze sessuali, catastrofi naturali e tutte quelle notizie che ormai abbiamo assorbito e registrato come “normali”. Queste notizie sono però “negative” e stressanti, pur non essendo riferite a noi in prima persona, hanno un impatto sul nostro modo di percepire il contenuto della notizia.

Quando ci immergiamo in una situazione che il cervello registra come minacciosa, reale o implicita che sia, aumenta l’attività del sistema simpatico e dell’ippocampo, che iniziano a produrre ormoni corticoidi. Ma cosa implica quest’attività? Se il nostro cervello secerne questi ormoni in abbondanza, assistiamo a un mantenimento in memoria delle informazioni registrate. Non solo, dalla memoria a breve termine in cui vengono inserite, vengono poi impresse e incise anche in quella a lungo termine e legate in maniera quasi indissolubile ai nostri ricordi. La pubblicità accattivante non rimane più soltanto una bella esperienza visiva, ma diventa parte integrante del nostro bagaglio di vita, un’emozione che ci ha emozionato e che pulsa ora dentro di noi al ritmo del cuore.

Se vogliamo additare qualcuno per l’intrusione di informazioni impercettibili, non possiamo accusare soltanto i maghi della pubblicità, ma dobbiamo anche sentirci responsabili di aver spostato l’asticella dei nostri pensieri: tramite l’interazione con gli altri abbiamo dato spazio a riflessioni che non avrebbero trovato modo di instaurarsi nel nostro cervello, neanche con la malizia di un messaggio subliminale.

Giacomo Dall’Ava
[Immagine tratta da Google Immagini]

Se questa è filosofia (seconda parte)

Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.

Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.

Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.

Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.

E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.

Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.

La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.

Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.

Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).

Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.

E se così è, che fine fa la cultura?

Federico Sollazzo

[Immaginer: Google Immagini]

L’Eco di Umberto riecheggia nel cervello di legioni di imbecilli

Bandiere calate a mezz’asta. Non le italiane, ma quelle della cultura, dell’intelletto e del continuo esercizio mentale che ci rende così unici rispetto a chi, per natura, non gode di facoltà logiche complesse. I social media daranno pur voce a legioni di imbecilli, ma stanno anche permettendo la diffusione a macchia d’olio di questa notizia.

Umberto Eco è morto, senza alcuna perifrasi a spiegarlo (come ci ha insegnato nelle sue 40 regole per scrivere bene), per non mancare di rispetto alla limpida schiettezza con cui ha donato all’umanità colonne portanti del progresso intellettuale.

Se n’è andato, ma con lui non se ne andranno i frutti di una vita passata a servizio della cultura, del pensiero e dello studio zelante, continuo. Tuttavia c’è qualcosa di più nella vita di Eco, una lezione che dovremmo imparare al meglio, farla nostra e tramandarla di padre in figlio, di insegnante in alunno, fino a che nessuno rimanga senza risposta alle sconcertanti domande che ancora imperversano la mente di ogni studente: “a cosa serve studiare? perché andare a scuola?”

Qualunque percorso di studi si intraprenda, o qualunque sia l’attività della propria vita, c’è un modo efficace per esercitare il vanto di noi esseri umani: il Logos, quest’abilità intraducibile, se non mettendo assieme le due caratteristiche di pensiero e linguaggio, che ci hanno da sempre permesso una costante evoluzione in itinere.

Figure come Umberto Eco sono l’esempio da seguire, il paradigma di riferimento per esercitare e allenare il nostro cervello, un organo che merita di essere rafforzato e curato con estrema delicatezza. Chi infatti persegue un’educazione scolastica basata sullo studio assiduo, implementa la propria struttura neuronale, la migliora, la irrobustisce. E stavolta il consiglio non viene dato dall’insegnante di turno, o dalla madre preoccupata per il futuro del figlio. Ricerche scientifiche hanno dimostrato che l’ippocampo delle persone che sono maggiormente dedite allo studio, all’esercizio della cultura, risulta più compatto a livello strutturale. Il meccanismo innescato dalla dedizione all’istruzione migliora il dialogo tra i neuroni, le sinapsi, che sono le strade su cui viaggiano le informazioni mentali.

Non otteniamo diplomi e voti da esibire, lo studio ci fornisce una riserva neuronale con la quale possiamo far fronte al decadimento cognitivo che immancabilmente travolgerebbe l’uomo con l’andare degli anni. Occorre leggere, dunque, informarsi, sviluppare una curiosità morbosa per l’ignoto e per tutto ciò che ci circonda. Solo in questo modo potremo far lavorare al meglio quel 10% di cervello che si dice possiamo attualmente utilizzare, tentando di aumentarlo, estenderlo, senza limiti tangibili.

La cultura ci fornisce elementi su cui possiamo tenere lezioni a scuola, all’università, o su cui possiamo dibattere tra amici o tra eminenti esponenti del sapere. Ma ora sappiamo che attraverso di essa possiamo equipaggiarci di un patrimonio mentale più ingente con il rinforzo dell’ippocampo, sede della memoria e della navigazione spaziale. Ricordi e movimento, elementi fondamentali per il progresso di un’umanità che, anche quando perde elementi di totale riferimento, si rinnova e tende al miglioramento. Imbecilli o meno, forse Eco ha voluto dirci che prima di postare, twittare, condividere e dire la nostra, dovremmo invece studiare, affinare il nostro pensiero, strutturarlo e utilizzare come base un cervello elastico e allenato.

Siamo sull’orlo di una faglia, la cicatrice di una frattura lasciata dal terremoto di questa scomparsa, ma abbiamo la possibilità di implementare il nostro pensiero, la nostra memoria, le nostre facoltà cognitive anche attraverso lo studio e la commemorazione di quanto Umberto Eco ci ha lasciato.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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