Incomunicabilità: tra Crossroads di Franzen e Gorgia

Crossroads (Einaudi, 2021) è il sesto romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Franzen. Come in altri suoi libri (Le correzioni, Libertà), Franzen esplora le complicate, delicate e a tratti surreali dinamiche di una famiglia americana, gli Hildebrandt, all’inizio degli anni Settanta. Il capofamiglia è Russ, pastore della chiesa locale in crisi su vari livelli esistenziali, sposato con Marion, una donna infelice, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, intrappolata nei ruoli di moglie devota e madre presente – gli Hildebrandt hanno quattro figli. Crossroads è il gruppo giovanile della parrocchia di Russ, dal quale però lui è stato estromesso perché osteggiato dai giovani membri. Rick Ambrose, giovane seminarista, minaccia di prendere il posto di Russ – lo ha già preso all’interno di Crossroads ed è l’idolo di tutti i ragazzi.
Il matrimonio di Russ e Marion, nel frattempo, naufraga. Lei va segretamente da una psichiatra, e durante una seduta emergono esperienze traumatiche vissute in gioventù che aveva rimosso e di cui non ha mai avuto il coraggio di parlare al coniuge.
Nel corso del romanzo, Franzen travolge il lettore con le storie dell’infanzia e dell’adolescenza di Russ e Marion: due vite agli antipodi. Ma il vero protagonista di questo coinvolgente romanzo è l’ incomunicabilità che connota i rapporti tra Marion e Russ, che vivono come due estranei, chiusi nelle loro routine e fantasticherie: Russ pensa a Frances, una parrocchiana vedova e attraente per la quale prova qualcosa; Marion pensa alla ragazza che era e al suo passato movimentato, così diverso dalla vita monotona e inquadrata che conduce.

Nella storia della filosofia occidentale, i sofisti sono stati i primi a individuare una scissione tra realtà e linguaggio, parlando anche di incomunicabilità. Comunicare ciò che la realtà è attraverso il linguaggio è arduo, a tratti impossibile, perché ogni forma di comunicazione è in fin dei conti un’interpretazione. Eppure, come rilevano i sofisti, il linguaggio ci costituisce, costruisce mondi, è potente, persuade, ammalia. Ma può anche distruggere: i personaggi di Franzen tacciono esperienze fondanti delle loro esistenze, dando così vita a rapporti falsi e inconsistenti, e lo fanno per paura di mostrarsi, perché ciò che veramente sono e desiderano non sembra essere “dicibile” né accettabile.
Marion, come Russ (ex mennonita fuggito, in gioventù, dalla famiglia e dalla comunità), si ritrova, giovanissima, senza alcun appoggio o legame con la sua famiglia d’origine. Finisce per innamorarsi di un uomo sposato per cui sviluppa un’ossessione, che fa emergere in lei gravi problemi psichiatrici. Finisce in una clinica, poi in mano a un uomo depravato e senza scrupoli; infine approda a Russ, buono e generoso, inesperto dell’amore e del sesso, che perde la testa per lei. Ma la Marion “pre-Russ” viene da lei stessa relegata in un posto così lontano e inaccessibile, all’interno della sua mente, che finisce per essere inesistente, persino inconoscibile, e in ultima analisi incomunicabile.

Proprio come sostiene Gorgia nella sua opera Sul non essere. Sono celebri le sue tre tesi nichiliste:

  • Nulla esiste

  • Anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile

  • Anche se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile

Marion tace se stessa a Russ – come se non ci fosse nulla da comunicare. È impossibile raccontare a un uomo buono e devoto il suo passato depravato, il suo vero io. E allora nulla di ciò che lei veramente era e ha fatto prima di conoscerlo, è mai esistito. Ma quel nulla è il nucleo fondante della personalità di Marion, e a un certo punto emerge prepotentemente esprimendosi con folle rabbia, con gesti che le erano familiari, ma che sono sconosciuti e incomprensibili per Russ.
Anche lui tace sulla sua curiosità sessuale: Marion è stata la sua prima e unica donna, ha deciso di sposarla troppo in fretta, e altrettanto in fretta l’ha trasformata in madre amorevole e moglie consigliera, spogliandola di quel fascino e di quel mistero, di quel lato selvaggio che la caratterizzavano. Anche Russ ha rinchiuso la realtà di quella Marion in un cassetto della sua mente, gettando poi via la chiave. Quella Marion non esiste, non la si può esperire, non la si può raccontare a parole. E allora Russ si rifugia in una realtà diversa, rappresentata da Frances.

C’è uno iato, secondo i sofisti, tra physis (natura, realtà) e nomos (legge, tradizione, linguaggio): tra ciò che la realtà è e ciò che diventa grazie ai filtri della tradizione, della legge, delle convenzioni sociali e religiose, delle parole. Come sappiamo, Gorgia non voleva negare l’esistenza di ogni cosa, bensì dimostrarci che arrivare ad un principio ultimo, assoluto e metafisico della realtà, è impossibile: non possiamo conoscerlo, non possiamo dirlo.
Ma, tornando agli Hildebrandt, si evince che qualcosa andrebbe detto, invece: non per mascherare, bensì per tentare di comunicare loro stessi e la loro realtà meglio che possono – e tutti noi dovremmo farlo. Sbaglieremo, perché comunicando interpretiamo sempre, storpiamo. Ma dobbiamo tentare, cercare di imparare la lingua dell’altro, cercare di far sì che anche l’altro impari la nostra: per ritrovarci, conoscerci, entrare veramente in contatto.
Il linguaggio resta, così come la nostra capacità conoscitiva (della realtà in generale e della realtà dell’altro), manchevole. Ma è l’unico mezzo a nostra disposizione per dire una realtà che per ognuno di noi è tangibile, concreta. Dobbiamo costantemente cercare di ridurre o di stare in quello iato tra realtà e linguaggio, oppure tentare di superarlo: tentativi forse impossibili, ma necessari per comunicare.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo via Pixabay]

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Natalia Ginzburg e le piccole grandi virtù che ci permettono di essere

 

Le virtù sono, secondo Aristotele, delle disposizioni d’animo che si trovano in noi esseri umani in potenza, e vanno sviluppate mediante abitudini ed esempi. Esse sono come abiti che impariamo a indossare correttamente grazie all’esercizio, ci permettono di vivere e di comportarci in maniera razionale – poiché, naturalmente, siamo “animali razionali”, che si realizzano e raggiungono la felicità solo esercitando la propria ragione.
Lo Stagirita distingueva tra due tipi di virtù: quelle etiche, che permettono alla ragione di dominare gli istinti e di scegliere, fra due estremi, il “giusto mezzo”, e quelle dianoetiche, che consistono invece nell’esercizio stesso della ragione. Queste ultime finiscono senza dubbio per avere un’importanza maggiore: sono la saggezza, che ha una connotazione pratica, e la sapienza, ossia quella conoscenza senza fine alcuno che eleva l’individuo.

Ma facciamo un grande balzo in avanti fino a Natalia Ginzburg, scrittrice imprescindibile per la letteratura contemporanea italiana e mondiale – osannata e citata, di recente, anche dalla scrittrice irlandese Sally Rooney.
Quali legami (e differenze) ci sono tra l’etica aristotelica e quella di Natalia Ginzburg?
Se conoscete l’autrice in questione anche solo un po’, non può non venirvi in mente Le picco le virtù (Einaudi, 1962): una raccolta di undici saggi autobiografici, un po’ racconti e un po’ memoirs; per lo più brevi, incisivi, che arrivano dritti al cuore e lo bucano, metaforicamente parlando. In essi Ginzburg racconta esperienze estremamente personali, dolorose, tenere, disincantate, che riescono a offrire uno sguardo universale, puntuale e compassionevole, su tutto ciò che più conta nelle nostre piccole grandi esistenze di esseri umani. Parla anche di relazioni e affetti, e, ripercorrendo le tappe del libro, riusciamo a capire quante e quanto importanti siano per lei le virtù che ne emergono: amicizia, affetto incondizionato, fedeltà ai nostri cari, resilienza, umiltà.
Virtù “grandi”, anzi monumentali. E quali sono, allora, le piccole virtù cui fa riferimento?

Nell’ultimo memoir che dà il titolo all’opera, Ginzburg, con stile scarno e grezzo, a tratti brusco, non sempre uniforme ma caldo, veritiero, accogliente, racconta quali sono le virtù che andrebbero insegnate ai propri figli. Delle buone disposizioni d’animo che andrebbero trasmesse e tramandate, cucite su di loro e con loro, usando soprattutto un filo invisibile e lunghissimo, facendo attenzione a non farlo divenire mai e poi mai guinzaglio, strumento di controllo. Un filo leggero ma solido per imbastire quell’abito di cui parlava anche Aristotele, tanti secoli prima di lei.
Un genitore, dice la Ginzburg, dovrebbe insegnare non le piccole, bensì le grandi virtù: perché le grandi possono contenere le piccole, perché le piccole sono più comuni e completano le grandi, esistono e giovano se insegnate insieme alle grandi. Una grande virtù è, ad esempio, l’indifferenza nei confronti del denaro, che alimenta la generosità e rende più indolore la separazione dal denaro stesso. E ancora, sempre sulle grandi virtù: «non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; […] non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere» (N: Ginzburg, Le piccole virtù, 1962). Non proprio un giusto mezzo aristotelico, a quanto pare, ma anzi dei moniti che scaturiscono da un impeto, perché, secondo la scrittrice, mentre le piccole virtù provengono da un istinto difensivo, le grandi invece «sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, […] a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che […] disserta con la voce della ragione» (ibidem). Ancora una volta, pare esserci distanza, tra la sua etica e quella aristotelica.

E allora che cosa lega questi due pensatori? L’idea che le virtù vadano imparate gradualmente, procedendo a tentoni, attraverso una costante imitazione. I nostri figli dovrebbero guardarci, prenderci a esempio – ma non si tratta, secondo Ginzburg, di un’imitazione “a nostra immagine e somiglianza”. Ogni figlio va lasciato essere, non va indirizzato, né va accelerato o forzato quel naturale processo che gli permette di trovare la sua vocazione, che è poi espressione del suo amore per la vita. Anche il figlio che appare come il più pigro e intorpidito, potrebbe invece essere «semplicemente in stato di attesa» (ibidem).
L’etica di Ginzburg non segue tanto la ragione quanto la praticità e la schiettezza sentimentale: i primi virtuosi dobbiamo essere noi, predisponendoci ad amare i nostri figli in quanto esseri singoli e separati da noi: «essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti» (ibidem).
La virtù del lasciarli essere presuppone un nostro lasciarci essere: avere noi stessi una nostra vocazione, coltivarla senza mai abbandonarla, o finiremo per aggrapparci «ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero» (ibidem), pretendendo da loro ciò che solo la nostra vocazione può darci. Ecco l’esempio virtuoso per eccellenza, che i nostri figli dovrebbero imparare a indossare: che il legame affettivo tra noi e loro è imprescindibile e fondamentale, ma non è l’unica cosa che c’è, né deve esserlo mai.

 

Francesca Plesnizer

[immagine in copertina tratta da Pixabay]

 

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Scarlett O’Hara e l’elogio del qui ed ora

Via col vento, il celebre romanzo¹ datato 1936 di Margaret Mitchell, è un classico della letteratura statunitense ma anche uno dei film più celebri della storia del cinema. Uscito nel 1939 per la regia di Victor Fleming, il lungometraggio vinse ben otto statuette agli Oscar e fece epoca. Di quelle quasi quattro ore di film, agli spettatori sono rimaste scolpite nella memoria alcune celebri massime.

Francamente me ne infischio” ma soprattutto “Domani è un altro giorno“, rispettivamente pronunciate (almeno nel libro) da Rhett Butler e da Scarlett O’Hara, la controversa e indimenticabile protagonista.
La vicenda si svolge negli anni ’60 del 1800, negli Stati Uniti d’America, in Georgia, tra la piantagione di Tara, con la sua terra rossa e il suo cotone tanto candido quanto colpevole, e Atlanta, città nascente, viva, il cuore del Sud. Sono gli anni della guerra civile tra nordisti e sudisti.

Scarlett è una tipica ragazza del Sud, figlia di un proprietario di piantagione, che passa le giornate tra frivolezze e corteggiamenti. È molto amata da suo padre, Gerald, nato in Irlanda, ma anche da sua madre Helen, di origini francesi, una vera signora, compassionevole, elegante e impeccabile. Scarlett somiglia al padre: sanguigna, irascibile, capricciosa ed egocentrica. Sa di essere dotata di un fascino allegro e spensierato, ma è anche terribilmente antipatica — è proprio questo dettaglio a fare di lei un personaggio reale, a tutto tondo, perfetto da sviluppare. Scarlett pensa sempre al suo tornaconto, non fa nulla per dissimulare il suo egoismo e la sua brama di ricchezza, e in questo, per l’epoca, è anticonformista.
La guerra, tuttavia, la cambierà profondamente: gli inganni di un amore adolescenziale e idealizzato verranno svelati; avrà dei figli e dei mariti, farà la fame e imparerà a combattere per la sua vita e quella dei suoi cari. Vedrà la morte in faccia, imparerà a colpire per non essere colpita. E imparerà anche, faticosamente e fastidiosamente (almeno per noi lettori), ad amare, accettando compromessi e facendo a suo modo ammenda.

Ma perché, oggi, Via col vento andrebbe (ri)letto?
Perché è uno straordinario elogio del qui ed oraScarlett riesce a superare momenti disumani e indicibili: la guerra, i lutti, la perdita dell’amore, la fame, le illusioni infrante. Passa attraverso tutto dicendo a se stessa che a quelle tragedie penserà domani, perché domani è un altro giorno, che non le appartiene ancora, che non ricade sotto la sua responsabilità — di fatto, non ricadrà mai sotto la sua responsabilità, se è vero che tutti noi siamo solo in questo istante. Rimandare è la forza di Scarlett: le permette di respirare, di vivere l’attualità.

In questo senso, rimandare è un grande atto di coraggio: Scarlett si scinde per proteggersi e preservarsi. In realtà, la sua persona è divisa in tre parti: c’è la ragazzina vanesia e spensierata, quella pre-guerra civile. E, all’estremo opposto temporale, c’è una Scarlett del futuro, alla quale quella del presente delega tutte le incombenze peggiori.
Nel mezzo, c’è la Scarlett che posticipa, che rimanda un dolore perché è troppo da sopportare. Grazie a quel “domani” Scarlett riesce a sciogliere nodi interiori, si libera dalle oppressioni e dalle angosce, mettendo ciò che le accade in prospettiva. Il suo gesto è un delegare, ma non ad altri: Scarlett porta da sola i suoi fardelli e, anzi, riesce a caricarsi anche di quelli degli altri proprio perché sa alleggerire se stessa adagiandosi su quel leitmotiv, “Domani è un altro giorno“.

È così che Scarlett riesce a vivere il più intensamente possibile, quando serve, anche negli attimi più bui: sentendo nitidamente i suoi stessi passi mentre vaga confusa e in preda al panico per Atlanta ormai quasi caduta in mano ai nordisti. Vive l’attimo anche di fronte alla morte: giovanissimi soldati (in alcuni casi praticamente bambini) mutilati e straziati. Incendi, carne umana che brucia. Violenza infernale. Il suo mondo che si sgretola, per non tornare mai più. Via col vento descrive la fine di quella cultura tipicamente sudista, l’attaccamento inconcepibile e paternalistico dei ricchi proprietari terrieri nei confronti dei loro indispensabili schiavi. L’amore per una cultura classica, di stampo greco, l’esaltazione di ideali ormai obsoleti. Ma è solo armata di quel “domani” che Scarlett può superare la fine di un’epoca, del suo mondo, di una guerra senza senso e senza vergogna.

Ecco l’importante lezione che possiamo apprendere da questo classico: imparare a stare nel qui ed ora, nell’attimo presente. Dando spazio e rilevanza solo a ciò che conta adesso. Senza perdere il senno e il sonno per ciò che potrebbe accadere né struggersi per ciò che è stato.
E finché abbiamo un domani, abbiamo ancora tanta, tanta forza, di vivere l’oggi.

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE:
1 Consiglio la recente traduzione edita da Neri Pozza, che ha saputo svecchiare con grazia e ridare vita alle parole della Mitchell.

[Photo credit Unsplash]

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La Tana di Kafka: l’essere prigionieri di sé stessi

La Tana è un racconto scritto nel 1923 da Kafka durante la sua permanenza a Berlino; il protagonista del racconto è avvolto dal mistero e si intuisce che sia un roditore intento a cercare di costruire un nascondiglio sotterraneo per difendersi da eventuali invasori che potrebbero cibarsi di lui. Il covo è labirintico, lontano sempre di più dalla superficie e il roditore passa le giornate a perfezionare la sua struttura scavando ulteriori cunicoli e a consumare convulsivamente le sue provviste. 

Una volta concluse le provviste è costretto ad andare a caccia per procurarsene delle nuove, terrorizzato dal poter essere scoperto si ritrova incapace di uscire dalla sua stessa tana: «Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo»Sembra che il rifugio che aveva costruito a sua difesa si sia trasformato in una gabbia che lo imprigiona; mentre le sue riflessioni si accavallano, sente degli strani rumori dall’esterno e si convince che di lì a poco sarà attaccato. Il roditore si prepara a difendersi, chiedendosi perché non abbia udito prima il nemico e il racconto si conclude bruscamente con la frase: «Tutto invece è rimasto immutato…»

Le vicende di questo peculiare personaggio portano a riflettere su come la nostra casa possa diventare la nostra prigione, ma soprattutto su come si possa diventare prigionieri di sé stessi; il suo flusso di pensieri è concitato, inquieto e quasi si è incapaci di distinguere se le sue preoccupazioni siano reali o frutto di un’allucinazione provocata dalle sue paure. Il piccolo roditore di Kafka ha scelto di vivere lontano dai suoi simili, si è volontariamente isolato a scopo di difesa, la paura del diverso e dell’incontro con l’altro lo hanno portato ad una reclusione forzata che lo ha spinto ad allontanarsi dalla vita vera. Si legge infatti: «Quando esco devo quindi vincere anche fisicamente la pena che mi dà questo labirinto e provo dispetto e commozione a un tempo ogni qualvolta mi smarrisco per un istante nella mia propria fabbrica e l’opera sembra ancora compresa nello sforzo di provare a me, che già da un pezzo mi sono fatto un giudizio, la sua giustificazione di esistere…»

Il racconto di Kafka è un’allegoria di ciò che accade oggi, ma che in realtà è sempre accaduto: l’incontro con l’alterità spaventa, è difficile accettare di vivere con gli altri ed è altrettanto complesso accettare di conoscerci attraverso l’altro. Si deve vivere in relazione agli altri perché chiudersi ci allontana dal conoscere l’altro e il mondo, portandoci ad alimentare paure, sospetti e pregiudizi. Paradossalmente proteggersi implica aprirsi all’ignoto e al pericolo, scegliere di blindare il nostro io vuol dire esporci inesorabilmente a pericoli che non siamo in grado di affrontare. Nell’atto finale, infatti, il piccolo animale per proteggersi è costretto a risalire attraverso i cunicoli del labirinto che ha costruito ed arrivare quasi alla sua superficie per poter avvertire meglio le mosse del nemico. 

Lo sviluppo dell’individuo è nel rapporto con gli altri e lo si vede dalle sue attività che hanno tutte in sé natura sociale, le barriere che scegliamo di costruire a livello individuale e quelle che si sono volute costruire a livello sociale hanno lasciato impronte indelebili nella storia.

È emblematico che il racconto si concluda bruscamente affermando che nonostante gli sforzi, nonostante i tentativi di difesa tutto è rimasto immutato: è rimasto immutato perché il protagonista è senza storia. Una storia che non si costruisce isolandosi: la storia è ciò che muta l’essere umano e va costruita attraverso scelte e azioni che permettono un rapporto dialettico con l’altro, vi deve essere integrazione e azione. Il singolo fa la storia attraverso i suoi atti performativi, ma anche la storia lo trasforma, non si può accettare di vivere non avendone una. È di primaria importanza per l’individuo conoscere sé stesso identificandosi nell’altro, la paura dell’altro del roditore oggetto del racconto nasce dal suo non conoscerlo; la non conoscenza porta alla costruzione irrealistica di una idea di realtà che si finisce per accettare cecamente. 

Tutti gli sforzi del soggetto di allontanarsi dall’altro non hanno fatto altro che avvicinarlo ad esso nella parte finale, nel momento in cui risale in superficie non può fare altro che aspettare che si compia il suo destino e attendere l’arrivo imminente di uno straniero di cui non conosce neanche le reali intenzioni. Il nemico che spesso vediamo nell’altro è in noi stessi, si può diventare estranei nel momento in cui non ci si riconosce come specchio di un’alterità che non è nemica, ma nostra complementare.

Accettare di voler conoscere il singolo vuol dire accettare di conoscere l’altro senza dissolversi in esso, ma cercando un confronto critico. Ciò che Kafka ci mostra nel suo racconto vuole essere un monito e ci ricorda che possiamo essere sia la nostra prigione, sia le fondamenta della costruzione del nostro io, che deve formarsi attraverso le azioni e la volontà di accettare i rischi che vi saranno, ma che porteranno ad essere parte attiva della storia.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Pixabay]

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Scoprire e ritrarre: il soggetto esposto e problematizzato

Di recente ho letto il romanzo Il ritratto di Ilaria Bernardini, uscito a gennaio di quest’anno per Mondadori. Un’opera notevole, che scava all’interno dei personaggi e trasporta il lettore nei loro mondi, passati e presenti, nelle loro paure e nei loro desideri. Un romanzo che narra soprattutto il desiderio di essere visti, scoperti, riconosciuti – tramite un ritratto, appunto.
La protagonista è Valeria, scrittrice di mezza età legata, da ben venticinque anni, a un uomo sposato, Martìn, ricco imprenditore. Quando la radio informa Valeria che il suo grande amore è finito in coma e si trova a casa sua a Londra, con moglie e figli, la scrittrice fa l’impensabile. Per stargli vicina chiede a sua moglie, Isla, famosa pittrice, di farle un ritratto. Un’occasione pericolosa, piena di tensione, che le permette di incontrare la donna con la quale ha segretamente condiviso un uomo per tutti quegli anni. Isla sa di lei? Come si comporterà? Il romanzo, però, non è incentrato solo su questo torbido intrigo.
Il ritratto che la moglie fa all’amante porta a galla la vera Valeria, piena di contraddizioni, rea d’aver commesso atti vergognosi ma anche pieni d’amore.

Valeria ha un passato lastricato di dolore, lutto, abbandono. A cinquantacinque anni avverte e assiste al cambiamento del suo corpo, che cerca di curare con l’esercizio fisico e che fatica a vedere riflesso nello specchio. La sua vita l’ha data quasi tutta a Martìn e alla scrittura. E adesso, tesa nella paura di perdere per sempre quell’amore, Valeria esplora inconsapevolmente il suo bisogno d’essere guardata.
Isla la ritrae su tela osservandola attentamente e scrupolosamente durante alcune intense sessioni giornaliere. Guardandola, ella dà corpo e consistenza a Valeria, convalida in qualche modo la sua presenza nella sua vita e in quella dei suoi figli, persino in quella del marito, in stato comatoso al piano di sopra. Isla si accorge che Valeria, immobile e seduta, nell’atto di posare, si mostra per quella che è, mostra le sue tante sfaccettature pur restando ferma e credendo (più che altro sperando) di essere imperscrutabile. Ma l’artista coglie sempre il vero nocciolo della personalità di chi ritrae, la svela, per trasferirla sulla tela. È un processo non solo artistico, ma anche psicologico, persino spirituale. Un processo totalizzante, sfinente sia per chi dipinge che per il soggetto che viene ritratto.

Il filosofo Jean-Luc Nancy, nel suo Ego sum (Bompiani, 2008) parla della scelta di Cartesio di pubblicare anonimamente il suo Discorso sul metodo. Cartesio mostra al pubblico la sua filosofia come fosse un quadro dall’autore sconosciuto e resta dissimulato dietro a esso in ascolto, per capire che ne diranno gli altri. Cartesio si fa voyeur esponendo il suo pensiero e Nancy ci ricorda che il voyeur è sempre un esibizionista. Anche Valeria si esibisce, ne ha bisogno; è lei stessa a pensare che «a vent’anni voleva essere invisibile. Ora voleva essere vista». Giunta alla mezza età, arriva il momento per lei di mettersi in mostra: a Isla, per farsi ritrarre, ma anche e soprattutto a se stessa, per scoprirsi e (ri)darsi un senso, proprio attraverso gli occhi della sua antagonista. In questo caso Isla non è solo la ritrattista ma è anche la sua spettatrice più importante. Anche se potrebbe sembrare che la pericolosa scelta di Valeria di recarsi in quella casa sia legata solo al suo desiderio di stare vicina a Martìn, in realtà leggendo il romanzo emerge potentemente la sua volontà di esporsi per concretizzarsi e rispondere a tante domande che, nella sua vita, sono sempre rimaste senza risposta, almeno fino a quel momento.

«Il soggetto esposto» scrive Nancy in Ego sum «mette contemporaneamente in gioco il guadagno della sua sostanza e la perdita della sua identità». Posando per quel ritratto Valeria perde la sua identità di amante, non solo a livello fittizio in quanto non può e non deve confessare a Isla chi in realtà è, ma anche a un livello personale e profondo. Valeria è sempre e solo stata un’amante e una scrittrice di successo? No, è stata ed è tante altre persone, tanti altri volti che si susseguono uno dopo l’altro mentre posa immobile, acquistando, forse per la prima volta, la sua vera sostanza.
Ma pure Isla è lì per scoprire qualcosa: come afferma Nancy, «l’autore nascosto dietro il quadro […] è lì per vedere». Vedere Valeria, l’altra donna, e attraverso lei vedere anche Martìn, la loro vita insieme e quella di lui con la sua amante. E, in ultima analisi, vedere più chiaramente anche se stessa.
Il ritratto è un romanzo estremamente filosofico e labirintico, strutturato come un puzzle capace di allenare non solo la mente ma anche e soprattutto il cuore, problematizzando il concetto stesso di identità e di accettazione di sé. Un po’ come una seduta psicoanalitica, anche per lo stesso lettore.

 

Francesca Plesnizer

 

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L’uomo etico di Philip Roth: scelta e predestinazione

Philip Roth è morto più di due anni fa, lasciando un vuoto che può essere colmato solo dalla lettura e dalla rilettura delle sue opere. Tra queste spicca Pastorale americana, uscito nel 1997, primo romanzo della Trilogia di Zuckerman. È infatti l’alter ego letterario di Roth, lo scrittore Nathan Zuckerman, a narrare la storia del protagonista di Pastorale americana, Seymour Levov detto lo Svedese per via dei capelli biondi e dei tratti nordici.

Lo Svedese era stato, per Zuckerman e non solo, un mito: l’aureo ragazzo perfetto ammirato da tutti, il giocatore di basket acclamato, affascinante e svedese nell’aspetto e nei modi. La fortuna aveva continuato a sorridergli anche dopo il liceo: Levov aveva preso con successo le redini della fabbrica di guanti di suo padre e sposato una reginetta di bellezza. I due avevano avuto una figlia, Merry, che sarebbe diventata la ragione della sua rovina.

Nel corso di tutto il romanzo lo Svedese si domanda che cosa ha sbagliato con sua figlia. Cosa ha fatto per farla diventare la terrorista che a sedici anni ha costruito una bomba e fatto saltare in aria un piccolo ufficio postale nel New Jersey, alle 6 del mattino, ammazzando un uomo che si trovava lì a imbucare delle lettere?

Di primo acchito lo Svedese può ricordare l’uomo etico descritto dal filosofo danese Søren Kierkegaard: marito e padre modello, dedito al lavoro e ai doveri morali, sempre attento a inseguire la scelta più eticamente corretta. Ma scavando a fondo si scopre che invece egli, in un’occasione che si rivelerà la più fondamentale, è stato incapace di scegliere. Scrive Kierkegaard all’inizio di Aut-aut, che vi sono individui «alla cui personalità manca l’energia per poter dire con pathos: o questo, o quello». Quel vigore è proprio ciò che manca allo Svedese quando Merry inizia a inveire contro i politici guerrafondai che inneggiano alla guerra in Vietnam alla televisione, quando comincia a crescere in lei il seme del terrorismo. È qui che assistiamo alla mancata scelta dello Svedese, la più fatale: egli non s’impone, non impedisce a sua figlia di commettere errori, anzi l’ascolta, parla con lei, cerca di farla ragionare, la rispetta. Ma la battaglia contro la guerra in Vietnam non è la battaglia di Merry, è solo una copertura: lei lotta contro suo padre, contro la sua essenza, la sua “svedesità”. Combatte la pastorale americana fatta di perbenismo, che nasconde un marcio che in fondo non ha nulla di eccezionale, quel marcio che, secondo Roth, conduce a ciò che di disdicevole e ipocrita c’è nella vita di tutti noi.

Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?

Così si conclude il romanzo. Una chiusura che è apertura, poiché apre al domandare.

Quali sono le colpe dello Svedese? È un buonista che non vuole nuocere a nessuno e per questo non si schiera mai. Levov pare tutto apparenza, ma la sua profondità celata rompe gli argini alla fine del romanzo. Roth riesce nell’impresa di rendere monumentale un uomo comune: lo fa scavando in lui, alla scoperta delle sue stonature, delle sue debolezze, dei suoi atti non “svedesiani”. Il presunto uomo etico kierkegaardiano aveva perso le staffe, in passato, con la piccola Merry, arrivando a prendere in giro la sua balbuzie. E per porre rimedio a questo suo errore, egli aveva dato un bacio sulle labbra a Merry, di ritorno da una giornata padre-figlia. Un bacio innocente e paterno, su questo non v’è dubbio, che assecondava la normale cotta edipica che la bimba aveva per il suo papà. La piccola gli aveva chiesto di baciarla come avrebbe baciato la sua mamma e lui l’aveva accontentata – per poi tormentarsi, anni dopo, domandandosi se era stato quello a creare in Merry una crepa che aveva fatto penetrare il male.

Leggendo Pastorale americana ci si domanda di continuo, in un dolce supplizio che tiene incollati alla pagina, se la colpa sia dello Svedese.
No, non è mai stata colpa sua. Forse nel suo destino risuona un’eco di predestinazione di matrice luterana per cui nessuna opera può graziare chi Dio ha deciso di non salvare.
Oppure sì, la colpa è sempre stata sua, perché Merry andava aiutata in modo diverso. Bisognava redarguirla, recuperarla, richiamarla a se stessa, cose che lo Svedese non ha mai saputo fare proprio per paura di sbagliare.
Roth ci fa compiere un esercizio di scomodità e ci fa comprendere che l’uomo resta un interrogativo aperto, un dubbio che si mangia iperbolicamente tutto, mentre viene sospinto (o si spinge) da un evento all’altro.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo credit unsplash.com]

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La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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Riscoprire il valore del libro e della lettura

Il dominio della virtualità e la digitalizzazione crescente hanno marginalizzato il libro, sostituendo il tempo, lento e paziente della lettura con la bulimia di informazione che passa attraverso social media e social network. I flussi inarrestabili e ingovernabili di informazioni stanno operando una metamorfosi antropologica che può essere sintetizzata come un passaggio da homo cogitans a homo videns, laddove il vedere non è più preceduto né seguito dall’esercizio del pensiero autonomo. Questo lo si riscontra quotidianamente: la compagnia del libro e l’esercizio della lettura hanno lasciato spazio allo scroll, allo scorrere delle dita su smartphone e tablet. I capi sono chini, non più su un libro, ma sui prolungamenti bionici delle nostre braccia, che ormai vicariano perfino le nostre menti.

Il libro e la sua fruizione sembrano non poter competere con la rapidità e il dinamismo che contraddistinguono la civiltà tecnologica. L’incanto del libro sembra svanito. Alla lettura si preferisce il consumo di video, immagini, notizie flash costituite solo da titoli ad effetto e prive di contenuti. La pratica consumistica, a servizio di una società che ci preferisce fruitori compulsivi, piuttosto che esseri pensanti, catalizza la nostra attenzione, impoverendola di ogni riflessione e mediazione operata dall’intelletto, chiudendo gli orizzonti e ogni prospettiva ulteriore rispetto al pensiero dominante. Come dimostrano i più recenti studi1, questo conduce inevitabilmente a un impoverimento delle facoltà intellettive con perdita di equilibrio interiore, saggezza e una drastica riduzione del pensiero critico.

I libri e il loro significato sembrano entità museali, relitti affondati negli abissi del mare. Il libro, tuttavia, ha la forza sorprendente di creare incrinature rispetto all’omologazione e al conformismo dominanti, di introdurre discontinuità nello status quo. Non è forse questo che vuole mostrarci l’artista Jorge Mendez Blake, inserendo proprio un libro alla base di un muro di mattoni nell’opera ribattezzata per l’appunto L’impatto del libro (2007)? Simbolicamente, l’artista intende comunicare che, seppur in maniera minima, il libro genera un cambiamento, un’impercettibile breccia all’interno di un muro apparentemente statico.

Il libro e la sua lettura generano in chi legge delle fenditure che minano la stagnazione del pensiero, che sovvertono le idee fisse, generando riflessioni nuove, favorendo la conoscenza di prospettive diverse, incoraggiando la costruzione di un pensiero laterale e critico rispetto all’omologazione della società ipermoderna. Il libro sta alla persona e alla realtà, come quel volume installato da Blake sta al muro. Una modificazione in apparenza irrilevante eppure capace di interrompere la continuità lineare del muro e di creare un lievissimo dislivello che, altrimenti, non vi sarebbe. Il libro apre una fessura sulla realtà esterna, ci invita ad abbandonare ogni rigido schematismo, a cambiare punto di vista sul mondo e sulla narrazione che di esso ci viene quotidianamente proposta e imposta.

Il libro può riportarci inoltre in contatto con la nostra interiorità stimolando il colloquio interminabile con noi stessi, aiutandoci talvolta a trasformare le nostre ferite in feritoie attraverso le quali far passare la luce di un nuovo inizio, di una nuova opportunità di consapevolezza e di senso. Il libro apre finestre sul mondo e su noi stessi. Oltre ogni confine, il libro invita ad abbandonare pregiudizi figli di una nefasta povertà educativa e culturale.

Il libro è sempre incontro con il diverso, con qualcosa di altro. In questo senso nutrirsi attraverso un libro significa relazionarsi con l’alterità, dapprima la propria, quella che ci abita e che talvolta affiora in maniera perturbante e in un secondo momento con quella dell’altro, simbolicamente rappresentata dal libro. A questo si aggiunge il fatto che il libro è sempre e ulteriormente apertura ad altro. Infatti, lungi dall’esaurire la conoscenza e la ricerca, il libro le stimola, suggerendo l’accesso ad altri testi, pertanto a nuovi orizzonti e nuove prospettive. Proprio in questo senso il libro è un potente antidoto contro ogni idea, pensiero, volontà che voglia proporsi come definitiva, restringendo le possibilità di una riflessione altra, differente.

Per questo, come non pensare al fatto che una delle prime mosse di ogni regime dittatoriale è quella di prendere il controllo e attivare la censura sui libri e su coloro che li scrivono, proibendone l’accesso, mettendoli all’indice o addirittura eliminandoli? Questo delirio è necessario ad ogni forma di governo autoritario al fine di favorire l’instaurazione e il mantenimento di un pensiero unico. Contrariamente, l’insegnamento che proviene dal libro è quello dell’apertura contro ogni forma di chiusura, della libertà di pensiero contro ogni forma di restrizione.

Diversamente da ogni tentativo sociale, finanziario e politico di appiattire la vita al già dato, il libro è un orizzonte sconfinato e vitale che nutre l’esistenza, che le concede un ampio respiro permettendole così di trascendersi. È questa l’intramontabile la lezione del libro: di non essere mai sufficientemente esaustivo, di invitare sempre ad esplorare nuovi territori, sconosciuti, impensati, aprendo varchi nei diversi muri, fisici, psicologici o sociali e nell’abolire confini, aprendo la mente di chi legge affinché s’incammini verso l’infinita materia della conoscenza e verso l’alterità che feconda la vita, che ne dilata l’orizzonte e che la riempie di significato.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr. M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano, 2013.

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