Libertà come responsabilità: intervista ad Antonio Calò

Quello dei migranti sembra un tema irrisolvibile ed è soprattutto molto divisivo tra chi accoglierebbe indiscriminatamente e chi allo stesso modo respingerebbe. Il tratto in comune tra queste due posizioni sembra quello di non avere però a portata di mente una soluzione al problema – o almeno un tentativo di risoluzione – né nell’uno né nell’altro caso. 

Così ne abbiamo parlato con qualcuno che una soluzione invece sembra averla: Antonio Silvio Calò, professore di religione e filosofia al liceo classico di Treviso, molto amato tra gli studenti ma balzato qualche anno fa anche agli onori della cronaca. Ne avevamo già parlato in questa intervista e, agli albori del 2022 e con un libro fresco di stampa (Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile, UTET) lo abbiamo risentito per fare “il punto della situazione”.

 

Giorgia Favero – Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa (nuovadimensione, 2021) è uno dei suoi ultimi libri e racconta la sua esperienza personale quando la sua famiglia ha aperto le porte a sei ragazzi del Nord Africa. Un modello che ha portato in Europa e che si è tradotto nel progetto EMBRACIN di cui è capofila il Comune di Padova ma coinvolge sei Paesi europei. Qual è la sua proposta per affrontare la delicata questione migratoria?

Antonio Calò – È una proposta che può funzionare solo laddove c’è la volontà politica, perché in termini “tecnici” ha tutte le carte in regola per funzionare. L’accoglienza diffusa è un modo di accogliere le persone riportando il tutto a dei nuclei molto ristretti, da 3 a 6 persone; un’accoglienza più decorosa, sia per chi è accolto ma anche per chi accoglie, rispetto a queste grandi caserme da grandi numeri, i cosiddetti hub, in cui tutti subiscono grande pressione psicologica e sociale. Per me l’accoglienza diffusa – e il mio modello 6+6×6 – è un graduale inserimento, e sia chiaro che accogliere non significa solo dare da dormire e da mangiare – che sono sicuramente importanti – ma significa offrire un luogo dove dare effettivamente la possibilità di un inserimento professionale reale e concreto, affinché la persona si possa realizzare nel nostro contesto. Per questo è un’accoglienza che deve assolutamente contemplare l’accompagnamento. EMBRACIN ha già avuto l’approvazione della Commissione Europea ed è partito l’anno scorso ma il Covid naturalmente lo ha molto rallentato. L’idea di fondo è fare in modo che questa accoglienza diffusa e il conseguente graduale inserimento si possa applicare in sei paesi europei (Cipro, Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Svezia, con osservazione da parte della Germania). Ogni Comune di al massimo 5mila abitanti accoglie un nucleo di sei persone, ogni Comune di 10mila abitanti due nuclei e così via: se lo moltiplichiamo per i 58 milioni di italiani, e poi per i 500 milioni di europei, io vi garantisco che l’accoglienza diffusa limiterebbe moltissimo il tema dei migranti. Se c’è riuscita la famiglia Calò a ospitare sei persona in casa propria, sarebbe grave che non riuscisse a farlo un Comune.

 

G.F. – Questo libro raccoglie anche due importanti firme: quella di Romano Prodi e quella di David Sassoli, probabilmente uno dei suoi ultimissimi scritti. Chi era per lei l’ex Presidente del Parlamento Europeo?

A. C. – David Sassoli era un amico, un’ispirazione. Di lui apprezzavo particolarmente quella sua volontà di essere in sintonia con i giovani, in ascolto: tutte le questioni legate ai giovani per lui erano primarie. E poi, certo… chi è che ha fatto la proposta che Antonio Calò diventasse Cittadino Europeo 2018? David Sassoli. Chi è che ha messo in piedi una tavola rotonda alla sede dell’Onu a Ginevra sulla questione del rapporto Unione Europea e Unione Africana? David Sassoli. Chi è che veniva ad accoglierci quando venivamo con le classi a Bruxelles o a Strasburgo? David Sassoli. E chi si prendeva con Antonio Calò un panino con la porchetta e una birra in una trattoria a discutere di famiglia, di figli e del futuro dell’Europa? David Sassoli. Piango un grande amico e farò di tutto perché la sua testimonianza, il suo essere veramente cittadino europeo, possa continuare a esserci in modo attivo, ma non celebrando una persona – quando si celebrano le persone le seppelliamo due volte! Il cuore di David deve ancora pulsare tra di noi perché ha tantissime cose da dirci e da realizzare. La prefazione al mio libro è un manifesto sull’Europa, su cosa fare e cosa non fare, sull’importanza che per lui ha sempre avuto il tema dei migranti. Così si legge alla fine del suo scritto: «Questo libro ci fa capire che l’accoglienza è possibile, che si può accettare l’altro in modo rispettoso, che si può lavorare bene insieme ed essere persone capaci di creare delle relazioni senza pregiudizi e senza schemi. Tutto questo è possibile ed è indispensabile».

 

Giorgia Favero – Libertà è una parola molto amata ma forse addirittura abusata: sembra che l’altro (a maggior ragione se diverso, straniero, di altro genere, altra fede, altro orientamento sessuale, altra opinione) con il suo semplice esistere soffochi la propria libertà. Mi affido alle parole di un grande filosofo, Emmanuel Lévinas, secondo il quale bisogna abbandonare la logica della libertà dell’io per abbracciare la libertà come responsabilità. Responsabilità, per Lévinas, significa prendersi cura della libertà altrui. Secondo lei è un modello che può funzionare?

Antonio Calò – È un’idea del tutto condivisibile: per me l’unica libertà possibile è la libertà nella responsabilità. Io dico sempre ai miei studenti che nel momento in cui sono dentro a quella scuola, nel momento in cui conoscono, la conoscenza vera implica sempre una responsabilità: sapere è già essere responsabili e già muoversi all’interno della responsabilità, perché non puoi dire a te stesso di non sapere, se hai conosciuto non puoi dire a te stesso di non aver conosciuto. Se non pratichi la libertà nella responsabilità tu stai praticamente uccidendo l’individuo, nel senso che quell’individuo non può vivere senza questo atto che è l’atto di coscienza vero, il sapere di sapere, e che non può essere sterile: è fecondo, è un sapere nel noi, non nell’io. Il problema fondamentale è che oggi il mondo è chiuso dentro un Io che è diventato un gigante infinito, mentre il Tu e il Noi sono stati messi da parte e rischiano di essere oggetti semi-sconosciuti. Non solo nei confronti dei migranti, che sono semplicemente dei poveri in terra straniera. Anche nei confronti dei poveri italiani voltiamo la testa, pur essendo in realtà aumentati moltissimo ultimamente: eppure per noi non esistono, non dobbiamo vederli, non dobbiamo sentirli. Quindi vanno benissimo le caserme, vanno benissimo i luoghi dove non si vedono, non si sentono, non si toccano, non ci disturbano la vista.

 

G. F. – Spesso accade che di fronte fenomeni di grande portata in molti si sentano troppo piccoli per poter fare la differenza: le migrazioni, i cambiamenti globali, le discriminazioni di genere. Per citare Bauman, «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». Ma allora qual è (ammesso che ci sia) il potere del singolo?

A. C. – Io non ho la presunzione di cambiare le cose, io so solo una cosa: che sono cambiato io e questo per me è tantissimo. Io ho sentito urlare la mia coscienza di credente e di civile, e questa mi ha portato insieme a mia moglie ed ai miei figli ad aprire una porta, eppure di certo non posso pretendere che tutti sentino e provino che quello che ho sentito io. Ci sono tantissime cose che si potrebbero fare, partendo dal donare quello che si può – non solo in base ai possedimenti materiali ma anche in base alla propria sensibilità. Si può donare qualcosa di materiale ma anche semplicemente il proprio tempo e/o la propria professionalità. Sicuramente ci si può informare, che è già un primo passo per far andare meglio le cose. Ci sono mille modi per far capire che non ci siamo voltati dall’altra parte, che non siamo figure omertose, che non facciamo finta di non vedere e di non sentire. Sentirsi testimoni di qualcosa è già una presa d’atto importantissima nella coscienza di una persona. Essere cittadini attivi vuol dire essere partecipi di quello che sta succedendo.

 

Giorgia Favero – Nella rivista numero 16 dedicata all’educazione abbiamo parlato anche di scuola, evidenziando come nei programmi scolastici attuali manchi la componente del “tirare fuori” e si lavori soprattutto nell’ “istruire” i bambini e i ragazzi. Lo scrittore Alessandro D’Avenia nei suoi libri scrive che ogni insegnante nella sua ora di lezione può fare la rivoluzione: lei prova a fare la rivoluzione nella sua ora di lezione?

Antonio Calò – A dire la verità io ho sempre fatto la rivoluzione, e penso che la rivoluzione stia nella passione e nella relazione. La passione, quello in cui credi, che porti avanti con studi e aggiornamenti continui, non è sufficiente se non si è in grado di trasmetterla e di relazionarsi con gli altri – in questo caso con i tuoi studenti. Se non si è capace di fare questo, la scuola è già fallita. La rivoluzione – che è una cosa bellissima – avviene ogni giorno nel momento in cui creiamo questo ponte con gli altri e ogni giorno ne dobbiamo creare uno nuovo: ogni lezione deve permettere a ciascun ragazzo e ciascuna ragazza di sentirsi accolto nella sua ricerca come studente, per crearsi un’identità, alimentare quella voglia di porsi delle domande. Ma la rivoluzione deve essere dentro di noi affinché la coscienza continui a crescere.

 

Per approfondire, vi lasciamo la lettura del libro Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile (UTET, 2022):

“Calò, professore di storia e di filosofia, attraverso la sua esperienza costruisce un decalogo civile, una nuova educazione pubblica, indissolubilmente legata alle nostre radici cristiane, in cui lo stato di diritto non travalica mai l’empatia, in cui l’indifferenza non è più una opzione”
(dalla quarta di copertina)

Buona lettura e grazie ad Antonio Calò per questa intervista!

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

la chiave di sophia

Autenticità e libertà. Artemide e il mito della caverna

Si sente molto parlare, oggi, di “autenticità”: un vero e proprio tormentone del mondo social, dove spesso l’autenticità diventa, nella pratica, raccontare i dettagli della nostra vita, anche quelli più intimi e privati, ai nostri followers.
Ma è davvero questo il significato e il valore dell’essere autentico?

Qualche tempo fa mi sono imbattuta in Artemide, uno dei saggi più interessanti, a mio avviso, della psichiatra, psicoterapeuta e analista junghiana Jean Bolen. All’interno della più ampia riflessione che la Bolen dispiega sulla divinità greca e sui tratti della donna che rispecchia l’archetipo di Artemide (una donna che incarna le qualità di indomita, tenace e riflessiva, intuitiva e passionale), nelle pagine finali del libro l’analista junghiana si sofferma sul concetto di autenticità e lo affianca a quello di libertà. Per la Bolen, infatti, non c’è autenticità senza libertà, e la libertà di cui parla è una libertà di essere, di scegliere e di seguire il cuore:

«Essere capaci di fare scelte basate sull’anima e sul cuore ci fa sentire una passione per la vita, dandoci l’opportunità e la libertà di vivere un’esistenza significativa a livello personale.
Ciò è possibile solo quando si è liberi di essere tu e io, e si ha la libertà e l’opportunità di scegliere un sentiero dell’anima» (J.S. Bolen, Artemide, 2015).

A quanto pare l’autenticità, collegata alla libertà di essere, è anche la strada per sentirsi appassionati della vita, per non cadere nel “torpore emotivo” di chi si lascia vivere, e la Bolen lo ribadisce anche in un altro punto del libro:

«Entusiasmo e vitalità sono segni del fatto che stiamo vivendo la vita che fa per noi e ci sentiamo realizzati. Quando non è così può esserci torpore emotivo, una tristezza diffusa, ansia e vari dolori fisici derivanti da tensione e stress» (ivi).

 Ma come si può fare a trovare la nostra autenticità, il nostro vero essere? Sempre la Bolen scrive:

«Diventare reali ha a che fare con l’anima, con il lavoro e le connessioni dell’anima, termini che uso in modo intercambiabile con lavoro e connessione del cuore.» (ivi).

Quindi una profonda connessione col cuore è la chiave, secondo la psicoterapeuta, per l’autenticità, per comprendere chi siamo davvero e vivere la vita con pienezza ed entusiasmo.

Della scoperta del nostro vero sé, del diventare reali, autentici, consapevoli, ne aveva parlato anche Platone, molto prima della Bolen, in uno dei suoi miti più affascinanti, quello della caverna, forse il più noto del filosofo greco, che apre il VII libro della Repubblica.
L’inizio del mito è già di grande impatto: Platone ci presenta delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così strettamente da non poter neanche girare la testa. Una di loro però riesce a liberarsi, a uscire fuori e vedere, per la prima volta, la luce del sole.

Analizzando profondamente il mito, emerge chiaramente il suo collegamento con l’autenticità: esso è di fatto anche il simbolo di un processo educativo che consente all’essere umano di procedere verso la conquista della sua più autentica natura. Con il mito della caverna Platone racconta un percorso di evoluzione di se stessi che consente il saldo possesso della verità, che ci conduce all’impegno civile nel mondo, al dono di sé alla comunità, che dà il senso più nobile alla propria esistenza nel mondo. E che conduce anche alla libertà e all’autenticità di cui parla pure la Bolen, che diversamente da Platone – il quale vede nella filosofia la chiave di svolta per uscire dalla caverna – pone il cuore e l’anima come “strumenti” centrali di verità.

In tempi in cui “libertà” e “autenticità” sono sulla bocca di tutti, spesso anche a sproposito, forse sarebbe bene ricordarci di quanto essere autentici sia il senso profondo di tutta la nostra esistenza. Non è in fondo quello che cerchiamo tutti quando ci chiediamo: “chi sono io”?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

la chiave di sophia

Libertà e capacità: spunti da Martha Nussbaum

L’attuale crisi afghana ha riportato al centro dell’attenzione mediatica diverse problematiche sociali, politiche ed economiche che, sebbene riguardino localmente e direttamente l’Afghanistan, in realtà coinvolgono la coscienza collettiva internazionale. In particolare, ritorna ad essere più frequente il tema dei “diritti umani” da tutelare specie nelle nazioni considerate più “a rischio”. Proprio in questo contesto sembra utile ricordare la filosofia di Martha Nussbaum e i fondamenti da cui la propria teoria delle capacità prende forma. 

La filosofa statunitense, dopo avere conosciuto da vicino la condizione delle donne indiane, osserva come la comunità internazionale, per misurare la qualità di vita degli abitanti di un Paese, utilizzerebbe dei paradigmi e degli indicatori che spesso possono risultare fuorvianti rispetto alla realtà concreta che le persone sono costrette a vivere. Nello specifico, la Nussbaum prende in esame il concetto di Pil sostenendo come la politica internazionale lo renda direttamente proporzionale allo stato di benessere, non considerando però che tale Pil, prendendo in esame soprattutto l’incremento economico, non renda giustizia del fatto che non tutti gli abitanti di una determinata nazione usufruiscano equamente di tale percentuale di miglioramento. Per la Nussbaum bisognerebbe invece considerare sempre prima di tutto la persona, sia come singolo che come collettività tutta, per lavorare concretamente allo sviluppo di ciascun Paese, specie di quelli più poveri. Per tale ragione, la filosofa, riprendendo un concetto già presente in Amartya Sen, porta avanti il paradigma del capability approach (approccio delle capacità).

Con capacità, la Nussbaum intende «le risposte alla domanda: cos’è in grado di fare e di essere questa persona?» (M. Nussbaum, Creare Capacità, 2013) in quanto «esse non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà o le opportunità create dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico» (ibidem). Proprio in quest’ultimo passo, infatti, vi è la rivoluzione che tale approccio porta con sé: non solo capacità è espressione di ciò che la persona è – compreso ciò che sa fare – ma non è un concetto autosufficiente o autoreferenziale perché, per esistere, ha bisogno che ad esso corrisponda una comunità che sappia tutelare e far crescere tale capacità. Per questo la Nussbaum indica una lista di dieci capacità centrali che ogni «ordinamento politico deve garantire a tutti i cittadini» (ibidem) almeno come «soglia» minima: Vita (ovvero poter vivere una vita in condizioni di dignità), salute fisica, integrità fisica, sensi, immaginazione e pensiero, sentimenti, ragion pratica, appartenenza, gioco, controllo del proprio ambiente. Queste corrispondono a quelle libertà fondamentali che vanno garantite, tutelate e coltivate non soltanto dalla persona ma anche a favore della persona, da parte di ciascun ordinamento politico.

Imparare a ritenere la tutela di tali capacità non soltanto un diritto-dovere ma anche un obbligo morale, renderebbe più semplice considerare, in primis, l’importanza della persona in sé prescindendo dal genere, etnia e condizione economica, garantendo quindi uguaglianza ed equità. Ogni persona ha diritto alla piena realizzazione di ciò che è e di ciò che è in grado di fare, poiché solo in questo modo la società potrà realmente svilupparsi in tutte le sue direzioni e nessuno correrà il rischio di restare indietro. Dare a ciascuno gli strumenti per sviluppare maggiormente le capacità di cui è portatore, non dovrebbe essere un lusso per pochi, ma un diritto per tutti. 

In questi giorni si è tornato a parlare di quanto la dicotomia “occidente” e “oriente” sembri suddividere il mondo non tanto in termini di “diversità culturale”, quanto in presenza o assenza di diritti e opportunità per tutti. Ripensare l’approccio delle capacità all’interno di corridoi umanitari e risorse che la comunità internazionale ha il dovere di destinare alle zone di crisi, significa attuare una rivoluzione che non abbia come unico scopo quella di inviare esclusivamente aiuti in termini economici, ma soprattutto quello di restituire alla persona la possibilità di riappropriarsi delle proprie capacità e di supportarla nel percorso di realizzazione di sé. Tale teoria, se vuole diventare davvero una prassi da attuare, non può rimanere singola iniziativa di piccole realtà, ma ha bisogno di essere un imperativo prima di tutto etico e morale dell’intera comunità internazionale. «L’approccio delle capacità viene presentato come contributo al dibattito nazionale ed internazionale […] è fatto per essere ponderato, assimilato, confrontato con altri approcci […] ciò significa che voi, lettori di questo libro, sarete gli autori del prossimo capitolo di questa storia dello sviluppo umano» (ibidem). Da noi, singoli e collettività insieme, sempre dipenderà la storia. Ed essa sarà sempre frutto di scelte, azioni, capacità e valori.

 

Agnese Giannino

 

[Photo credit Ryoji Iwata via Unsplash]

copertina-abbonamento2021-ott

Relazioni liquide: tra precarietà e immaturità affettiva

Il tempo presente è caratterizzato da una precarietà diffusa che rende tutto a tempo determinato. In un contesto economico e sociale nel quale il futuro è vissuto più come minaccia che come promessa le persone tendono a vivere in una sorta di “presentismo”. In questo panorama, non solo il lavoro, ma pure le relazioni affettive tendono a rimodellarsi sulla base dell’instabilità diffusa come legami precari.

L’amore che si stabilizza nel tempo come una promessa di fedeltà all’insegna di una progettualità condivisa tende a dissolversi in favore di individui isolati che sostituiscono al legame il godimento narcisistico, che contraddistingue prestazioni erotiche occasionali. Il valore della costruzione della relazione retrocede sullo sfondo di una – solo apparente e illusoria – libertà. L’ingiustificato moralismo del passato viene sostituito con un libertinismo che anela a realizzare il proprio godimento liberando il campo da qualsiasi valore possa ostacolare la propria spinta a consumare – secondo il paradigma dominante dell’usa e getta – tanto gli oggetti quanto gli individui.

Il tempo delle relazioni “aperte”, della libertà oltre ogni legame stabile, dell’esperienza senza responsabilità, vede l’aspirazione al “per sempre” come una catena, spazzando via ogni residuo di quel valore chiamato fedeltà. L’amore che si solidifica e germoglia nel tempo, viene sostituito dalla pulsione narcisistica, che si serve dell’altro per realizzare il proprio fine, il dispiegarsi di una inappagabile volontà di godimento.

L’orizzonte ipermoderno, incapace di percepire la fedeltà come valore, dimentica che proprio essa è il cemento della relazione: la possibilità di sperimentare l’eterno nel tempo. L’amore liquido – come ebbe a definirlo puntualmente Zigmunt Bauman1 – emerge dal brivido tanto immediato quanto caotico e fugace delle emozioni. Diversamente, i legami stabili affondano le proprie radici nei sentimenti che permangono, crescono nel tempo e ad esso sopravvivono. Ma per questo servono educazione affettiva, impegno e volontà di crescere personalmente con l’altro da sé.

In un simile orizzonte relazionale viene da chiedersi: come può strutturarsi una società nella quale la libertà non viene intesa nel suo inscindibile legame con la responsabilità? Come può evolvere eticamente una comunità che considera l’altro da sé come oggetto fintanto che è utile, dunque come mezzo e non come nobile fine? Spingendo ancor più a fondo la riflessione non potremmo forse affermare che, non solo chi vive seguendo questo modello dominante usa gli altri come mezzi, ma riduce pure se stesso a mezzo e dunque a oggetto per soddisfare il proprio desiderio di godimento? La libertà alla quale le relazioni liquide rinviano, non segnala forse il vano tentativo di riempire un abissale vuoto esistenziale?

A questo proposito risultano illuminanti le riflessioni dello psicoanalista Massimo Recalcati il quale scrive: «Il problema è che il nostro tempo non è più in grado di concepire la fedeltà come poesia ed ebrezza, come forza che solleva, come incentivazione, potenziamento e non diminuzione del desiderio»2. Le relazioni liquide stralciano la fedeltà allo stesso, in favore del nuovo, del diverso. «Il nostro tempo – prosegue con chiarezza Recalcati – non sa né pensare, né vivere l’erotica del legame perché contrappone perversamente l’erotica al legame»3. Tale ricerca richiama da vicino il perpetuarsi di una navigazione che, non avendo mete oltre al proprio godimento, continua inquieta senza trovare alcun porto stabile. Non è proprio questo quanto emerge dalla raffinata indagine esistenziale condotta da Kierkegaard sulla figura del Don Giovanni?4. La fedeltà va certamente rigettata qualora venga interpretata come castrazione del desiderio che anima la vita. Nondimeno ci chiediamo: è realmente emancipato colui che inneggia alla libertà di godimento agendo però sotto la spinta della pulsione stessa?

Diversamente, l’amore fedele può essere l’attuazione della libertà. Permette, nel tempo, di costruire un legame che contempla l’amato nella sua ontologia dimensionale costituita di corpo, mente e spirito. Laddove il dispiegarsi della volontà di godimento accede solo al pian terreno dell’edificio umano, il legame stabile può condurre fino all’incontro con il Tu spirituale dell’amato. Dimensioni interiori che un rapporto privo di intimità psicologica, maturità affettiva, stabilità e progettualità molto difficilmente potrà raggiungere.

Opporre il nuovo allo stesso impedisce di riconoscere il darsi, sempre nuovo e sempre diverso dello stesso nella sua unicità e irripetibilità. Mentre proprio in questo è celata la dimensione erotica della fedeltà. Il miracolo del quale è capace l’amore, non è forse quello di “rinnovare tutte le cose”? La potenza dell’amore – che non è certamente riducibile ai fuochi fatui delle emozioni – non è forse quella di intravedere sempre il carattere di novità nell’incontro con l’altro nella sua irripetibile unicità ed essenza?

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr. Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Bari, 2006.
2. M. Recalcati, L’arte erotica (e inaspettata) della fedeltà, in La Repubblica del 3 aprile 2016, p.50.
3. Ibidem.
4. Cfr. S. Kierkegaard, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, Mondadori, Milano, 1975.

[Photo credit unsplash.com]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

L’estetica del male in Arancia Meccanica

Tratto dal libro di Anthony Burgess, Arancia meccanica diviene famoso al grande pubblico grazie alla magistrale regia di Stanley Kubrick. Un’opera non sempre compresa fino in fondo e da molti considerata emblema della violenza gratuita. Ma a tutto questo c’è un motivo: l’autore del libro prima e successivamente Kubrick, non vogliono mettere in scena la mera violenza senza uno scopo più alto, ma scelgono di trattare una delle tematiche primarie della filosofia, ossia la questione del libero arbitrio.

Come ben sappiamo le leggi sottese allo Stato e la cultura, sono fondamentali per la stabilità della vita umana e sappiamo anche che l’idea di un’assoluta libertà, priva di ogni condizionamento esterno, sia da considerarsi un mero paradigma. Se si pensa, infatti, ai cosiddetti drughi, personaggi principali di Arancia meccanica e componenti della banda violenta che si pone al di là della legge compiendo atti inauditi, si comprende come l’essere umano, anche laddove contravvenga alle regole, se ne crei in qualche modo delle proprie, attraverso un processo di autoregolazione personale, che nel caso della banda coincide con il male. 

Ma il personaggio che più colpisce è quello del capo dei drughi, Alex, il cui nome già la dice lunga sulla sua personalità, che sia casuale o meno, se si prova a dividere l’iniziale dal resto del nome, verrà fuori A-lex e considerando la lettera “A” come un’alfa privativa, viene fuori questo: A = senza LEX=legge. Alex è, di fatto, il protagonista dell’opera e il suo comportamento rispecchia pienamente la concezione platonica della libertà basata sulla conoscenza del bene e del male e sulla scelta dell’uno piuttosto che dell’altro:

 «non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il demone. […] La responsabilità è di chi sceglie […]»1.

Così come Platone ci porta nella sfera della libertà di scelta tra il bene e il male, anche il personaggio di Alex risulta molto ben caratterizzato da questo punto di vista: egli non è, infatti, un semplice teppista come gli altri, egli è la mente cosciente della banda; tutti gli altri compiono il male spinti dal carisma di Alex ed in quanto figli di una società malata, lui invece compie il male scientemente, poiché le sue azioni si basano proprio sulla conoscenza della dicotomia bene/male e sulla scelta di compiere quest’ultimo. 

Alex è infatti l’incarnazione della dicotomia stessa, in quanto è un ragazzo molto colto, appassionato di opera, di Beethoven, sa benissimo cosa sia la bellezza, tuttavia sceglie deliberatamente di perseguire atti di estrema violenza, cosciente delle implicazioni negative della stessa, senza però interessarsene. La differenza fondamentale con gli altri componenti della banda è che questi compiono il male a fini materialistici e per porsi in antitesi con la legge; Alex invece sceglie la via della violenza per puro piacere personale, la sua si può considerare una sorta di “estetica del male”, in cui egli sfoga la sua personalità duale privandola da ogni inibizione.

Questo personaggio, nonostante sia consapevole di essere inserito in una società, si comporta come un essere umano in uno stato ancora primordiale, il cosiddetto “stato di natura”, ossia quella condizione nella quale l’uomo non è ancora inserito in una società e dunque dà sfogo alle sue pulsioni primarie compiendo anche il male. Ma come si comporta lo Stato nei confronti di tali atti di violenza? L’intento dell’autore e del regista di Arancia meccanica è quello di denunciare uno Stato che privilegia la via del lavaggio del cervello, rappresentato emblematicamente dal cosiddetto trattamento sperimentale Ludovico, che più che una cura rappresenta una vera e propria tortura atta a distruggere la violenza di Alex, per far sì che egli si trasformi in una sorta di automa congeniale alla società in cui è inserito. 

Ed è proprio il finale del film a rappresentare pienamente la naturale inclinazione dell’istinto umano: mentre Burgess nel libro preferisce un finale in cui Alex alienando pienamente se stesso allo Stato, si ricolloca pacificamente nella società, redento dalla violenza compiuta in passato, Kubrick fa decisamente di meglio! La scena con cui si chiude il film fa capire che la redenzione di Alex è solo apparente, poiché rimane latente nel suo inconscio la sua tendenza alla sregolatezza, a dimostrazione del fatto che le pulsioni umane non possono essere soppresse, poiché restano latenti nell’uomo che, come il protagonista del film, continua a proiettare nella sua mente tutte le sue perversioni, dunque Alex rimane di fatto se stesso, incarnando un moderno Dioniso nietzschiano. 

 

Federica Parisi

 

NOTE:
1. Platone, La Repubblica, libro X, 617e                                                                                                                              

[immagine tratta da un fermo immagine del film di Kubrick]

lot-sopra_banner-abbonamento2021                                                                                                                                          

 

La continua conquista della libertà nella non-autobiografia di Björn Larsson

«Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Dante, Divina commedia, Purgatorio, Canto I): Virgilio presenta Dante a Catone, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, come un cercatore di libertà. Nel caso del Poeta essa è declinata come libertà dal male, intrinseco nella condizione umana; nel caso dell’Uticense, invece, come libertà politica, perseguita con il gesto estremo e al tempo stesso eroico del suicidio, che Dante infatti eccezionalmente non condanna – si pensi al contrario a Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inferno XIII).

La libertà è un a-priori mai scontato, uno dei diritti fondamentali e inalienabili dell’essere umano, una bandiera nazionale e un ideale individuale e collettivo da tutelare, per la quale – e a volte, ahinoi, in nome della quale – combattere. Refrattaria a ogni definizione, la libertà è una necessità che ognuno a modo suo ricerca ma è anche una componente insita nella definizione stessa di “essere umano”, tralasciando le pagine di Storia sulla schiavitù e quelle delle diverse Religioni sulla creazione dell’uomo: siamo liberi in quanto siamo ma è nell’affermare noi stessi che affermiamo anche la nostra libertà. Ed è questo il leitmotiv di Bisogno di libertà (Iperborea, 2007), la non-autobiografia di Björn Larsson. Nel ripercorrere la propria vita, senza alcuna mera autocelebrazione da scrittore (liberatosi programmaticamente quindi da quel cliché autobiografico povero di valore letterario, come spiega anche nella postfazione Paolo Lodigiani) l’autore analizza alcuni episodi per lui cruciali attraverso i quali ha potuto e voluto ricercare quel bisogno che dà il titolo al libro.

«Non si nasce liberi, lo si diventa» (B. Larsson, Bisogno di libertà, 2007)

Questo è il punto di partenza delle considerazioni dello scrittore svedese, docente di Letteratura francese all’Università di Lund, che ha composto la sua opera in francese, sebbene, come spiega nell’Avvertenza, si fosse riproposto di non scrivere mai un testo in una lingua che non fosse quella materna ma «dove prendersi delle libertà rispetto alle proprie decisioni, se non in un libro sulla libertà?» (ivi).

La libertà è una conquista e va rinnovata ogni giorno per tutta la vita, richiede di essere costantemente presenti a se stessi ‒ «chi è smarrito […] non è libero […]. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione» ‒ e richiede la costruzione di un “io” stra-ordinario, un io cioè “fuori dall’ordinario”, un “io” che viva da protagonista la propria quotidianità secondo quella grandezza, ad esempio, del giovane Jay Gatsby ‒ «formare me stesso, piuttosto che lasciarmi formare, scegliere la mia vita, piuttosto che lasciarmi scegliere» (ivi). Un “io” che dica “no” all’individualismo conformista che è diventato di questi tempi un movimento di massa ‒ «Mi è impossibile capire la gioia che prova certa gente a confondersi con la massa» (ivi) ‒ quel “no” citato dallo stesso Larsson di una scena del film Brian di Nazareth dei Monthy Pyton – un “io” che sia la consapevole realizzazione di un proprio progetto:

«Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale» (ivi).

Nella prima parte del libro, Larsson analizza il suo «sogno di una vita in libertà» riflettendo sul rapporto «conflittuale ma inevitabile» tra libertà e amore e tra libertà e amicizia: tre assoluti totalizzanti che danno alla vita senso, pienezza e dignità ma che per essere vissuti richiedono un compromesso tra di loro e un confronto con la realtà; quindi un compromesso con se stessi, e fino a che punto si è disposti ad accettarlo? «Perché ho accettato la riunione, l’appuntamento o il caffè con quella persona con cui non ho quasi niente in comune? Perché andare a quella cena, se non ne ho più voglia? Alla lunga questi compromessi usurano» (ivi), afferma l’autore, per il quale contrarre legami a vita è un pericolo ma ritiene anche che «la convinzione di dover passare il resto dei suoi giorni senza vero amore gli toglieva l’appetito di vivere» (ivi). 

Se nella seconda parte del libro Larsson disserta in modo più filosofico sulla definizione di libertà, delineando una sorta di teoria superomistica – non nietzschiana ben inteso – di individuo dotato di un alto e consapevole livello di effettiva libertà, e se nella terza parte conclude con un decalogo di precetti per soddisfare il proprio bisogno di libertà, tuttavia Larsson non fa la morale a nessuno, consapevole che, come diceva Boris Vian, «ciò che conta non è la felicità di tutti, è la felicità di ognuno. Idem per la libertà».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Eneko Urunuela via Unsplash]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

L’umano nell’uomo. L’utilità della filosofia per la nostra missione di vita

Che cosa significa l’affermazione “restiamo umani”? Ve lo siete mai chiesto? E quanto spesso lo avete sentite dire con leggerezza?
Solamente due parole, che nascondono in realtà un significato e una riflessione molto profonda. Ce lo fa notare il teologo e filosofo Vito Mancuso nella sua ultima fatica letteraria I quattro maestri (Garzanti 2020), il corposo volume dove la riflessione si incentra su quattro grandi personalità decisive per il pensiero umano in tutto il suo sviluppo storico: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

Nella parte iniziale del libro, Mancuso ci pone davanti ad un dilemma non certo semplice, quello di capire che cos’è l’umano nell’uomo. Sembra un gioco di parole, ma si tratta di comprendere che cosa ci distingue dalle altre creature, quale è la peculiarità dell’essere umano.
Il filosofo si chiede se sia l’intelletto, la ragione, il corpo oppure il sentimento, la passione, l’amore:

«Si potrebbe sostenere che lo specifico umano è dato piuttosto dal sentimento, in particolare dall’amore, inteso sia come attrazione verso altre persone, sia come benevolenza e dedizione per l’umanità nel suo complesso, sia come consacrazione al lavoro e al proprio dovere di cittadino, per cui, sommando tutte queste declinazioni dell’amore, si potrebbe dire che lo specifico umano è la passione»
(Vito Mancuso, I Quattro maestri).

Il teologo però non si ferma a questa possibilità e individua una soluzione diversa:

«Io ritengo che il nostro specifico, l’umano nell’uomo, sia uno spazio vuoto. Intendo dire che tra noi e il nostro corpo, noi e l’intelletto analitico, noi e la nostra ragione sintetica, tra noi e la nostra passione, c’è uno spazio vuoto. Tale spazio vuoto fa sì che noi siamo e insieme non siamo il nostro corpo, il nostro intelletto, la nostra ragione, la nostra passione» (ivi).

Ma che cos’è lo spazio vuoto di cui parla Mancuso e soprattutto che cosa determina nell’uomo? «Il nome più appropriato di questo spazio vuoto è libertà» (ivi).
Spiega Mancuso che se si dimentica la libertà non si coglie lo specifico del fenomeno umano, ciò che ci rende così ambigui, vicino alla divinità e al contempo alle bestie. Ma che tipo di libertà intende il filosofo? L’umano nell’uomo non è solo la libertà, ma è la libertà indirizzata al bene e alla giustizia, la libertà in quanto rettitudine e bontà. E in effetti qual è il senso della nostra esistenza se non quello di riconoscere il nostro spazio vuoto, la nostra libertà, e muoverci al suo interno per diventare buoni, giusti e liberi, ovvero umani?
Questo spazio vuoto, questa libertà che ci portiamo dentro è il nostro problema più grande: può risolversi, spiega il teologo, in un buco nero che ci risucchia, o in una sorgente perenne di energia. Dipende tutto dalla cura e dalla direzione che sapremo imprimere al nostro “spazio vuoto”, alla nostra libertà. Il lavoro principale della nostra esistenza è proprio dare una forma al vuoto, all’umano che è in noi.

I maestri come Socrate, Buddha, Confucio, Gesù, citati da Mancuso, ci aiutano in questo, ma secoli e secoli di filosofia sono a nostra disposizione se vogliamo trovare un condottiero che ci guidi alla scoperta del nostro umano. La filosofia è stata per me una vera e propria compagna di vita, una guida sincera a cui potersi affidare nei momenti più difficili, da cui farsi aiutare nelle scelte di tutti i giorni. Eppure l’obiettivo ultimo va ben oltre l’essere guidati: la nostra missione è acquisire conoscenze e motivazioni e diventare noi stessi autori consapevoli e responsabili della nostra esistenza.
Scrive Buddha:

«Siate un’isola per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro!»
(La rivelazione del Buddha)

A ribadire il concetto più significativo: ognuno di noi è filosofo. Ma soprattutto ognuno di noi è maestro di se stesso. Il maestro più importante, quello interiore. Apprendi dalle fonti tutto ciò che puoi: la riflessione finale per giungere a un modo funzionale di affrontare il mondo è però solo tua.

 

Martina Notari

 

[photo credit Artem Kniaz via Unsplash]

abbonamento2021

L’amore, un vincolo tra due libertà

Quando si pensa all’idea di libertà si è soliti associarla ad una forma di assolutismo (dal latino absolutus), ovvero ad una situazione totalmente sciolta da qualsiasi vincolo o legame.
Spesso si fa riferimento alla libertà di poter fare qualsiasi cosa – desiderio spesso presente in una fase adolescenziale della vita – di poter prendere decisioni nuove, di non avere limiti. Questa è la libertà intesa in senso positivo, e si concentra sull’affermazione di qualcosa, sia sul piano personale che su quello morale e sociale. Poi c’è un altro tipo di libertà, la libertà da, quella che somiglia ad una “liberazione”, e cioè la libertà “negativa” intesa come assenza di qualsiasi ostacolo all’affermazione del proprio io.

A volte la nostra vita si ferma qui, tentando di trovare un importante equilibrio tra queste due tipologie di libertà, attorno a cui cerchiamo di far ruotare la nostra vita. Non sempre questo risulta sufficiente, specie quando si entra all’interno della sfera relazionale e, più precisamente, nel tema dell’amore.
L’amore è espressione di complessità e semplicità allo stesso tempo e, come si direbbe in una delle opere più famose della filosofia antica, che si riconduce al mito di Eros, «la sua natura non è né immortale né mortale ma, allo stesso tempo, fiorisce e vive» (Platone, Simposio, 203c, 2013).

Amore è mancanza e coraggio, è fragilità e passione, è spontaneità e ingegno. Esso risulta essere un’armonia di opposti, un ossimoro esistenziale che determina la vita di ogni individuo.

Riflettendo un po’ sull’essenza di tali concetti ed applicandoli alla nostra vita quotidiana, potremmo dire che in ogni relazione tra due amanti c’è una forma di questo amore che necessita di equilibrio e che genera diversi sentimenti.
A volte, l’amore prende la forma dalla mancanza, che non sempre coincide però con l’assenza. C’è, infatti, una mancanza che genera fervida attesa, che rafforza i legami e che lascia il passo alla certezza che l’amore – o l’amato, più nello specifico, ovvero colui che è portatore di amore – stia per arrivare, ritornerà. In questo tipo di mancanza, l’assenza non è mai davvero assenza, poiché essa è piena di quell’amore che non muore, che non scompare, ma che semmai cambia aspetto, forma, in base alle diverse stagioni della vita. La vera assenza che determina il vuoto, invece, è quella in cui si soffre per ciò che non si può vivere e che pure si vorrebbe; è il rifiuto, la negazione ma anche l’accettazione piena di un amore che non c’è. E la differenza tra la mancanza e l’assenza è spesso data dalle persone in relazione. In una relazione non si può amare da soli, bisogna che ci si ami reciprocamente, altrimenti non è più amore, ma altro.

Allo stesso tempo, per amare bisogna che le fragilità si incontrino, senza paura, e che insieme si prendano per mano senza lasciarsi travolgere ma bensì sorreggendosi vicendevolmente attraverso la passione, che se inizialmente coincide con un imponente trasporto emotivo, gradualmente diventa un sapersi stare accanto in quei momenti di sofferenza che le proprie fragilità, inevitabilmente, comportano.
Amare è crescere insieme, nel tempo e, come dice Socrate nel Simposio, saper passare dall’amore per ciò che sembriamo – soprattutto dal punto di vista estetico – all’amore per ciò che siamo davvero dentro, con i nostri difetti, con le nostre paure e con tutto ciò che non piace forse neanche a noi stessi.
Per fare tutto questo, non basta concepire la libertà solo in termini di positività o negatività. È necessaria anche la libertà per, quella che sa andare oltre le affermazioni e gli ostacoli – che non sempre possono essere eliminati in modo semplice – e sa scegliere nonostante tutto. L’amore è la risposta alla domanda: “Per chi sono io?”.

Oltre ogni concezione romantica, per amare bisogna davvero aspirare ad Eros, che unisce povertà e coraggio e che sa dosare, di volta in volta, ciò di cui è portatore. Non a caso, l’amore è da sempre la denominazione di tutto ciò che supera la concezione di ciò che vediamo, che sentiamo ma che si avvicina al divino. E, proprio come fa Dio, per amare davvero bisogna imparare a non arrendersi alla morte ma senza mai violare la libertà dell’altro. E, forse, potrebbe essere proprio la libertà l’espressione più autentica dell’equilibrio dell’amore. Che si tratti di amore divino o terreno, solo chi ama davvero conosce il vero valore della libertà, spada di Damocle di ogni autentica relazione.
Attraversando silenzi, deserti, ma anche percorrendo sentieri sorprendenti, oggi come allora, l’amore resta sempre un’avventura che vale la pena vivere. Insieme.

 

Agnese Giannino

 

[Photo credit Azrul Aziz via Unsplash]

abbonamento2021

Siamo tutti un po’ Raskol’nikov

In un mondo sempre più indifferente e nel quale l’Io assume una posizione sempre più centrale, gli esseri umani risultano più inclini all’esaltazione illusoria della libertà che li porta a credere di essere onnipotenti e a giustificare azioni e pensieri spesso ingiustificabili.
Emblema di un simile delirio di onnipotenza è Raskol’nikov, protagonista di una delle più celebri opere di Dostoevskij: Delitto e Castigo (1889), ambientato in una tetra Pietroburgo, nella quale il protagonista uccide una vecchia e avida usuraia. Potremmo inizialmente credere che egli compia un simile assassinio per appropriarsi del capitale della vecchia, ma così non è: Raskol’nikov, infatti, decide di ucciderla per estirpare una cattiva erbaccia dal mondo, tenendo con sé solo una piccola parte dei soldi per non gravare più sulle spalle della madre, distribuendo poi il resto del denaro ai più bisognosi.

Dostoevskij ha la capacità magistrale di farci addentrare negli abissi più reconditi del sottosuolo umano; nelle sue opere, infatti, i personaggi principali sono degli esseri umani divisi, alla perenne ricerca della strada “giusta” da percorrere nell’eterna lotta interiore tra il bene e il male. Non a caso l’autore sceglie Raskol’nikov come nome del protagonista, infatti raskol’ in russo vuol dire “scissione”.

Raskol’nikov architetta l’omicidio ponendosi in una dimensione superomistica alla maniera nietzschiana, decidendo che sia legittimo uccidere la vecchia in quanto ritiene che essa sia inutile per il progresso dell’umanità, essendo lei un’incarnazione del male in terra.
Ciò che salta subito all’occhio è la descrizione di un uomo dominato dagli ideali, dalle passioni incontrollate, da un libero arbitrio spinto all’ennesima potenza, non certo dominato dalla ragione e dalla morale canonicamente intesa; ma siamo sicuri di poterci permettere di giudicare negativamente l’operato di questo personaggio?

La risposta sarebbe istintivamente un sì, in fondo Dostoevskij mette al centro della scena un assassino a pieno titolo, un uomo che si fa portavoce di una propria morale, che trasgredisce deliberatamente la legge per appagare un suo più alto desiderio, quello di diventare übermensch e di porsi in uno stato “al di là del bene e del male”, cercando di estirpare il male dal mondo, cadendo però nella trappola del male stesso e credendo di ottenere, con la sua azione fuori dagli schemi dell’ordinario, una superiorità che lo porterà a sentirsi libero nella maniera più assoluta. Ma dopo aver commesso il delitto, Raskol’nikov avverte immediatamente di non aver ottenuto la tanto agognata superiorità, di fatto ha solo ucciso senza ricevere nulla in cambio, se non il peso insostenibile del senso di colpa che lo attanaglierà fino a diventare una vera e propria ossessione, che lo porterà infine ad autodenunciarsi e a riconoscere l’inumanità del gesto commesso, seppur senza mettere in dubbio gli ideali che l’hanno mosso.

A questo punto l’interrogativo che sorge spontaneo suona machiavellico: il fine, relativamente al delitto commesso, giustifica i mezzi?
La risposta è un categorico no e in fondo è Dostoevskij stesso a condurci verso tale pensiero. Delitto e castigo, infatti, sancisce proprio la convivenza forzata e insopportabile tra la violazione delle leggi del diritto e della morale e l’inevitabile imbattersi dell’essere umano in se stesso.
Se consideriamo il protagonista come un mero deviato mentale e crediamo di non avere nulla in comune con lui, ci sbagliamo di grosso: Raskol’nikov tenta, seppure invano, di appagare la sua coscienza prima di appagare la volontà del mondo che lo circonda; non è forse ciò a cui tendiamo tutti noi in qualità di esseri umani? Tutti noi rivendichiamo il nostro libero arbitrio, senza pensare che proprio tale caratteristica che permette di discernere il bene dal male, possa condurre non sempre nella direzione giusta. Allo stesso modo, quando commettiamo un’azione negativa, anche se spinti da ideali a nostro avviso corretti, non avvertiamo come Raskol’nikov, la sensazione di non aver ottenuto nient’altro che l’aver commesso il male?

Questo personaggio appare, dunque, non solo estremamente universalizzabile, ma anche e soprattutto attuale: basti pensare al fatto che egli uccida una persona che considera riprovevole; ma quante volte noi “abbiamo ucciso”, metaforicamente parlando, alcune categorie di persone che abbiamo ritenuto non alla nostra altezza, emarginandole, parlandone negativamente, ignorandole? Quello che è certo è che tutti noi abbiamo commesso un “delitto” almeno una volta nella vita e tutti, o quasi, abbiamo fatto i conti con il più inflessibile giudice inquisitore che esista: la nostra coscienza. Ed è per questo che, in fondo, siamo tutti un po’ Raskol’nikov.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit John Silliman via Unsplash]

abbonamento2021

Democrazia e la grande bugia: da Arendt ad oggi

Curioso come i maggiori pensatori di quella che è considerata, non esattamente a proposito, la prima democrazia del mondo occidentale fossero essenzialmente anti-democratici. Per quanto il modello dell’Atene del V e IV secolo a.C. abbia ispirato tanti politologi dei secoli successivi, infatti, ben pochi filosofi vedevano in una sua versione “estesa”, quindi in una effettiva democrazia, una forma ideale di governo. Senza scomodare l’aristocratico Platone, anche Aristotele diffidava della democrazia, che a suo avviso aveva nel proprio punto di forza, la partecipazione del popolo intero, la sua più grande debolezza: troppo facile, pensava, ingannare le masse e manipolarle con parole suadenti e menzogne, spianando così la strada a qualsiasi dittatore dalla parlantina sufficientemente sciolta e con un minimo di carisma.

Facendo un salto in avanti di più di due millenni, il monito aristotelico risuona nell’analisi di Hannah Arendt sull’origine dei totalitarismi del Novecento: alla base di ogni assolutismo, contemporaneo e non, c’è per la filosofa tedesca una «grande bugia», una menzogna ripetuta all’infinito che diventa mito fondante per il gruppo dapprima esiguo, poi sempre più ampio di seguaci del leader di turno. Per Hitler fu l’esistenza di una lobby ebraica che controllava l’economia mondiale, e che aveva decretato la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e la sua successiva crisi economica; per Stalin fu invece la presenza endemica di agenti capitalisti che arrivavano a lasciarsi morire di fame per fingere l’esistenza di una carestia e minare così la prosperità del comunismo sovietico.

Il punto di forza della grande bugia, per Arendt, è la sua pervasività: eliminando la libera stampa e monopolizzando i restanti strumenti di informazione, specialmente la radio per il regime nazista e la televisione per quello sovietico, il mito prende il posto dei fatti, la realtà viene riscritta secondo l’ideologia dominante, e al popolo non resta altra lente che non sia quella deformata dall’alto. La mancanza di confronto con qualcuno esposto a diversa narrazione e l’isolamento dal resto del mondo sono terreno fertile per la grande bugia, che diventa realtà ufficiale, e quello che prima era un capopopolo seguito da una sparuta minoranza diventa l’atteso condottiero capace di liberare le masse da una minaccia da lui stesso inventata e paventata.

Si potrebbe essere indotti a pensare che, in una società pluralista come la nostra, in cui molte e diverse voci si accavallano e si inseguono offrendo fin troppe versioni degli stessi avvenimenti, un rischio del genere sia quantomai lontano, eppure gli ultimi avvenimenti di Washington smentiscono una versione così ottimistica. Vedere migliaia di persone prendere d’assalto il Campidoglio, riunirsi in tutta la città invocando un golpe nel cuore di quella che è ancora la più grande democrazia occidentale, e in seguito organizzarsi online per un successivo raid in concomitanza con l’insediamento del nuovo Presidente eletto, sarebbe già di per sé sconcertante, ma lo diviene ancora di più studiando le motivazioni dei manifestanti. I complottisti di QAnon che vedono in Trump un eroe che combatte in segreto contro gruppi di satanisti pedofili e comunisti sono uniti dalla loro “grande bugia”, cui si è unito adesso l’imperituro mito della “vittoria mutilata”, altra contro-narrazione smentita dai fatti che diventa tradizionalmente humus per personaggi autoritari.

La grande bugia sarebbe dovuto essere sconfitta dalla comunicazione, dal confronto, dalla interconnessione, e la virtuale assenza di isolamento avrebbe potuto essere un ottimo vaccino, ma è accaduto invece l’opposto. Gli algoritmi dei social network che determinano i nostri interessi e le nostre opinioni, chiudendoci in tante echo chamber (= camere dell’eco) in cui il nostro pensiero risuona all’infinito rafforzato da quello di altri che portano avanti le nostre stesse idee, finiscono col privarci di uno scambio, di un confronto, di una comunicazione reale. Un gruppo su Facebook o un trend su Twitter non risultano troppo diversi dagli sparuti gruppetti astiosi e violenti che si trovavano nelle birrerie di Monaco negli anni Venti, intenti a discutere di cose che solo loro sapevano, lontani dal “popolo bue” che non vedeva oltre la versione ufficiale dei giornali.

Per quanto possiamo considerarci connessi, ci ritroviamo ancora una volta soli, in esclusiva compagnia dei nostri miti e di sodali che sono in realtà un nostro specchio, alla mercé di chiunque sia in grado di mentire abbastanza bene da convincerci che la sua grande bugia sia in realtà la “grande verità” che i “poteri segreti” ci nascondono.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit pixabay]

copertina-abbonamento-2020-ultima