Per un 25 aprile consapevole

Nell’agosto del 1944 Irma Bandiera venne torturata e accecata poiché non voleva rivelare dove si trovavano i suoi compagni. Venne poi uccisa e gettata in strada, perché si sapesse qual era la fine destinata ai partigiani.

Il 25 Aprile è senz’altro il simbolo dell’antifascismo, della resistenza contro la dittatura. Resistenza, ovvero il rifiuto della dittatura e di tutto ciò che essa impone: negazione della libertà, della dignità, umiliazione, eliminazione fisica di coloro che escono dai rigidi confini dell’ideologia su cui si fonda.
A ben pensarci, la lotta per la libertà non può non configurarsi come una resistenza: la libertà per sua natura non può essere imposta, ed è questo il tratto che la distingue da un regime. La libertà si ottiene e si mantiene impedendo che venga soppressa con la forza. La libertà, cioè, si guadagna resistendo. In questo senso, l’orrendo episodio di cui sopra è uno dei più alti esempi di difesa della libertà.
Ma il 25 Aprile va al di là di questo: è una ricorrenza che ci ricorda più in generale che ci sono cose che valgono più della vita. Per Irma Bandiera ve n’era almeno un’altra: l’amicizia, che è la responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone a cui vogliamo bene.

Credo che oggi sia un’occasione per fermarci un momento e riflettere proprio su questo: la responsabilità. Vi è una tendenza sempre più diffusa a pensare, più o meno consapevolmente, che libertà significhi fare quello che si vuole, e qualunque cosa risulti in qualche modo d’intralcio a questa indeterminata ed ideale espressione di sé viene vista come una limitazione della stessa, e di conseguenza percepita da noi con insofferenza.
Stare al mondo significa inevitabilmente relazionarsi a situazioni, avvenimenti, persone, poiché dal momento in cui facciamo il nostro ingresso in questa scena siamo immersi in un intrico di relazioni, e non possiamo sfuggirne, neanche isolandoci in una fredda grotta di montagna. L’idea della libertà come assenza assoluta di vincoli è una vuota astrazione che non tiene conto che ognuno di noi vive in un mondo, e che le nostre azioni hanno delle conseguenze sul contesto nel quale ci troviamo.
In questo senso, la democrazia può, se vogliamo, essere vista come un’immagine della nostra condizione nel mondo. Democrazia significa che ognuno è responsabile dei propri pensieri e delle proprie azioni, perché è tenuto ad esprimersi e a prendere una posizione all’interno della società, a prendersi cura del contesto in cui vive e delle persone con cui vive. È fondamentale cercare di sentire questa responsabilità, che non è un’invenzione, bensì la condizione reale del nostro stare al mondo.

Irma Bandiera la sentiva: sapeva che anche in quell’orribile situazione nella quale si trovava, in mezzo a quei soprusi disumani e agghiaccianti – soprattutto in mezzo a quei soprusi – era importante mantenere ciò che rende una vita degna di essere vissuta: la responsabilità nei confronti di ciò che è giusto. E la vera libertà non può essere dissociata dal sentimento e dalla consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, un ruolo che ognuno di noi ha dal momento in cui è al mondo, perché basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto.

Noi siamo più fortunati: non ci troviamo davanti alla scelta di morire per quello in cui crediamo o piegarci alla violenza e all’ingiustizia. Sicuramente però è importante per noi prenderci un momento per riflettere su questi temi, e soprattutto sul fatto che, se abbiamo questa fortuna, è perché molti giovani ragazzi non l’hanno avuta, e hanno deciso di dare la propria vita per qualcosa di più prezioso di essa: la libertà, e questo in virtù della responsabilità che sentivano nei confronti dei loro cari, dei posteri e del mondo.
Questo giorno, la democrazia, l’antifascismo, la libertà, la responsabilità, tutto ciò è legato assieme da un elemento, ossia la consapevolezza del nostro ruolo in quanto uomini: ecco cosa possiamo trarre da questa ricorrenza. Prendiamoci un momento per pensare a tutto ciò. Come scrive Michele Serra, basta un minuto per sentire che oggi è il 25 Aprile1.

 

Pietro Bogo

 

NOTE:
1- Michele Serra, L’amaca del 25 aprile 2017

[Photo credit unsplash.com]

A lezione di libertà con il film “Mona Lisa Smile”

Nella pellicola cinematografica Mona Lisa Smile del 2003 si racconta la storia di una docente di Storia dell’Arte che, giungendo dalla California nel Massachusetts, inizia a insegnare presso l’istituto femminile Wellesley College. Qui, fin dalla prima lezione, l’insegnante Katherine Ann Watson (Julia Roberts) si accorge dell’ottima preparazione nozionistica delle sue allieve. Colta un po’ alla sprovvista dalla dinamica della lezione, che si conclude con la decisione delle allieve di proseguire nello studio per proprio conto, escogita una diversa strategia formativa alla seconda lezione. Questo perché l’obiettivo educativo fondamentale della docente sembra essere quello di voler insegnare alle ragazze a ragionare con la propria testa.
Ma questo ambizioso proposito che cosa davvero significa? In fondo, è veramente possibile insegnare a ragionare liberamente? E se sì come? 

Iniziamo con il cercare di rispondere alla prima domanda e al riguardo, notiamo subito che molte conversazioni del film ruotano intorno al tema dell’Arte che possiamo considerare, in un duplice senso, occasione ed eccellenza dell’espressività umana. L’opera artistica, infatti, rappresenta non soltanto la testimonianza della singolarità dell’artista, ma offre anche a chi la osserva la possibilità di rintracciare, rispetto all’opera, il proprio personale sentire. Cosicché la disciplina dell’Arte può rappresentare una perfetta opportunità didattica per una lezione sulla libertà espressiva attraverso l’unicità di chi esegue e di chi osserva l’opera artistica. Non a caso, l’insegnante Katherine sollecita più volte le sue allieve a esprimere una propria opinione intorno a un dipinto e a soffermarsi a riflettere per poter esplicitare a parole il proprio pensiero, il proprio sentire. Ciò sembra quindi suggerirci che il ragionare con la propria testa significhi mostrare di saper riconoscere ed esprimere ad altri l’autenticità del proprio sentimento e della propria sensibilità.

Passiamo ora al secondo quesito che ci invita a riflettere sull’apparente paradosso della pretesa pedagogica di Katherine ben espresso dal docente di Italiano Bill Dunbar (Dominic West). Nella scena del film che sancisce la rottura della loro relazione, Bill, infatti, con aspra franchezza, le dice: Tu non sei venuta qui per aiutare le persone a trovare la propria strada, ma per aiutare le persone a trovare la tua strada!” 

Katherine non è sposata, è economicamente indipendente e nell’America degli anni Cinquanta, che vede nel matrimonio la piena realizzazione della donna, Katherine rappresenta l’opposto del modello femminile tradizionale. L’accusa di Bill allude quindi al rischio di Katherine di imporre alle ragazze il suo stile di vita, confondendo il suo obiettivo educativo alla libertà con l’aspettativa di essere da loro emulata.
In realtà, la vicenda dell’allieva Joan (Julia Stiles), che sceglie di sposarsi e rinunciare agli studi universitari, ci suggerisce che Katherine ha sì indirizzato Joan al modello femminile dell’auto-realizzazione professionale, aiutandola per esempio nella compilazione della domanda universitaria, ma che sembra anche essere riuscita, in qualche modo, a far emergere nella giovane studentessa la fermezza della sua personale decisione.

A questo punto, allora, possiamo considerare il terzo quesito che ci spinge a riflettere su come sia possibile insegnare a ragionare liberamente. In questo caso è la vicenda di una altra alunna a suggerirci una possibile risposta. Betty (Kirsten Dunst), che rappresenta l’aspirazione femminile al matrimonio, tradita dal marito, finirà per chiedere il divorzio, rifiutandosi di fingere una felicità d’apparenza così come le viene invece indicato dalla madre. L’atteggiamento di Betty, quindi, si capovolge nel corso del film: da sostenitrice imperterrita della tradizione culturale a donna che riesce a dare legittimità al suo sentire senza avvertire la necessità di una approvazione che non sia esattamente la sua. In questo cambiamento interiore Betty riconosce l’importanza della testimonianza della sua insegnante Katherine, dedicandole l’ultimo suo articolo al Wellesley College. Katherine, quindi, è riuscita a far maturare in Betty la consapevolezza di sé stessa; e lo ha fatto, non attraverso uno scontro diretto con lei, ma attraverso l’argomentazione in aula della sua profonda delusione per il fraintendimento del suo insegnamento, accusato di sovvertire il ruolo naturale delle donne. 

Tutto questo ci predispone a comprendere il valore pedagogico di una autentica testimonianza di libertà di pensiero e di vita. Testimonianza che ha il duplice scopo di rafforzare in noi ciò che vi è di simile e, parimenti, di sfidare ciò che, al contrario, ne è diverso. Insegnare a ragionare con la propria testa significa, allora, distendere la trama del possibile. Imparare a farlo vuol dire, per questo, avvertire vibrare i propri confini. La libertà è l’elasticità del nostro dettaglio che scopre la singolarità del suo slancio attraverso l’unicità delle piccole e grandi opere del mondo.

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film]

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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“Grazie ragazzi”: nell’attesa di Beckett uno slancio di vita

Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.

Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.

Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.

E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valoreCi suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.

Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.

Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.

 

Giorgia Favero

 

[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]

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Un mondo senza amore: la doppia tirannia in The Lobster

Guardare The Lobster, film del 2015 del regista greco Yorgos Lanthimos, è un’esperienza quasi surreale. Per tutti i 118 minuti della pellicola, lo spettatore e la spettatrice si trovano quasi costantemente nella scomoda situazione di non sapere se ridere o inorridire. È il risultato di un film davvero ben pensato, oltre che ben realizzato – ma qui non ci soffermeremo sulla fotografia sapientemente algida e sui (rari) movimenti di macchina –, esattamente quel genere di prodotto artistico capace di sollevare degli interrogativi nello stesso momento in cui intrattiene.

La realtà fantascientifica in cui si muovono i protagonisti di The Lobster, primo su tutti David (Colin Farrell), non potrebbe essere più realistica: un hotel dal sapore elegante e antico nella prima parte del film, una fitta foresta nella seconda. Due scenari evidentemente contrapposti, se non fosse che, oltre alla semplice apparenza, risultano entrambi sfondi di una stessa tirannia: quella in cui l’amore è bandito. Nella società in cui vive David infatti è vietato essere single: non appena si perde il compagno o la compagna, si viene “deportati” in dei centri specifici per trovare un sostituto e ricostituire la coppia; se non si riesce nell’intento entro 45 giorni, l’epilogo è la trasformazione in un animale. Scegliere quale tipo di animale è una delle poche concessioni al libero arbitrio previste in questi centri, dove la ricerca di un compagno non ha a che fare con l’amore ma con dei calcoli di affinità degni delle becere promozioni sui cellulari dei primi anni Duemila. Persino in una società in cui è vietato essere soli, dunque, la complessa alchimia dell’amore passa in secondo piano e ciò che conta è la performance della coppia, molto più della sua felicità. Una società repressa in cui non ci si può masturbare, né uscire dal binomio etero o omosessuale, e nemmeno portare il 44,5 come numero di scarpe – come nel caso di David – ma nemmeno avere tratti e caratteristiche dissonanti rispetto a quelle del proprio partner: bisogna essere compatibili in tutto e per tutto. Ed è proprio dinanzi a queste caratteristiche che in The Lobster sembra di veder scomparire l’individuo nella sua unicità, tanto è vero che, a parte David, non ci sono dati sapere i nomi degli altri personaggi, che diventano “donna miope”, “uomo con la zeppola”, “ragazza con l’epistassi” e così via.

Ma non esistono mezze misure nemmeno là dove si millanta la libertà, ovvero nella foresta dove vivono i solitari: un regno primordiale in cui nonostante le difficili condizioni di vita è proibita la solidarietà e – peggio ancora – l’amore. In fuga dall’hotel, David si ritrova in una seconda tirannia, non meno insensata, crudele e punitiva della prima. Due mondi agli antipodi: da un lato la demonizzazione della vita da single, dall’altra quella della vita in coppia. È l’estremizzazione di una situazione che vede l’individuo contemporaneo strattonato da una parte all’altra, tra la ricerca dell’amore a ogni costo – o meglio, la costruzione di una coppia “modello” a prova di social – e la tendenza a non accontentarsi mai, a rinunciare alla ricerca per difendere un ego che sembra sempre meno disposto a spartire le proprie necessità con un altro individuo, o magari a rifiutare la ricerca per la paura del rifiuto. In altre parole un individuo sempre più fragile dinanzi a una società contemporanea sempre più feroce, sempre pronta a inquadrare in degli schemi precostruiti degli esseri umani modello.

Per uno scherzo del destino, è proprio nella foresta dei solitari che David sembra trovare il vero amore, una donna miope interpretata da Rachel Weisz con la quale, dopo mille peripezie, riesce di nuovo a fuggire. E proprio quando The Lobster sembra arrivare a una morale, a un barlume di speranza sulla visione del regista a proposito delle relazioni amorose, ecco che le ultime immagini ci lasciano nuovamente storditi e dinanzi al finale aperto ci si aprono innumerevoli interrogativi. L’amore è davvero una questione di calcolo e compatibilità? È fabbricabile con una serie di falsità e ipocrisie “a fin di bene”? Esiste davvero il – cosiddetto – vero amore? Il film sembra convincerci per tutto il tempo del fatto che la vita di coppia è una pura costruzione sociale fatta di regole scritte e altre non scritte, ma solcate nel nostro DNA morale e sociale, e che quindi la felicità nella vita di coppia è pura utopia. Voi cosa ci vedete in quel finale?

 

Giorgia Favero

 

[immagine in copertina tratta dal film The Lobster]

la chiave di sophia 2022

Cartesio e il problema della libertà

Il concetto di libertà è uno di quei temi che non passano mai di moda. Comprensibile, visto che difficilmente possiamo trovare qualcosa che tocchi più da vicino la nostra sensibilità. Più o meno consapevolmente, la libertà viene chiamata in causa nei contesti più disparati: se n’è parlato molto in politica quando la questione del green pass era al centro dei dibattiti; se ne parla moltissimo a scuola, quando si affronta la nozione di diritto; se ne discute implicitamente innumerevoli volte prima dei diciott’anni, con i propri genitori, quando trattiamo sull’orario di rientro la sera. E quando finalmente diveniamo maggiorenni, il mondo ci sembra ad un tratto un posto più grande, perché “adesso possiamo fare quello che vogliamo”. E quest’idea sembra essere la più popolare, quella che dà la sua accezione al concetto di libertà che ha il senso comune: assenza di limitazioni esterne.

Presto ci rendiamo conto che la vita in società non può ammettere l’assoluta libertà di ognuno, pertanto ridimensioniamo la nostra idea ed affermiamo che “la nostra libertà finisce laddove inizia quella dell’altro”. Tuttavia quest’idea di una completa indipendenza da vincoli persiste ad un livello più intimo: le nostre scelte sarebbero libere nella misura in cui non vi è nulla, se non la nostra volontà, a determinarci. E in questo senso, saremmo tanto più liberi quanto più la nostra volontà è scevra di fattori che possano spingerla in una direzione piuttosto che in un’altra. Ed è in virtù di queste ragioni, sembra, che storciamo il naso all’idea che i nostri pensieri e le nostre azioni siano causati da fattori esterni alla nostra volontà, ma che la determinano: il determinismo in tutte le sue forme è percepito come negazione della libertà.

A questo punto sorge un problema. Se da un lato un’azione libera è determinata esclusivamente dalla nostra volontà, dall’altro non possiamo però decidere che cosa vogliamo: di fronte a due alternative diamo la preferenza all’una o all’altra secondo le nostre inclinazioni, che non dipendono da una deliberazione consapevole.
Insomma, come potrò agire esclusivamente in virtù della mia volontà, se questa è determinata a sua volta da fattori che le sfuggono? Per decidere in piena libertà che cosa fare, non dovrei forse essere per l’appunto libero dalle inclinazioni che mi spingono in una direzione piuttosto che nell’altra?

Un approccio interessante alla questione della libertà è offerto da Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, pubblicate per la prima volta nel 1641 (in particolare nella quarta, titolata Del vero e del falso). L’autore francese mostra come nell’atto di prendere una decisione intervengano due facoltà: la volontà e l’intelletto. La prima è definita come «la potenza di deliberare», di pronunciarsi su qualcosa. È il potere di decidere se accettare o rifiutare, oppure se è il caso, per il momento, di astenersi perché non abbiamo abbastanza informazioni. In questo senso, essa è intesa da Cartesio come libero arbitrio. La volontà è quindi ben distinta dalle inclinazioni personali verso qualcosa. Le inclinazioni sono un fatto, mentre la volontà è un potere d’azione, e le due cose agiscono separatamente l’una dall’altra. Per esempio, se in questo momento ci fa voglia un gelato, non possiamo farci nulla: è un fatto, ed è ciò che qui abbiamo chiamato inclinazione. Tuttavia possiamo decidere se è il caso di prenderlo oppure no: se ne abbiamo già mangiati dieci, sappiamo che mangiarne un altro ci farà male, pertanto decidiamo di non prenderlo, pur facendoci voglia.

Ad un’osservazione più attenta, ciò che ha determinato la nostra volontà a rifiutare il gelato contravvenendo alla nostra inclinazione immediata è la consapevolezza del fatto che troppo gelato fa male. La conoscenza è di competenza della seconda facoltà, l’intelletto. La conoscenza delle cose ci aiuta a prendere delle decisioni accurate: vedendo ciò che è bene e ciò che invece è dannoso, ci comportiamo di conseguenza.

Da questo testo di Cartesio emerge un’idea davvero affascinante: l’indifferenza tra più alternative non è libertà, ma indecisione causata dal fatto che non conosciamo ciò su cui stiamo decidendo, e ciò produce una sorta di paralisi. Quando invece sappiamo bene cosa scegliamo quando lo scegliamo, ci decidiamo molto più spontaneamente, e siamo tanto più liberi non avendo che una sola alternativa: quella giusta, poiché nulla ci ostacola nella nostra azione. Recita Cartesio:

«Se conoscessi sempre ciò che è vero e ciò che è buono non sarei mai nella difficoltà di decidere […], e sarei interamente libero, senza mai essere indifferente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1986).

Insomma, quello che Cartesio vuole dirci è che libertà e conoscenza sono inseparabili: soltanto conoscendo ciò che è bene, che non può che giovarmi, asseconderò la mia natura e sceglierò liberamente, eliminando così l’imbarazzo della scelta.

 

Pietro Bogo

 

[Photo credit Kaffeebart via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Una libertà critica per capire che possiamo essere ecologici

Ci piace pensare di essere liberi, liberi come un fiume in piena che non incontra ostacoli lungo il suo cammino. Eppure, ogni giorno percepiamo la fragilità di questa nostra libertà che, come una foglia secca, è sempre sul punto di lasciarsi travolgere da forze esterne. Soprattutto oggi, in un mondo scosso da disastri planetari e guerre intestine, da epidemie emergenti e cambiamenti climatici repentini, sperimentiamo costantemente il nostro condizionamento e la nostra limitatezza nei confronti degli eventi che incalzano il mondo attorno a noi. Sorge allora spontanea una domanda: quale libertà? Quale libertà spetta a noi esseri umani contemporanei che vivono sotto il marchio dell’estinzione?

La filosofia politica, che sul tema della libertà è stata tra le discipline ad avere maggiore influenza, ha ascritto agli esseri umani due differenti tipi di libertà, una negativa e una positiva. In quanto persone, siamo liberi di agire e compiere determinate azioni, come per esempio votare, esprimere la nostra opinione, professare la religione che preferiamo, amare chi vogliamo, etc. Questo primo tipo di libertà si definisce positivo perché designa la nostra capacità o possibilità di fare qualcosa in base ai nostri desideri o valori. Anche se, riferendosi solamente alla possibilità di fare qualcosa, questa libertà si confonde spesso con una libertà formale di cui godiamo in maniera astratta. Al contrario, la libertà negativa è libertà come assenza d’impedimento e di ostacoli. Essa, quindi, indica che noi tutti possiamo agire senza che nessuno intervenga a ostacolarci o rimanere passivi senza che nessuno ci costringa a non agire. Certamente, gli esempi più conosciuti di questo tipo di libertà sono l’inviolabilità del proprio corpo, il diritto alla privacy e la garanzia alla proprietà privata.

Tuttavia, le modalità della libertà di cui l’essere umano dispone non si esauriscono in queste due dimensioni relative alla capacità di agire senza interferenze o in accordo con i propri valori. Questo perché l’essere umano, come Nietzsche insegna, possiede anche la capacità fondamentale di poter giudicare e ribaltare i valori in cui crede. In effetti, quest’ultima capacità individua un nuovo tipo di libertà, che non esclude i primi due ma si aggiunge ad essi nel tentativo di migliorare la consapevolezza dell’uomo in un momento di profonda crisi. Secondo il filosofo canadese James Tully, questa terza libertà può essere definita ‘critica’ perché ha il ruolo chiave di sfidare, nella pratica quotidiana, i valori e i pregiudizi che abbiamo ereditato. La libertà in quanto critica, quindi, riguarda le condizioni che permettono a noi soggetti umani di attuare delle trasformazioni al fine di diventare delle persone diverse. Da questo punto di vista, è facile vedere che questa libertà è anche ecologica. Infatti, se pensiamo che l’identità di una persona sia definita dai valori in cui crede, modificando quei valori una persona potrà cambiare radicalmente la propria identità, diventando, per esempio, più sensibile ai problemi del cambiamento climatico o al maltrattamento degli animali.

La nostra vita è piena di momenti ‘critici’ in cui si racchiude la possibilità di diventare altro, di aprirci a certi orizzonti e chiuderci ad altri. Esempi classici possono essere la decisione di diventare genitori, di scegliere un certo percorso di studi o una certa carriera, di abbandonare il proprio paese per vivere in un altro. Ma lo stesso vale per esempi più ecologici come la decisione di non mangiare carne più di una volta a settimana, o di non utilizzare alcun prodotto contenente della plastica (sia nel packaging sia nei suoi ingredienti), o ancora di coltivare un piccolo orticello. I momenti ‘critici’ della nostra vita, allora, sono degli eventi che determinano la forma della nostra vita e, così, tanto più una vita è capace di queste trasformazioni, tanto più libertà critica possederà.

In un mondo sempre più complesso e caotico, in cui la paura e l’orrore sembrano essere padroni, è importante comprendere e distinguere come dobbiamo agire e cosa possiamo fare. Questa comprensione però ci mostra che le nozioni di libertà positiva e negativa non sono più sufficienti a spiegare la nostra libertà e, al tempo stesso, a metterci sul cammino di una rivoluzione. Al contrario, serve ampliare il raggio della nostra vista e riconoscere un nuovo tipo di libertà, più propriamente critica ed ecologica, che ci aiuti a cambiare il nostro modo di stare al mondo e abitare la Terra che ci ospita.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Pablo Heimplatz via Unsplash]

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Epitteto e l’arte di controllare se stessi

Capita a tutti di sentire quella necessità, più o meno manifesta, di affrontare, gestire e programmare fin nei minimi dettagli azioni, comportamenti e situazioni proprie o altrui. Non passa giorno, infatti, senza che ognuno di noi senta quel bisogno di controllare qualcosa o qualcuno: che siano le chiavi dell’auto o di casa, i propri compiti lavorativi, le notifiche sui nostri smartphone o semplicemente il monitoraggio dell’ambiente circostante e degli altri, non possiamo fare a meno di comportarci così. Questo perché controllare le cose ci aiuta ad anticipare comportamenti e situazioni; di colpo il mondo diventa più piccolo, familiare e prevedibile e subito svanisce quel senso di smarrimento e insicurezza tipico della condizione umana.

Del resto, tutti noi vorremmo avere costantemente e continuamente sotto controllo la nostra vita e l’universo intero se solo ne avessimo la possibilità, ma sempre più spesso dobbiamo rassegnarci e fare i conti di fronte all’impossibilità di tale impresa.
Sia chiaro, una routine ordinaria, un’agenda ben organizzata o il voler avere sempre la situazione sottomano non sono di per sé comportamenti negativi, anzi; essi ci aiutano a districare la nostra quotidianità. Il problema sorge, allora, quando essi condizionano in maniera preponderante la nostra vita impedendoci di viverla a pieno. Questo perché la gioia e la sicurezza provate in un primo momento, lasciano presto il posto ad ansie e timori di fronte alla consapevolezza e all’assurdità della nostra mania: non possiamo controllare tutto e tutti e anche quando abbiamo l’illusione che ciò avvenga, difficilmente le cose accadono nella stessa maniera di come ci saremmo aspettati. Quando non riusciamo nel nostro intento, quando le cose ci sfuggono per la loro velocità e imprevedibilità, restiamo amareggiati e frustrati di fronte alla constatazione della nostra impotenza e restiamo vittime di ciò che vorremo attuare più di ogni altra cosa: il controllo. Impauriti e disorientati rimaniamo sospesi tra la nostra mania di onnipotenza e la tragica constatazione della sua impossibile realizzazione. E allora che fare?

Secondo Epitteto, filosofo stoico del I secolo d.C., le nostre sofferenze e i nostri timori nascono in seguito a due errori che troppo spesso commettiamo: cerchiamo di esercitare un controllo assoluto e maniacale su qualcosa di esterno che non è in nostro potere; e non ci assumiamo mai la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre convinzioni, su cui in realtà abbiamo una grande influenza. Egli era infatti profondamente convinto, come leggiamo in apertura del suo manuale, l’Enchiridion, che tra tutte le cose che esistono al mondo, solo alcune sono davvero in nostro potere – ovvero i nostri pensieri – e che il compito di ogni uomo, che voleva definirsi libero e felice, non doveva essere altro che quello di ricordarsi costantemente cosa dipendeva da lui e cosa invece no, come ad esempio gli amici, la reputazione, il meteo o semplicemente il fatto che un giorno sarebbe dovuto morire. 

Questo perché «se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave e per proprie quelle altrui, ti capiterà di trovare quando un ostacolo quando un altro ed essere afflitto, turbato e dolerti degli uomini e degli Dei; […] mentre se tu considererai tuo quello che tuo è veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire e non soffrirai alcun male» (Epitteto, Manuale, 2017).

Convinzioni e pensieri rappresentano quindi le uniche cose sulle quali, secondo il filosofo greco, possiamo realmente esercitare una qualche forma di controllo. Potrebbe sembrare quasi una banalità, è vero, ma essi costituiscono il regno all’interno del quale siamo realmente sovrani, in quanto abbiamo sempre la possibilità e la libertà di scegliere cosa pensare e in cosa credere, basta semplicemente volerlo.
All’uomo si presentano quindi due alternative: utilizzare la propria ragione per dirigere e guidare i propri pensieri al meglio, accettando il fatto di avere un controllo limitato su ciò che avviene nel mondo e sugli eventi esterni e raggiungere quindi la serenità dell’animo, oppure lasciarsi sopraffare e piegare da tutto ciò sul quale non può esercitare la propria influenza e trascorrere arrabbiato, impaurito e infelice la maggior parte della propria vita. Perché, come ci ricorda Epitteto, il mondo esterno non ha nessun potere su di noi a meno che non glielo concediamo, pertanto l’unica cosa di cui siamo padroni siamo noi stessi.

Edoardo Ciarpaglini

[Photo credit Iucas Favre via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Libertà e linguaggio in 1984 di Orwell

Molti di noi conosceranno l’opera di George Orwell 1984: il romanzo distopico che narra un futuro governato dal Grande Fratello, figura totalitaria che controlla e conosce il mondo circostante e i suoi abitanti. In questa realtà gli uomini non hanno facoltà né di agire, né di pensare; ogni idea contraria al Partito, la forma di governo dominante, viene definito “psicoreato” ed è punito con la morte. Persino il linguaggio, fonte inesauribile di varietà e ricchezza, è stato sottoposto a revisione, allo scopo di impoverirlo sempre di più, creandone uno nuovo: la “neolingua”, contrapposto a quello standard “l’archelingua”.

«Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole» (G. Orwell, 1984, 2015).

In sostanza il linguaggio, nel futuro 1984 di Orwell, è ridotto all’osso, in quanto se non esistono nemmeno gli strumenti e la capacità di esprimere un’idea contraria al Partito, con il tempo si esaurirà anche la possibilità di pensarla. Interessante, partendo da questa considerazione, come il nostro autore dia una consistente importanza al potere della parola, il cui esercizio stimola la riflessione, aiuta la creazione di opinioni contrarie e di pensieri indipendenti.
Ecco dunque che, in un ipotetico distopico 1984, la conoscenza del linguaggio standard, il suo studio e la sua lettura, possono essere una minaccia per un regime totalitario che non vuole lasciare nulla al prossimo, ma mira a controllare qualsiasi cosa.

Afferma Winston, il protagonista di 1984, nella sezione conclusiva del romanzo:

«In effetti, ciò che distingueva la neolingua da tutte le altre lingue esistenti, era il fatto che ogni anno, anziché ampliarsi, il suo lessico si restringeva. Ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare» (ibidem).

Anche se il linguaggio sembrerebbe un fattore esteriore nell’esercizio del pensiero, un mezzo più che una sostanza, Orwell ci dimostra che non è così, in quanto la proprietà di parola conduce necessariamente ad allenare la capacità di espressione delle proprie idee e di sostegno delle proprie tesi. Si pensi a questo proposito all’importanza che il linguaggio ricopre nell’antichità romana: Cicerone affermava nel De Oratore che nulla fosse più importante di intrattenere le menti degli uomini con la capacità di parlare, elemento che fu sempre fiorente «in ogni popolazione libera e nelle società pacate e tranquille»1. Ne deriva che il tentativo di ridurre questa capacità attraverso il controllo della lingua, è alla base di un regime dispotico.

A ciò si aggiunge un altro elemento importante, che Orwell mette in luce nelle ultime battute del suo romanzo: cambiare la lingua in un’altra versione più povera implica l’allontanamento del popolo dalla letteratura del passato, in quanto con il passare del tempo i testi risulterebbero sempre più incomprensibili alla maggior parte delle persone.

«Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame con il passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qui e là ancora sopravvivevano frammenti della letteratura  trascorsa, e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua era possibile leggerli» (G. Orwell, 1984, 2015).

Ecco dunque che la revisione del linguaggio permetterebbe il controllo di tutta la letteratura e la sua inacessibilità nel futuro. Ciò implicherebbe l’esclusione automatica di tutto il patrimonio culturale e letterario conservato per secoli.

Traendo le conclusioni dalle riflessioni di Orwell si può soltanto ribadire l’estrema necessità e urgenza della lettura, della conservazione della ricchezza del linguaggio e dell’esercizio della parola. Tutto ciò da un lato è necessario per conservare la memoria del passato e stimolare il pensiero, dall’altro per mantenere la possibilità di esprimere opinioni e idee che sostengano le proprie tesi e permettano, qualora lo si voglia, di prevalere verbalmente sull’altro.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. Cicerone, De Oratore, 1, 30-31: «haec una res in omni libero populo maximeque in pacatis tranquillisque civitatibus».

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Tra le molteplici declinazioni della parola ” viaggio “

Estate 2022: la prima estate in cui si potrà tornare a viaggiare senza lockdown, mascherine e green pass, “come nell’epoca pre-covid”, ossia in libertà. Ebbene sì, perché viaggiare implica e tende alla libertà: si viaggia a condizione di essere liberi e parallelamente si viaggia alla ricerca della libertà. 

Scrive Walt Whitman in Song of the open road: «Afoot and light-hearted I take to the open road,/ Healthy, free, the world before me,/ The long brown path before me leading wherever I choose»1. Una canzone, questa della seconda edizione di Leaves of grass (1856), che è un inno alla libertà e alla leggerezza calviniana; un invito a intraprendere un percorso di quête – quasi da eroe fiabesco o da protagonista di un Bildungsroman2 e un’esortazione, scandita dal refrain «allons!», a scegliere e ad affermare se stessi. «Allons! from all formules!»: il viaggio, sia inteso in senso metaforico, come esplorazione interiore e conseguente vagabondaggio spensierato e positivo nella strada aperta della vita, sia inteso in senso letterale, richiede “libertà da” e “libertà per”, libertà da ogni regola, da ogni formula, da ogni convenzione, da ogni pregiudizio e libertà per rischiare, per uscire dalla propria comfort zone, per sospendere la propria routine, per salpare da uno «sheltered port» e andare dove si vuole, padroni assoluti di sé, andare «where winds blow, waves dash, and the Yankee clipper speeds by under full sail» (W. Whitman, Song of the open road). 

Nelle fondamenta della cultura occidentale vi è Odisseo, non solo emblema dell’uomo multiforme capace di astuzia pratica ma anche del viaggiatore per eccellenza bramoso di ritornare a Itaca, simbolo di quel “porto riparato” con acque calme, del focolare domestico, della patria e degli affetti, ma al tempo stesso stimolo di sfida e di ricerca continua. Non a caso, in un altro libro miliare per l’Occidente, la Divina Commedia, Dante, colloca Odisseo con l’amico Diomede nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti soprattutto per aver convinto i suoi compagni a intraprendere quel «folle volo», cioè varcare le colonne d’Ercole, che gli sarà fatale. Tuttavia il Poeta non può non ammirare la grandezza titanica dell’eroe omerico, che, ignaro della Grazia del dio cristiano, ha osato fare oltraggio agli dei, cercando di superare i limiti imposti agli uomini e macchiandosi così del peccato pagano di hybris (tracotanza). Lo ha fatto, però, perché mosso dal desiderio di conoscere, che è proprio dell’essere umano: «considerate la vostra semenza/ fatti non foste a vivere come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Inf.. XXVI, vv.118-120). 

Odisseo, nuovo Prometeo, diventa simbolo di sfida agli dei, di slancio verso l’ignoto e della profonda dignità della condizione umana, che, ad esempio, la logica dello sterminio nazista, riducendo gli uomini solo ad un numero di matricola, cerca in tutti i modi di annullare, come racconta tra le pagine di Se questo è un uomo Primo Levi, per il quale, in una visione laica del mondo, ricordare il canto di Ulisse tra gli abissi di Auschwitz, che mira a ridurre gli uomini allo stato animale, è un modo per ritrovare la propria dignità, sommersa tra gli orrori del lager. 

Un viaggio orizzontale, geografico, quello di Ulisse cui Dante contrappone un altro viaggio, il proprio, un viaggio verticale, ultraterreno, come l’itinerario della Commedia, teso verso il vertice ultimo, Dio. 

Di molti tipi di viaggio – cronachistici, fantastici e metaforici – è percorsa tutta la Letteratura successiva, dal Milione, resoconto del viaggio in Oriente di Marco Polo dettato a Rustichello da Pisa e riletto da Italo Calvino in Le città invisibili (1972), ai poemi epico-cavallereschi quali l’Orlando furioso, dal Grand Tour, moda settecentesca dell’aristocrazia e della classe media colta, soprattutto inglese e francese, intesa come pellegrinaggio laico verso i luoghi della Storia della civiltà occidentale, al desiderio di evasione e di esotico di fine Ottocento fino al disorientamento dell’uomo novecentesco, smarrito tra i frantumi del proprio io e i tentacoli di alienanti metropoli. 

Abbiamo bisogno di viaggiare perché abbiamo un desiderio intrinseco di conoscere e di conoscerci. Come scriveva John Steinbeck in Travels with Charley (1962), «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone»; viaggiamo per perderci e ritrovarci, come invita Charles Baudelaire in chiusura di Les fleurs du mal (1857): «au fond de l’inconnu per trouver du nouveau»3; e viaggiamo, forse, come Guido Gozzano in La signorina Felicita, «per fuggire altro vïaggio», consapevoli però, come già ammoniva Orazio nelle sue Epistole, che «caelum non animum mutant qui trans mare currunt»4. Consapevoli, infine, che viaggiare significa anche cambiare, come ci ricorda un virale tormentone basato su alcuni versi di Fernando Pessoa: «Partire!/ Non tornerò mai,/ non tornerò mai perché mai si torna./ Il luogo ove si torna è sempre un altro la stazione a cui si torna è diversa./ Non c’è più la stessa gente né la stessa luce, né la stessa filosofia».

 

Rossella Farnese

NOTE
1. Letteralmente: «A piedi e con cuore leggero mi metto in viaggio per la strada aperta, / In salute, libero, il ondo dinnanzi a me, / Il lungo sentiero marrone di fronte a me che conduce ovunque io voglia» (ndr).

2. Il Romanzo di formazione, un genere letterario che narra la crescita, l’evoluzione, di un personaggio verso la maturazione (ndr).
3. Letteralmente: «nelle profondità dell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo» (ndr).
4. Letteralmente: «mutano non il loro animo, ma il cielo coloro che vanno per mare» (ndr).

[immagine tratta da Unsplash]

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