Estate con Sophia: consigli per letture brevi che lasciano il segno

Abbiamo superato la metà dell’estate ma abbiamo ancora tutto agosto da cui trarre il massimo della soddisfazione. Non solo in termini di camminate in montagna, gelati o tuffi tra le onde, ma anche di viaggi da fare… comodamente seduti in poltrona. O sulla sedia a sdraio.

Ecco dunque alcuni consigli di lettura (e non solo) da parte dei nostri redattori, ognuno secondo suo gusto. E così si spazia tra romanzi ed ecologia, grandi classici e psicologia. Ci siamo dati una sola regola: niente mattoni, solo cose brevi ma in grado di lasciare il segno. E voi avete dei buoni consigli per noi?

 

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FRANCESCA

Francesca, professoressa di filosofia e storia, consiglia un romanzo a sfondo storico e un’opera perturbante: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani e I baffi di Emmanuel Carrère. La prima lettura è ambientata a Ferrara all’indomani delle leggi razziali fasciste entrate in vigore in Italia alla fine del 1938. Il protagonista e voce narrante è un giovane ebreo affascinato dalla ricca famiglia dei Finzi-Contini, ebrei anch’essi. I rampolli della famiglia, Alberto e Micol, lo invitano a giocare a tennis nel loro splendido giardino. La storia collettiva si mescola con le storie personali dei personaggi, bisognosi di ritrovare speranza, spensieratezza, amore. I baffi racconta invece di un uomo che decide di tagliarsi i baffi per sorprendere sua moglie. Ma sarà lei – e con lei tutto quello che credeva essere il suo mondo – a sorprenderlo: sembrerebbe, infatti, che i suoi baffi non siano in realtà mai esistiti. Con essi scompaiono anche amici, genitori, ricordi, pezzi di vita. Follia o soprannaturale? 

 

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ALESSANDRO

Cosa c’è di più avvincente di un viaggio nell’interiorità e nelle emozioni umane? Questo almeno è quello che pensa Alessandro e le sue selezioni vanno in questa direzione. Mitezza di Eugenio Borgna ripercorre una delle esperienze umane più importanti eppure così dimenticate. È fondamentale recuperare, a livello individuale e relazionale, la dimensione della mitezza che si lega alla gentilezza, alla tenerezza, alla bontà, all’amicizia e si distanzia radicalmente dalla superbia, dall’orgoglio, dal potere, dall’aggressività e dall’angoscia. La riflessione etica e psicologica sulla mitezza come virtù sociale è a prezioso servizio del singolo e della collettività. Arcipelago N di Vittorio Lingiardi invece ci immerge nelle articolazioni del narcisismo che ci abita – e che non è mai possibile ridurre ad una semplice e univoca definizione – aiutandoci a conoscerne le molteplici sfumature e le diverse declinazioni che oscillano tra le numerose isole dell’insicurezza, della stima di sé, dell’egocentrismo, della vergogna, della rabbia, dell’invidia, della manipolazione e dell’aggressività distruttiva fino alla psicopatia. L’autore conduce con delicatezza e puntualità il lettore a distinguere tra un sano amore di sé e la sua patologica celebrazione, individuandone il confine sottile.

 

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ANNA

Una Barca nel Bosco di Paola Mastrocola è la storia di uno studente appassionato, che si trova inserito in un contesto che non lo valorizza, in un momento complesso come l’età adolescenziale. Un libro che spinge a riflettere sul rapporto tra noi stessi e il mondo che ci circonda, su quello che vogliamo e sul sentirsi fuori posto o in accordo con gli altri. Consigliato a tutti coloro che amano immergersi all’interno delle dinamiche formative contemporanee, cogliendone gli aspetti contradditori e percependo la necessità di cambiamento di questo mondo, nonché a tutti quelli che sono perennemente alla ricerca di se stessi. Sempre di solitudine parla Tutto Chiede Salvezza di Daniele Mencarelli, questa volta una solitudine profonda ed esistenziale che si intreccia alla malattia del protagonista, durante il soggiorno in un centro psichiatrico. Un’opera per certi versi cruda, ma che lascia al lettore molto su cui riflettere e ci trasporta in quei luoghi dove nessuno vorrebbe mai recarsi.

 

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MASSIMILIANO

Massimiliano consiglia una graphic novel di Zerocalcare, Kobane calling, reportage del viaggio dell’autore tra i curdi del Rojava. Allo stile ironico e tagliente del fumettista romano si sommano la sua sensibilità e l’umanità della situazione critica che racconta. Un libro che strappa sorrisi, lacrime e tiene incollati fino all’ultimo baloon. Altro consiglio è Autunno tedesco dello svedese Stig Dagerman: serie di appassionanti reportage nella sconfitta Germania del 1946, scritti con un occhio lucidissimo e in controtendenza rispetto agli inviati dell’epoca, che si limitavano a sottolineare il prezzo che i tedeschi dovevano pagare per il Nazismo. Dagerman mette in luce la complessità che sempre riguarda gli ambiti umani, a maggior ragione quelli in cui si lotta per la vita ogni giorno, mostrando i lati oscuri di una denazificazione di facciata e le contraddizioni della Germania post-bellica; moniti e analisi validi anche oggi.

 

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GIORGIA

Giorgia ha appena compiuto 31 anni e quindi è in piena crisi dei trenta (+1) anni, crisi profonda creativa alla Jonathan Larson in Tick, tick… boom!, per intendersi. E quindi ha adorato pagina dopo pagina l’ultimo romanzo di Paolo Giordano, Tasmania: l’universale e i temi caldi dell’attualità si mescolano allo strettamente personale di Giordano, o meglio del protagonista del libro, nel quale – tra smarrimento e masochismo – è davvero facile rispecchiarsi. Sullo sfondo lo spettro incombente dei cambiamenti climatici sui quali si apre un unico, piccolo spiraglio di salvezza: la Tasmania, appunto. E se l’ecoansia non avrà ancora avuto la meglio su di voi, passate pure a un bellissimo saggio, La nazione delle piante di Stefano Mancuso. L’ormai noto in tutto il mondo neurobiologo vegetale immagina una Costituzione “scritta” dalla nazione più popolosa della Terra – gli alberi, che sono ben 3mila miliardi! Tra riflessioni globali e confessioni intimistiche, tra nozioni scientifiche e spunti filosofici, cercheremo di capire insieme a Mancuso perché questo pianeta è così commoventemente unico e perché forse vale la pena tornare a conviverci.

 

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GIACOMO

Si dice che il giallo sia l’ideale per passare un po’ di tempo rilassati sotto l’ombrellone, e anche la filosofia sa attrezzarsi in questo senso. Per un po’ di mystery in salsa filosofica Giacomo consiglia Notti a Serampore di Mircea Eliade, un romanzo breve, suggestivo e incisivo che risale ai tempi in cui l’autore viveva e studiava in India. Un giallo avvincente, che attraversa le epoche e sfida l’idea stessa di tempo. Se il genere piace, si può approfittare dei cinema all’aperto per recuperare il bel L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, un poliziesco come non se ne vedevano da anni in Italia. Con un bravissimo Pierfrancesco Favino a interpretare il classico poliziotto a pochi giorni dalla pensione, il film si rivela un noir incalzante, tesissimo, profondo nella sua cupissima visione di una Milano mai così aliena e sconosciuta.

 

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LUCA

Leggere racconti sull’estate in estate. Questo è quello che si fa se ci addentriamo ne Le piccole vacanze, il libro che ha iniziato la grandiosa carriera di scrittore di Alberto Arbasino. L’autore ci accompagna con il suo stile visionario in mezzo alle giornate estive fatte di primi amori, desideri, strade e abitudini dei ragazzi degli anni ‘50 in un’Italia che reinventava se stessa, per farci scoprire quanto siano senza tempo le estati di ogni epoca. Per chi cercasse atmosfere e sensazioni simili ai racconti di Arbasino ma trasposte su schermo, non si può non citare l’acclamato Chiamami col tuo nome, film del 2017 di Luca Guadagnino che incastona la turbolenta storia di due giovani ragazzi nell’estate italiana di una provincia silenziosa ma ricca di speranze.

 

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CHIARA

Chiara ha pensato per le vostre vacanze a due proposte di lettura, che sia in riva al mare o in cima a una montagna. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, è un romanzo che racconta il problematico rapporto tra il mondo esterno e Christopher, un ragazzo di quindici anni che soffre della sindrome di Asperger. Un’opera di finzione che ci aiuta a sviluppare un particolare tipo di empatia: quella nei confronti di chi si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati o se tutte le finestre non sono chiuse, verso chi detesta che ci siano due persone con lo stesso nome nella medesima stanza o che non riesce a mangiare dal piatto in cui zucchine e salmone si sfiorano. Anche un saggio può aiutarci a vedere le cose da un altro punto di vista, e lo sguardo di Shitao, un monaco e pittore cinese di fine ‘600 è alquanto originale. Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara si presenta non solo come un’ottima introduzione all’estetica orientale, ma invita il lettore a guardare l’incontro tra uomo e natura, tra arte e vita con occhi nuovi.

 

Non ci resta che augurarvi buona lettura!

 

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Socrate è stato il primo boomer?

Con questo pezzo si inaugura una piccola rassegna di profezie filosofiche. Sì, perché i filosofi sanno essere profetici, a modo loro: talora di sventure, talora di avventure, ma più spesso dell’ambigua tensione tra entrambe che caratterizza le grandi svolte storiche.

Questo è per esempio il caso di Socrate, che – diciamocelo! – oggi figurerebbe come il prototipo del boomer. Infatti, circa 2500 anni or sono, questo borghese figlio di un’ostetrica e di uno scultore puntava il dito contro le nuove ICT1 di massa che sconvolgevano la vita dell’amata Atene, della Grecia stessa e persino dell’intera umanità. Aveva dunque captato la potenziale disruption a cui l’umanità stava andando incontro a causa dell’interazione con una tecnologia digitale innovativa come non mai. Le perplessità di Socrate erano grossomodo di questa natura2:
1) appoggiarsi a server esterni di informazioni avrebbe rappresentato una ricetta per la smemoratezza: se la macchina ricorda al posto tuo, tu smetterai farlo;
2) permettere di riprodurre e avere accesso alle informazioni in maniera universale e immediata avrebbe favorito la fruizione superficiale dei contenuti, piuttosto che una loro genuina interiorizzazione: se la macchina sa al posto tuo, tu smetterai di apprendere, concentrarti e andare in profondità;
3) la circolazione indiscriminata e libera di masse di informazioni decontestualizzate e impersonali avrebbe sancito la fine del genuino dialogo faccia a faccia e dei processi di verifica in prima persona: se la macchina risponde al posto tuo, tu smetterai di interrogar(ti), dunque non ti renderai più conto di quello che non sai – non saprai più di non sapere e finirai in una bolla.

Ora, il fatto rilevante è che Socrate si riferiva non a GoogleMaps, Wikipedia, Alexa, ecc., ma a quella che potremmo definire come la prima forma di AI nella storia umana, grazie al cui codice il flusso analogico dell’esperienza veniva spezzettato e compresso in unità variamente combinabili e interscambiabili, ossia veniva trasformato in un algoritmo potenzialmente universale: si tratta della scrittura alfabetica. Proprio così! Infatti, secondo Socrate, con l’alfabeto la «parola viva» diventava «morto discorso» che «si diffonde ovunque», composto da elementi che «sembra che siano intelligenti»: «fidandosi della scrittura», finirà che essa «impianterà la dimenticanza» nelle menti e le persone diventeranno come «rotoli da papiro» incapaci di «rispondere e a loro volta porre domande», ossia di apprendere e pensare.

Oggi viene da sorridere, ma non semplicemente perché l’alfabeto è diventato ovvio, normale, banale, e così via; c’è qualcosa di più radicale: oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste anche nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti. Ma non solo: l’esistenza della democrazia, della consapevolezza di sé e degli altri e persino della consapevolezza della consapevolezza stessa sono frutto dell’interazione con la scrittura alfabetica, della sua letterale incorporazione. In poche parole, la scrittura alfabetica non solo non ha ucciso la nostra “anima”, ma le ha anzi dato forma – la ha informata: grazie a essa, sappiamo di non sapere.

Ciò è vero al punto che, nella nostra epoca, il problema diventa che le nuove ICT starebbero minacciando l’insieme dei processi cognitivi tipici dell’attitudine da «lettura profonda», fatta di tempi dilatati, di abilità ricorsive, di capacità di coniugare divisione e connessione e di prontezza nel fare inferenze e trarre conclusioni: analisi, sintesi, riflessione, immaginazione, astrazione, empatia, contemplazione, concentrazione, giudizio, organizzazione, codificazione, documentazione, classificazione, interiorizzazione, e così via. Ci ritroveremmo quindi a sviluppare una vera e propria «mente da cavalletta», che saltella e svolazza senza una vera direzione – senza un senso vero e proprio. C’è davvero dell’ironia in tutto ciò: Socrate si lamentava che l’alfabeto avrebbe rovinato la nostra mente (orale), mentre oggi ci si lamenta che la rete starebbe rovinando la nostra mente (scrivente).

Siamo quindi passati dal timore o convinzione che la scrittura ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di ascoltare/parlare) al timore o convinzione che il web ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di leggere/scrivere). Ieri i “professori” si lamentavano che i giovani non dialogavano più perché distratti dalla carta; oggi invece si lamentano che i giovani non riflettono più perché distratti dallo schermo. Che cosa capiterà con le AI odierne è difficile saperlo e ancor di più ipotizzarlo in poche parole; ma una cosa potrebbe sembrare certa: nel bene e nel male, ogni epoca ha i suoi boomer. E tu, quanto ti senti socratico?

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Information and Communication Technologies.
2. Espresse principalmente in Platone, Fedro, 274d-275d e Protagora, 329a, una cui eccellente rilettura contemporanea è in M. Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano 2009, soprattutto pp. 59-87. Le citazioni successive sono tratte da queste opere.

[Photo credit Milan Fakurian]

la chiave di sophia 2022

La nascita della filosofia secondo Giorgio Colli

Nell’immaginario collettivo, quando si pensa a un classico della filosofia, si è portati a pensare a un qualche complicato trattato, corposo sia nella sostanza che nella lunghezza. Oppure a un qualche antico libro di un autore di diversi secoli fa, che risulta tutt’oggi contemporaneo al comune pensare e sentire.

Spesso a rientrare nell’insieme dei classici, meriterebbero di starci anche quei testi apparentemente secondari, ma che si rivelano poi capaci di aver racchiuso in poche pagine un sentire e pensare decisivi per un’epoca. Nel panorama variegato della filosofia italiana contemporanea, diversi sono stati gli autori e i testi che si sono imposti poi come classici del pensiero. Tra questi sta sicuramente la figura e l’opera di Giorgio Colli (1917-1979).

Colli, studioso dei filosofi antichi, filologo, traduttore e storico della filosofia, ha consolidato la sua posizione culturale di estremo prestigio al di fuori dei canoni che la cultura italiana del dopoguerra identificava come campo della filosofia. Eppure, moltissimi dei suoi spunti e delle sue indicazioni sono divenute oggi importantissimi riferimenti culturali.

Il suo La nascita della filosofia (1975) costituisce tra i suoi scritti una piccola ma intensa pietra miliare, che pone le basi sul suo pensiero in materia di filosofia antica e al contempo si pone come riferimento italiano di quella tradizione che vede la filosofia socratico-platonica non come origine del pensiero, ma come suo declino al cospetto di una tradizione precedente ben più profonda.

Se infatti Socrate e Platone sono riconosciuti come i principali cardini della filosofia antica e di tutto il pensiero filosofico occidentale, Colli sente di dover tornare e reinterpretare quelle fonti molto più antiche di sapere che solo molto dopo sono divenute quella che oggi ancora riconosciamo come filosofia moderna.

La filosofia, per Colli, ha le sue radici nell’antico culto degli dei, specialmente in Apollo e Dioniso (interpretati però diversamente da Nietzsche). Gli dei si esprimono con gli uomini lanciando enigmi – caratteristica che risuona per Colli nell’etimologia di “Apollo” – e questi enigmi gettano l’uomo in quella mania (pazzia) da cui la filosofia nasce, che è «matrice della sapienza» (G. Colli, La nascita della filosofia, 1975):

«Attraverso l’oracolo, Apollo impone all’uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato, lo esorta al controllo di sé, mentre lui si manifesta attraverso un “pathos” incontrollato: con ciò il dio sfida l’uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli. Tale ambiguità si imprime nella parola dell’oracolo, ne fa un enigma» (ibidem).

In questo folle dialogo tra dei e uomini accade il pensiero filosofico, che consiste nel tentativo da parte dell’uomo di sciogliere i suoi enigmi attraverso l’interpretazione dei segni divini. Avvicinarsi e comprendere l’essenza della filosofia significa dunque ritornare in quell’atmosfera sacrale dell’antica Grecia che precede i filosofi modernamente intesi e connettersi nuovamente alla dimensione divina dell’enigma.

Come si sviluppa la filosofia successiva, cos’è che cambia? Al venir meno della vicinanza con la divinità, l’uomo sostituisce gli dei agli uomini. L’interpretazione volta al risolvimento dell’enigma diventa dunque dialettica, interlocuzione tra uomini: è il momento socratico-platonico che avviene dunque nello scenario di una morte di dio ante litteram:

«Un passo ancora, cade lo sfondo religioso, e viene in primo piano l’agonismo, la lotta di due uomini per la conoscenza: non sono più divinatori, sono sapienti, o meglio combattono per conquistare il titolo di sapiente» (ibidem).

L’interpretazione di una filosofia in decadenza nell’epoca di Socrate, Platone e Aristotele, nonché nell’epoca della sofistica e delle correnti successive che hanno portato alla struttura culturale occidentale odierna, non era certo così diffusa nel corso del Novecento, se non in quei pensatori e quegli ambienti che avrebbero dovuto ancora attendere per trovare ascolto. Anche Nietzsche insistette per rivolgere lo sguardo a prima di Socrate; allo stesso modo Heidegger, Severino in Italia e tutti i pensatori che hanno sentito la necessità di ritornare ai culti misterici, all’orfismo, ai poeti lirici, ai Sette Savi, alle dottrine non scritte di Platone, per rievocare una dimensione più autentica del pensiero e del rapporto tra uomo e mondo.

Il pensiero di Giorgio Colli, anche attraverso le preziose pagine de La nascita della filosofia, è un piccolo punto di riferimento per chiunque voglia intrecciare nuovamente i fili del pensiero e del divino, della dimensione che precede ogni insegnamento, ricerca, disciplina e trova la sua linfa solo nell’intimo rapporto dell’uomo solo davanti all’essere.

 

Luca Mauceri

[Photo credit Unsplash]

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L’uomo e la sua armatura: il cavaliere inesistente di Italo Calvino

Luigi Pirandello scrisse nel suo celebre romanzo Uno nessuno e Centomila: «Ogni cosa finché dura porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter essere più altrimenti», evidenziando una delle pietre miliari del suo pensiero: il contrasto tra forma e sostanza, tra involucro e contenuto, tra guscio e uovo, per dirla con il protagonista di Il giuoco delle parti.
Non siamo costituiti di un’unica entità, ma ci destreggiamo tra una parte esteriore, cristallizzata, un fardello che trasciniamo nella relazione con noi o con il prossimo e una interiore, costituita dalla vita, dalla sostanza, dal flusso che scorre al di là della forma. Nell’alternanza di equilibri non sempre stabili e felici tra questi aspetti scorre la nostra esistenza, che talvolta sentiamo pesante, quasi fossimo costretti a portare con noi una vera e propria armatura.

Ispirandosi proprio a quest’ultima immagine, Italo Calvino, quasi mezzo secolo dopo Pirandello, dà una propria interpretazione di questi concetti nel suo celebre romanzo Il cavaliere inesistente (1959).
L’opera narra la vicenda di Agilulfo, paladino di Carlo Magno dalla splendida corazza bianca, ligio ai propri doveri fino allo sfinimento e privo di qualsiasi moto spontaneo e vitale. Agilulfo è letteralmente un’armatura senza contenuto, è «un cavaliere che non c’è» come dirà lui stesso presentandosi al proprio re, tanto da essere disprezzato da tutti i suoi compagni per il suo carattere troppo impostato e preciso. Al contrario, il suo scudiero Gurdulù, vera e propria macchietta del romanzo, è un uomo che «c’è e non sa d’esserci», insomma il classico alter-ego del protagonista, spontaneo e combinaguai, non dotato di alcuna razionalità per svolgere le mansioni quotidiane.

Di fatto Calvino mette in scena attraverso i suoi due personaggi la drammatica realtà che caratterizza l’umanità e in particolare la nostra epoca: il sentimento di costrizione che proviamo di fronte agli innumerevoli doveri o alle incombenze quotidiane, così come l’aspirazione a vivere più spontaneamente, lasciandoci andare ad una pienezza vitale avvolgente.
Dirà infatti Agilulfo seppellendo un soldato: «O, morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai, tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta mi sorprendo ad invidiare agli uomini esistenti. […] Molte cose riesco a farle meglio di chi esiste, senza i loro soliti difetti di grossolanità. È vero che chi esiste ci mette anche qualcosa, un’impronta particolare, che a me non riuscirà mai di dare».

Alla resa dei conti, essere pura costruzione – sebbene possa significare adeguarsi a una realtà esistente, svolgere le proprie mansioni in maniera impeccabile, essere un modello per il prossimo – in fondo fa perdere la propria identità, riduce la vita alla sola armatura, trasformando l’uomo in un automa. L’incertezza e l’imperfezione che ad Agilulfo causano un tale sconcerto da confonderlo, sono ciò che ci rende umani, ciò che caratterizza la nostra carne al di là di quell’armatura perfetta e lucente, vuole insegnarci Italo Calvino.

Abbandonare il proprio abito, tuttavia, non è un processo facile, può significare perdersi, come accadrà per Agilulfo, il nostro cavaliere inesistente, o vivere un momento di smarrimento, quasi tutto il nostro essere fosse davvero ridotto a quelle cristallizzazioni a cui aderiamo come una protezione.

«Agilulfo, lui, aveva sempre bisogno di sentirsi difronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé» (I. Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959).

Lasciar cadere il muro di fronte a noi significa accettare di non avere il controllo pieno della situazione, vivere anche con un mondo che a volte ci restituisce esperienze imperfette, così come imperfetti sono gli uomini che lo abitano. La pena di non riuscire a realizzare questo processo è di fatto l’impossibilità di stringere dei rapporti umani profondi, di vivere nella vuota solitudine o di non poter mostrare davvero chi e cosa c’è al di là dell’armatura.

In definitiva Calvino mette in scena il dramma esistenziale dell’uomo, mostrando lo specchio di quello che siamo o di ciò che rischiamo di essere: dei personaggi buffi e grotteschi che in realtà hanno un bisogno profondo di umanità, di sentimenti e di relazioni vere.

 

Anna Tieppo

 

[Photo credit unsplash.com]

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La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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