“Lettera sull’umanismo” di Heidegger: il filosofo che non vuol più fare filosofia

La Lettera sull’umanismo fu scritta da Martin Heidegger nel 1946 su sollecitazione di Jean Beaufret, amico e collega del filosofo, che in quel periodo storico si domandava quale senso potesse ancora avere la parola umanismo appunto. Come Heidegger stesso sottolinea nella sua risposta, questa domanda intende da una parte salvaguardare la parola, perché foriera di grande tradizione, e dall’altra discuterla, perché palesemente incapace di apparire credibile agli occhi dei contemporanei. Cosa risponde Heidegger?

Umanismo è per lui un progetto metafisico. Con questa espressione si riferisce a tutto ciò che argomenta il mondo, le cose e gli enti per ordinarli in un senso compiuto, comprensibile all’uomo. La metafisica è dunque una grammatica che riporta il mondo alla misura dell’uomo e che si secolarizza. Da essa sono nate tutte quelle pratiche che dispongono dell’essere e oggettificano gli enti, finalizzandoli a qualcosa. Nel caso dell’umanismo, l’azione metafisica si è premurata di mantenere l’uomo «umano e non inumano, cioè al di fuori della sua essenza» (Heidegger, Lettera sull’umanismo, 1947).

Ma così facendo, continua Heidegger, l’umanismo-metafisico fa dell’essenza umana una differenza specifica, un nome e un oggetto, e finisce con l’interessarsi, nelle sue parole, dell’umanità a partire dalla sua condizione “animale” (vedasi: «l’uomo è un animale razionale»). Qui animalitas significa esistenza in nome della differenza. Ma humanitas è di più, è altro: non può essere ricondotta ad alcuna etichetta, né ridotta alla pura biologia. Essa è e-sistenza, stare-fuori nell’essere, esistere nella consapevolezza di esistere – di esser-ci. Ed è qui, nel territorio del “ci”, che secondo Heidegger si dovrebbe cercare l’autentica essenza dell’umanità.

In questa accusa cadono anche i valori, le morali, le prassi, gli dèi, tutto ciò che è sorto in qualche modo dalla metafisica umanista. Questa caduta però non li annichilisce, come egli stesso ci tiene a precisare; invece ne mette in luce la natura di progetto e richiama il pensiero nell’arena, a considerare nuovamente il suo destino e le sue attitudini. L’accusa di Heidegger chiosa anche contro la scrittura, in quanto essa cristallizza il pensiero altrimenti libero e lo costringe a un adattamento non suo. Per ritrovare allora la verità dell’essere, e di conseguenza la sua vera essenza al di là di ogni oggettivazione, l’uomo deve

«imparare a esistere nell’assenza di nomi […] lasciarsi reclamare dall’essere col pericolo che abbia poco o raramente qualcosa da dire» (ivi).

In questo modo il pensiero potrà anche ritornare a pensare la verità dell’essere, che è infinita apertura ed eterna possibilità, impossibile a oggettivare, obliata per millenni dal pensare metafisico dell’umanismo.

Ma come fare nel momento in cui si è bocciato l’umanismo, la metafisica, la scrittura – e poi anche le filosofie in generale, dacché «i Greci, nella loro età magna, hanno pensato senza simili denominazioni» (ivi)? Forse che per esprimere sempre la verità dell’essere occorre starsene in silenzio? Se lo domanda anche Heidegger in un breve passo del testo. Ma la risposta che si dà riposa nel linguaggio: esso «è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola» (ivi). L’uomo deve diventare pastore dell’essere, non esserne despota; lasciarlo libero di essere, senza dividerlo in oggettivazioni sterili, e ritrovare una semplicità originaria che manifesta tutta la sua forza nella banale asserzione di sé.

Questo è per Heidegger il potere del linguaggio: non l’accumularsi di chiacchiere, dissidi, ostilità e discettazioni, ma la tagliente incisività di una frase ben impostata, che racchiuda in sé tutta l’etica e l’ontologia ad essa sottesa, che superi ogni contemplazione, ogni divisione e ogni materia, e si curi della physis, «della luce in cui solo può soggiornare e muoversi un vedere inteso come theoria» (ivi).

Se Heidegger allora non dà precetti per orientare questo theorein è solo perché è incapace di immaginare il futuro. Oggi però, a più di 70 anni di distanza, qualcosa possiamo avanzare. L’umanismo ha ceduto il passo a posizioni nuove, chiamate per l’appunto post-umaniste, definibili come posizioni che intendono «portare a evidenza la condizione implicitamente ibrida e relazionale dell’uomo» (R. Marchesini, Eco-ontologia, 2018) e dunque distoglierlo dalla centralità vitruviana per condurlo nella reciprocità continua. Una frase del manifesto postumanista recita nel seguente modo: «I corpi umani non hanno confini» (R. Pepperell, The Post-human Manifesto, 1995). Si tratta insomma di accettare che l’essere umano non è mai stato umano affatto – e che è in questo essere inumano, che è fluidità e prova di sé, che sta la sua umanità.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Mario Purisic via Unsplash]

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Perché i poeti?

Il linguaggio è il linguaggio[1]. Da questa apparente tautologia inizia la Erörterung di Martin Heidegger sull’essenza del linguaggio. Ciò che la logica classica definirebbe tautologico, spalanca invece un orizzonte di significati, o meglio: «ci lascia sospesi sopra un abisso [Abgrund]»[2]. E perché questo? Quale fondamento [Grund] viene a mancare affermando: il linguaggio è il linguaggio? La cosa è evidente: da Aristotele in avanti, la filosofia ha pensato l’uomo come “zoon logon echon”, ovvero “animale dotato di pensiero- linguaggio”. In termini aristotelici il linguaggio è quindi differenza specifica dell’uomo, la sua caratteristica più propria e distintiva. Il linguaggio è dunque dell’uomo, è ciò che lo fa essere tale, che gli permette di esprimere la propria interiorità e di comunicare. È uno strumento dell’uomo. Tuttavia, non è la foné lo strumento che ci permette di comunicare ed esprimere la nostra interiorità? Non comunicano infatti, e non si esprimono, anche gli animali, i quali hanno foné ma non hanno logos? L’affermazione “il linguaggio è il linguaggio” sottrae all’uomo al contempo strumento e differenza specifica, ma soprattutto sottrae al linguaggio il suo fondamento sull’uomo. Questa duplice sottrazione apre l’abisso «la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo [Ort] nel quale vorremmo farci di casa per trovare una dimora [Heimat] per l’essenza dell’uomo»[3]. Le stesse parole ricorrono nelle prime pagine della Lettera sull’umanismo, di poco precedente agli scritti sul linguaggio:

Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora [Heimat] abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa casa. [4]

Il linguaggio non è dell’uomo, bensì dell’essere. L’Essere è Parola (la sostanza del sein [essere] è il sagen [discorso]), e ogni parola umana, in quanto parola, è resa possibile da quella Parola. Così l’Essere di Heidegger non crea il mondo, e tuttavia gli conferisce senso: il Mondo è luogo della Lichtung [Radura], in cui il filtrare della Luce dà senso.[5] L’uomo abita questa casa. Alcuni uomini possono custodirla. Alcuni: i pensatori ed i poeti.

Il pensiero porta a compimento il riferimento [Bezug] dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa casa. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e in esso la custodiscono.[6]

Il pensiero accoglie la Parola e tenta di ridirla: il parlare dell’uomo è un cor-rispondere al Linguaggio. Pensatore e Poeta si risolvono nel pensiero poetante. Così Heidegger risponde alla domanda “Perché i poeti?”:

Il dire del cantore dice l’intero intatto dell’esistenza del mondo, che invisibilmente si distende nella spaziosità dello spazio interiore del cuore. Il canto non è la ricerca di ciò che deve esser detto. Il canto è l’appartenenza al tutto del puro Bezug.[7]

E poche righe prima, citando Herder:

Dal moto di un soffio dipende tutto ciò che sulla terra gli uomini hanno pensato, voluto e fatto, e ciò che faranno di umano; tutti noi ci aggireremmo ancora nelle foreste se questo soffio divino non ci avesse avvolti nel suo calore, e non pendesse dalle nostre labbra come un suono magico.8

In sostanza, il dire poetico, il pensiero poetante, è ciò che meglio coglie la Parola dell’Essere, e cor-rispondendole ci parla. Questo dire [Sagen] come cor-rispondenza all’Essere [Sein] è l’essenza del Linguaggio [Sprache]. In verità è doveroso notare che il termine Sprache si traduce sia “linguaggio” sia “lingua”. La lingua è il linguaggio della terra natia: Heimat. In tal senso, la Parola dell’Essere, come essenzialità del linguaggio, è vicina alla nostra lingua, e la casa che l’uomo abita è proprio questa coincidenza di Sprache – Sein – Heimat.

Nei pressi di questa casa si aprono le radure, ovvero i luoghi illuminati dalla parola e che, sottratti dal buio del bosco, appaiono come significanti. Il romanzo, la poesia, il racconto: essi ci aprono i panorami di significato più suggestivi. Per osservarli è sufficiente seguire le tracce che escono dal bosco dell’insignificanza e mettersi in ascolto della loro parola.

Alessandro Storchi

 

Note

1 Cfr. Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013

2 ivi, p. 29

3 ibidem

4 Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 2013, p. 31

5 Cfr. Alberto Caracciolo, Presentazione in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, pp. 12-13

6 Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 2013, p. 31

7 Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 294

8 ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]