Una visione mancata sotto lo sguardo della storia

Tra le prime pagine del nuovo libro di Corrado Augias Breviario per un confuso presente (Einaudi, 2020) c’è un capitolo dedicato al popolo italiano. Augias riprende le parole di una grande persona, Ferruccio Parri, che da capo della Resistenza più volte martoriato si trova all’età di ottant’anni a definire con amarezza il popolo italiano come dotato di «scarsa educazione civile e politica»1. Prosegue poi Augias: «la libertà, ecco un’idea con la quale gli italiani hanno un rapporto difficile. Le grandi libertà civili sono state a lungo cedute in cambio di pane e spettacoli, – dal Colosseo alle reti sociali – mentre le libertà individuali per mancanza di limiti si sono estese fino alla licenza»2. Giustamente lo scrittore ricorda momenti elevati della nostra italianità: il Risorgimento, la Resistenza, ma anche lo spontaneo brulicare di lavoro cui abbiamo assistito in seguito ai terremoti e all’alluvione di Firenze del ’66. Ecco allora che Augias, facendo eco alle parole di Giorgio Gaber, afferma che libertà è «partecipazione, solidarietà, sentimento collettivo d’appartenenza, la possibilità di tenere a bada, insieme, l’arroganza criminale e la licenza irresponsabile»3.

A una manciata di passi dal compiere trent’anni, dunque ben lontana dal Risorgimento come anche dall’alluvione del ’66, non posso smettere di chiedermi dove si sia persa questa idea di libertà. Ho sempre guardato con ammirazione alle storie del passato, interrogandomi su cosa dev’essere stato partecipare con coraggio alla storia, essere degli individui così ardentemente impegnati, condividere una visione. Da amante dei musical – e probabilmente non è un caso, visto che è nella coralità che essi esprimono la propria potenza viscerale – ho inseguito quell’energia e quella tenacia trasudanti da alcuni versi di Les Misérables, grande classico del 1980 basato sul romanzo di Victor Hugo, e da Hamilton, capolavoro di Lin-Manuel Miranda del 2015. In entrambi percepisco la potenza di qualcosa che continua a mancarmi nella vita reale, qui, nel 2021: una visione. Con immensa frustrazione la vedo inabissarsi totalmente in chi dovrebbe possederla più di qualsiasi altro, chi si trova nelle posizioni che possono davvero cambiare i destini di una nazione. Coloro che invece politicano ancora nella logica mirabilmente descritta da Giovenale quasi due millenni orsono, quella del «panem et circenses»4 appunto e che io, ispirata da Augias, proporrei di tradurre nel 2021 come “sussidi e social media”.

Oggi ci troviamo davanti a una sfida epocale. Per dei giovani come me, e ancor di più per quelli nati dopo di me, la pandemia è sicuramente l’avvenimento spartiacque. Ma che cosa ci sarà dopo? O meglio, che cosa vogliamo che ci sia dopo? Qual è la nostra visione del domani? Non ne abbiamo una unica. Non c’è alcun leader che sia davvero una guida, che ci spinga con decisione e coraggio verso una nuova idea di Italia. Mi guardo attorno e da nessuna parte intravvedo un guizzo dell’ensemble de Les Misérables quando cantano, all’alba della rivoluzione del 1832, “One day to a new beginning/ There’s a new world to be won/ There is a life about to start/ When tomorrow comes5. Ancora meno l’energia della combriccola dei padri fondatori d’America in Hamilton: la volontà di darsi per una causa, per il proprio popolo, per i propri figli e per il proprio futuro. Questo ultimo punto in particolare mi colpisce, considerando che la mancanza di visione di chi ci governa si ripercuote su di me e i miei vicini anagrafici, mai presi in considerazione in qualsiasi decisione, ignorati come se non fossimo già adesso e saremo ancora di più in futuro i nuovi pilastri della nazione. Mi commuovo nell’ascoltare le parole che i protagonisti Hamilton e Burr cantano ai loro neonati figli in un’America emancipata dalla Gran Bretagna: “We’ll bleed and fight for you/ We’ll make it right for you/ If we lay a strong enough foundation/ We’ll pass it on to you, we’ll give the world to you/ And you’ll blow us all away6. Personaggi fittizi, certo, ma non esiste proprio nulla di vagamente paragonabile in questo XXI secolo.

C’è un ultimo verso che voglio condividere e che da mesi mi ronza in testa. Lo pronuncia George Washington (il George Washington orgogliosamente afroamericano in Hamilton): “History has its eyes on you7. La storia ti sta osservando. Ecco, vorrei che tutti noi italiani ce ne rendessimo conto. Non solo chi ha il potere di cambiare le cose con pochi tocchi, ma anche chi ci deve mettere quotidiana tenacia per creare il proprio piccolo cambiamento. La storia giudicherà la nostra visione di futuro. Siamo ancora in larga parte quel popolo di «scarsa educazione civile e politica» citato da Parri qualche decennio orsono. Nonostante sia di uno scoraggiamento devastante quello che succede oggi nei palazzi del potere, è anche il popolo a determinare la sua storia con il suo carattere. Lo scriveva Benedetto Croce e lo riprende Augias. La storia sta guardando tutti noi: che cosa vogliamo fare?

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1-2. C. Augias, Breviario per un confuso presente, Einaudi, Torino 2020, p.11.
3. Ivi, p. 13.
4. Giovenale, Satira X. L’espressione integrale è «[populus] duas tantum res anxius optat panem et circenses» che traduco liberamente con: “[Il popolo] brama due cose sopra ogni altra: il pane e gli spettacoli circensi”.
5. Si tratta di alcuni versi tratti dalle canzoni One day more e Do you hear the people sing? tratte da Les Misérables. Mia traduzione libera: “Un solo giorno ad un nuovo inizio/ C’è un nuovo mondo da conquistare/ C’è una vita che sta per iniziare/ Quando il domani arriverà”.
6. Questi versi sono tratti da Dear Theodosia in Hamilton. Mia traduzione libera: “Sanguineremo e lotteremo per te/ raddrizzeremo ogni torto per te/ Se noi costruiremo delle basi sufficientemente forti/ Te le passeremo, ti daremo il mondo/ e tu ci potrai sorprendere”.
7. La canzone in questione s’intitola proprio History has its eyes on you e il passaggio è il seguente: “Let me tell you what I wish I’d known/ When I was young and dreamed of glory/ You have no control/ Who lives, who dies, who tells your story/ I know that we can win/ I know that greatness lies in you/ But remember from here on in/ History has its eyes on you”. La mia traduzione libera: “Lascia che ti dica quello che avrei voluto sapere/ quando ero giovane e sognavo la gloria/ Non hai alcun controllo/ Su chi vive, su chi muore, su chi racconta la tua storia/ So che potremo vincere/ So che sarai un grande uomo/ Ma ricorda che d’ora in poi/ la storia ha i suoi occhi su di te”.

[Photo credit unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020-ultima

Il mondo ed io con lui

È solo un estivo giovedì sera nel West End e io sono semplicemente seduta sulla poltrona vellutata del Queen’s Theatre in attesa che cominci la magia. Alle sette e mezza in punto le luci calano, l’orchestra comincia con quel potente “mi-laaaa, mi-laa” e sullo schermo, un attimo prima di scomparire per aprire la vista sul palco, appare la scritta “Paris 1815”: è l’inizio di Les Misérables, con ogni probabilità il musical migliore di tutti i tempi, e io scioccamente penso di essere l’unica a sentirmi dentro il cuore che, battendo, fa anche lui “mi-laaaa, mi-laa”. Sì perché in verità questo per me non è solo un giovedì: è anzi una di quelle sere specialissime che si aspettano per mesi. Comunque, ci vogliono quasi due ore per farmi capire che non è affatto così, cioè che non sono affatto la sola ad avere il fiato sospeso e le dita intrecciate in grembo che si stringono quasi dolorosamente. Ne avevo avuto un sentore con la straziante “I dreamed a dream” e dopo la morte del piccolo Gavroche il sospetto era quasi fondato, ma quando il corpo esanime di Enjolras è comparso in bilico sulla barricata disfatta di un moto rivoluzionario caduto nel vuoto (Parigi 1832) ne ho avuto la conferma.

C’era chi tirava su col naso e chi invece era riuscito a recuperare un fazzoletto da chissà dove, soffocando in questo modo dei rumori non proprio dignitosi; in alcuni piccoli momenti, quelli in cui la musica era meno intensa, si potevano anche udire dei “sob” sfuggiti da labbra inconsolabili e potevo  percepire le silenziose lacrime della mia vicina a destra come anche della mia amica a sinistra; sentivo infine scorrere le mie di lacrime, silenziose lungo il viso. Soprattutto quando Marius, unico sopravvissuto tra tutti i suoi amici, un nutrito gruppo di speranzosi rivoltosi, cantava la sua solitudine seduto al tavolo di una taverna divelta. In quella sala c’erano certamente persone che lì dentro ci erano state trascinate, e magari quasi a peso, mentre altre forse erano semplicemente un po’ meno sensibili a quella trama tragica enfatizzata da musica e testi potenti e toccanti; può anche darsi che altri ne fossero persino schifati, chissà; io però lì dentro ho saggiato un momento corale del mondo. Un momento in cui le persone dividono lo stesso pensiero, la stessa emozione: lo spazio che ti circonda ne è pieno tanto quanto tu ne sei pieno.

Solo un mese fa ragionavo sul concetto di unicità della persona. Siamo in effetti continuamente portati a pensare di dover essere differenti, che essere come gli altri sia sbagliato, che fare come gli altri sia un inequivocabile segno di debolezza della personalità, se non di totale mancanza di personalità. Abbiamo deciso di prendere sempre alla lettera quel “vitandum […] turbam” di Seneca¹ senza aspettare di leggere e comprendere la successiva esegesi di quel monito; perché noi siamo sempre di fretta ed abituati a soffermarci sugli slogan, a proposito dei quali non si può non pensare con scherno ad un famoso “Think different” che marchia oggetti che praticamente tutti hanno e tanti vogliono. Per carità, questo è solo uno dei risvolti della massa, è in effetti quello che identifica la massa come sostantivo femminile singolare; ma se ci guardiamo dentro a questa massa, possiamo comunque trovarci una pluralità di nomi singolari, maschili e femminili: un insieme di persone che mantengono una propria individualità nonostante condividano qualcosa in comune. È crudele pensare che persone che si muovono insieme non abbiano personalità. In “One day more”, canzone anch’essa tratta da Les Misérables, la cosa è particolarmente evidente poiché obbedendo alle stesse leggi metriche e musicali tutti i personaggi partecipano alla stessa canzone con la propria personalità e voce, con i loro problemi, speranze e sentimenti, alternandosi ma anche sovrapponendosi gli uni agli altri, fino a convergere nel finale nelle medesime parole². Ognuno di quei personaggi ha una propria e chiara individualità, eppure per ciascuno di loro c’è la medesima speranza del domani, condividono (alcuni di loro senza saperlo) la stessa trepidazione ed aspettativa, trovano gli uni negli altri la comprensione, perché in verità possiamo capire a fondo un’emozione, un momento, un battito, soltanto quando la condividiamo. Capirsi non è brutto; direi anzi che è fondamentale, soprattutto perché ormai ad ascoltare non si ferma quasi più nessuno. Trovo che pensare di essere migliori perché speciali sia segno di grande tracotanza da parte nostra, perché ci sono sempre infiniti momenti della nostra vita in cui siamo parte di un insieme, che lo vogliamo oppure no. E io penso che infondo lo vogliamo. Secoli fa John Donne sostenne che nessun uomo è un’isola³; penso che quello che ci unisca agli altri siano i sentimenti, molto più dei risultati delle leggi del consumo e del mercato: sono quelli che ci tengono uniti al continente. Purtroppo oggi va di moda il cinismo e grazie ad esso noi di questo semplice e puro fatto finiamo col non accorgerci.

Ricordo che l’anno scorso, sotto il cielo di un cimitero nel primo pomeriggio di novembre ho cantato il Padre Nostro, senza conoscerne la melodia, ma stringendo le mani a persone sconosciute mi sono sentita capita: quel mosaico di voci dissonanti mi ha consolata perché ho sentito in quel canto che si disperdeva attorno a me lo stesso sentimento che mi sentivo dentro. In un modo del tutto simile, nemmeno un mese fa ho pianto senza preoccupazioni mentre ascoltavo la reprise finale di “Do you hear the people sing” al Queen’s Theatre, ma ho anche esultato, qualche anno prima, davanti alla tv per ogni medaglia italiana conquistata a Londra 2012, ho urlato canzoni in mezzo alla folla di un concerto e sbuffato mille volte chiusa e compressa dentro un treno dopo l’ennesimo annuncio metallico “Ci scusiamo per il disagio”: perché è consolante anche sapere di dividere con gli altri anche delle situazioni spiacevoli, e incrociare in quel momento due occhi sconosciuti ma altrettanto seccati e rassegnati non è poi così male. Non mi sono sentita senza personalità, mi sono sentita dentro un sentimento condiviso. Unendo tutte queste esperienze, sono portata a pensare che infondo potrei essere originale quanto voglio, ma difficilmente proverò la stessa piacevole sensazione di essere parte di un mondo che gira, corre, si emoziona e comprende questa stessa emozione. Ed io ero con lui.

 Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google.]

 

Note

1. Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII,1: “Mi chiedi che cosa dovresti evitare in modo particolare. Rispondo, la folla”.

2. “Tomorrow we’ll discover what our God in Heaven has in store / One more dawn / One more day / One day more”, da Les Misérables. –> https://www.youtube.com/watch?v=aqo2uHQ6Jz0

3. John Donne, XVII meditation: “Nessun uomo è un’isola / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte della Terra. / Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / Essa suona per te”.