Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

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Due parole sull’ateismo di Leopardi

Al prof. Rolando Damiani

L’uomo non ha certezze metafisiche, quindi è disperato: di quest’assioma, Leopardi è indiscusso profeta. La sostanza della disperazione leopardiana si coglie nella formulazione della celeberrima teoria del nulla:

«Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. […] vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere»1.

Analizziamo queste righe. Se (il) nulla fonda (il) tutto significa che:

«Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è, o non sia assolutamente. L’assoluto è dunque voragine che tutto accoglie e tutto annienta, abisso orrido e immenso, ma insieme fonte e sede della forza»2.

Ora, poiché:

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,/καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,/καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος./Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. 3

sembrerebbe che, in mancanza di ragione, manchi anche divinità: se la sovrapposizione tra θεὸς e λόγος è esatta, da questa considerazione non c’è via di scampo.

Ora, se manca la Ragione-Ultima, manca la fondazione-metafisica del tutto: la Ragione è dunque non una presenza, ma piuttosto un’a-ssenza, che possiamo identificare con l’a-ssenza di Dio. Leopardi altresì afferma che Dio è fondato dal nulla: le cose non hanno un’idea platonica che le sostiene, e questo vale anche per Dio, s’Egli è una cosa …

Ma, a proposito di Dio e il suo rapporto con il nulla che lo fonda – e quindi non lo fonda –, Leopardi scrive:

«Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] Ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Io considero dunque Iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio»4.

Questa citazione spariglia le carte; chiunque voglia fare di Leopardi un gigante dell’ateismo non si è, evidentemente, preso la briga di leggere queste annotazioni del 1821. Rolando Damiani, in una conferenza dell’ottobre 2014, riguardo il tema della “religione” leopardiana, affermò che, d’essa, occorre parlare:

«In un senso anomalo […] perché in Leopardi la religione non è un fatto né semplicemente confessionale, cioè di adesione confessionale alla dogmatica cristiana, questione che evidentemente per Leopardi si pone solo fino a un certo periodo della sua vita […] e neanche nel senso di rifiuto del religioso in una prospettiva di laicismo ottocentesco, che è uno dei modi per i quali è passata l’accoglienza di Leopardi»5.

Torniamo al dettato di Zibaldone 1619-1621; ivi, Leopardi legge la tradizionale formula di presentazione che Dio fa di sé stesso in Esodo 3, 14, come una dichiarazione ontologica di autosussitenza. Dio esiste in quanto deve esistere e, per riprendere alcune osservazioni fatte da Kierkegaard negli Atti dell’amore, il dover-essere fonda l’eternità dell’essere; Dio deve essere, dunque è eternamente. Avendo in sé la propria ragione necessaria – e sufficiente – d’esistenza, il Dio di Leopardi esiste “in tutti i modi possibili”, ovvero ci appare come ci deve apparire.

Osserva ancora Damiani:

«Nel 1824, cioè nella piena maturità del pensiero, il Dio di Leopardi non è un dio malvagio, è un dio casomai impotente. Un dio che non può fino in fondo essere padrone del manifestato, cioè di ciò che egli stesso ha creato. Perché? Perché al di sopra di lui c’è un potere inconoscibile […] che viene chiamato da Leopardi, tradizionalmente, ‘ordo fatorum’. […] Esso ha a che fare con l’Ἀνάγκη, la necessità […]. Di essa, Leopardi fa un’ipostasi, ma un’ipostasi maligna»6.

Da questo punto di vista, la necessità è un ÜberGott che sovrintende a Dio, ma prima ancora alle cose di questo mondo. In questo quadro, Dio si inserisce come motore, e pro-motore, di quel poco di bene che possiamo rintracciare nella storia: Dio è esperibile nello straordinario, certo, ma anche nella quotidianità del dolore, in cui Egli, pur volendo inserirsi per modificarla, non può:

«Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente: […] Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature»7.

«I suoi rapporti con gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti a essi: sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perché i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti»8.

Il che significa che Dio tenta d’accompagnare le sue creature e lo farebbe, se potesse. Vi è però la Necessità che, in qualche modo, fa resistenza e s’oppone all’assolutà bontà di Dio. Ciò che ciascuno di noi ottiene dal suo rapporto con Dio, è sempre e comunque il massimo che potrebbe avere. Ergo, ciò che otteniamo da Dio come atto d’amore puro, è il massimo che possiamo ottenere: chiedere di più sarebbe sfidare non solo Dio, ma la necessità che lo sovrasta.

L’abisso che ci separa da Dio è incolmabile, vasto, non giungiamo a lui se non saltuariamente. E questa Necessità, che supera Dio e supera l’uomo, questo ordo fatorum, insondabile e invincibile, come lo chiameremo? Lo chiameremo nulla: nulla di buono, nulla di razionale, nulla in ogni forma.

In questo senso dunque, l’Ἀνάγκη – il nulla – fonda tanto le cose del mondo quanto Dio, perché ordina le prime e frena l’azione del secondo. Ma affermare che Dio c’è, ma non può agire, è ben diverso dal dire ch’Egli non (c’)è! Leopardi, esattamente come l’ultimo Sartre (ricordate la famosa intervista a Lèvy del 1980?) non era un ateo, piuttosto il testimone disincantato d’una sorta di “eclissi contemporanea del divino”.

Leopardi sentiva la mancanza di Dio. N’era ossessionato. Lo cercava nelle forme del rito tradizionale (come dimostra l’ultima lettera prima della morte a Monaldo, in cui afferma d’essersi confessato e comunicato) ma faticava a scovarlo, assuefatto com’era dal “piacere fremebondo della disperazione”.

David Casagrande

PS: consiglio a tutti la lettura de L’ordine dei fati e altri argomenti della religione di Leopardi, scritto da Rolando Damiani per Longo Editore, 2014.

NOTE:
1. Zibaldone 1341-1342 (18 Luglio 1821), a cura di R. Damiani, ed. Mondadori – I meridiani, tomo I, pp. 971-972.
2. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Biblioteca Economica Laterza, Roma-Bari 1995, p. 142.
3. Gv 1, 1-3.
4. Zibaldone 1619-1621, ed. cit., pp. 1135-1136.
5-6. Video: La “Religione” di Leopardi. ROLANDO DAMIANI al Caffè Letterario di Lugo.
7. Zibaldone 1637, ed. cit., tomo I, p. 1146.
8. Zibaldone 1621, ed. cit., tomo I, p. 1136.

 

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Studio sull’interpretazione anassimandrea della morte

Una delle domande più inquietanti che, da sempre, l’uomo si pone è: “Perché si muore?”

Per rispondere a questo quesito, scomoderemo uno dei filosofi più antichi che la storia del pensiero occidentale annoveri come proprio venerando e terribile antenato: Anassimandro (610-546 a.C.). Egli fu il primo pensatore a porre a fondamento dell’esistente non un elemento fisico, ma l’ἄπειρον [apeiron], che noi traduciamo con “Infinito” (α privativo + πεῖραρ “compimento, fine”).

I frammenti dottrinali di Anassimandro, secondo l’edizione dei Die Fragmente der Vorsokratiker di Diehls e Kranz, sono cinque: quello più famoso e filosoficamente più interessante è il primo (1b):

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον…έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι, καί τήν φθοράν είς ταύτα γίνεσθαι κατά τo χρεών • διδόναι γάρ αύτά δίκην καί τίσiν άλλήλοις τής άδικίας κατά τήν τού χρόνου τάξιν.

Di questo frammento sono state date molte traduzioni e, ancor di più, interpretazioni; nella convinzione ermeneutica che la traduzione è già di-per-sé un atto ermeneutico, vorremmo aggiungere anche la nostra umile voce. La traduzione che noi presentiamo è:

Annunziò Anassimandro che principio delle cose-che-sono è l’Infinito … infatti, donde gli essenti han sorgente di vita, colà hanno anche necessariamente la morte loro; essi, infatti, pagano l’uno all’altro il fio e la purificazione dell’ingiustizia secondo la regolarità del tempo.

L’Infinito è causa tanto della vita quanto della morte “necessariamente”: κατά τo χρεών – ma perché i viventi pagano l’un l’altri il fio dell’ingiustizia?  E soprattutto, di quale ingiustizia? Quella di essere state create.

Nella logica anassimandrea, l’ἄπειρον è una totalità immobile – intangibile ma presente – che, per ragioni ignote, periodicamente è funestata da cicli di creazione e distruzione; specificamente, è possibile ipotizzare che ogni singolo ens-creatum, staccandosi dall’Infinito che lo genera, crei una perturbazione-cosmica che può essere risanata (secondo un principio di economia compensativa) solo dalla morte – cioè dal ritorno all’Infinito “causa originante” e “causa finale”.

L’allontanamento dall’Infinito è, parimenti, un fatto involontario e un reato preterintenzionale – per il quale ogni ente deve pagare; e come avviene questo “processo all’ente”? Secondo “la regolarità del tempo”. Una ragione empirica piuttosto chiara: gli esseri anziani, che prima d’altri si son distaccati dall’Infinito, normalmente, sono quelli che prima tornano a esso.

Come gl’entes muoiano, è assolutamente indifferente: quindi “che sia per spada o per lento sfacelo del tempo”, tutti i viventi perverranno alla φθορά, come ridondante monito a chi verrà dopo di loro, e riproposizione eterna di chi li ha preceduti sul lungo viale della notte eterna.

Altresì, è evidente che la nascita non solo è un reato, ma anche un peccato: un peccato originale meglio ancora, che, come conseguenza di una vera e propria sentenza, deve essere compensato da un castigo. Certo, la parola “peccato” è impegnativa, e non si suol attribuirla a concetti pre-cristiani, ma in questo caso ci sentiamo di usarla, e i testi anassimandrei potrebbero tranquillamente confermare la nostra scelta. Il frammento 2b recita:

(Una certa natura dell’infinito) è eterna e non invecchia mai1;

mentre il frammento 3b dice:

Così è il divino: immortale e indistruttibile2.

Ragioniamo: se il divino è immortale e indistruttibile, significa che esso è eterno – e non invecchia mai, ovvero non si corrompe; e tuttavia la natura dell’Infinito è appunto quella di essere eterna e incorruttibile; ne consegue logicamente che la natura dell’Infinito è divina e che quindi, l’atto generante gli enti, essendo un distaccarsi dal divino, viene a rivelarsi come un “peccato” (laddove per peccato intendiamo l’allontanamento dalla divinità). Conseguentemente, nascere è un peccato, e la morte è l’espiazione.

Se la nascita è peccato e la morte è penitenza – perché ricongiunge l’ente al divino – meglio sarebbe forse, per gl’uomini, non nascere proprio? Una domanda sensata.

Ragionandoci, però, non-nascendo non vi potrebbe essere comprensione dell’Infinito, dacchè solo l’Uomo comprende – stanti le sue particolari conformazioni intellettuali – l’Infinito: che ne sarebbe, dunque, di esso se non avesse la possibilità dell’autocompresione? A quel punto risulterebbe essere non più (un) infinito, ma (un) limitato dalla consapevolezza (mancata) di sé.

Un Infinito che non s’autocomprende come tale è un cattivo-infinito, perché limitato dall’ignoranza: di conseguenza, esattamente come la morte è κατά τo χρεών, perché chiude il cerchio del peccato e lo emenda, parimenti κατά τo χρεών è la nascita – senza la quale l’Infinito risulterebbe (mi si perdoni il giuoco di parole) finito. Ergo, il peccato della nascita è un peccato necessario, che richiede, però, un altrettanto necessario atto purificatorio.

In questo senso, una traduzione più libera, ma forse più pregnante del frammento 1b potrebbe essere:

Da dove gli essenti traggono la vita, ebbene lì hanno anche necessariamente la morte: infatti essi pagano l’un l’altro il fio ed espiano il peccato di essere nati, secondo l’ordine del tempo con cui sono venuti al mondo.

Torniamo ora al punto iniziale: perché c’è la morte? La risposta che ricaviamo da Anassimandro è la seguente: la morte c’è perché c’è la vita: simul stabunt vel simul cadent.

Morendo, ritorniamo a essere ciò-che-siamo, parte dell’Infinito, mentre nascendo, ci distacchiamo da esso. V’è dunque una legislazione cosmica che necessariamente, e inscindibilmente, collega l’atto di nascita a quello di morte.

E, d’altronde, ciò ch’abbiamo dimostrato, non è ciò che la sapienza dell’Occidente, da sempre, sa? Si muore semplicemente perchè s’ha da farlo. Nessuna eccezione è prevista. Tutto il nostro affannarci qui e ora, è puro niente:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Quid lucri est homini de universo labore suo, quo laborat sub sole? Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat3.

[…] Al gener nostro il fato/non donò che il morire. Omai disprezza/te, la natura, il brutto/poter che, ascoso, a comun danno impera/e l’infinita vanità del tutto4.

David Casagrande

NOTE:
1. Trad. di G. Reale. In: I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani/RCS libri spa – Il pensiero occidentale, 2006 (20124), p. 197.
2. Trad. di G. Reale, ibidem.
3. Liber Ecclesiastes 1, 2-5.
4. G. Leopardi, Canto XXVII (A se stesso), vv. 12-16.

[Copyright: Fulvio Bonavia photographer, in: Google immagini s.v. “Vanitas”]

Sulla fiamma di una candela

Ha comprensibilmente destato preoccupazione, qualche tempo fa, l’affermazione dell’arci­ve­sco­vo Georg Gänswein per la quale Benedetto XVI si starebbe «spegnendo serenamente, come una candela». L’apprensione era tuttavia almeno in parte ingiustificata, perché Gänswein, pronunciando tali parole, non aveva tanto l’intenzione di alludere a una qualche repentina e preoccupante forma di decadimento fisico del pontefice emerito, quanto piuttosto quella di sottolineare che, nonostante gli acciacchi dell’età, Benedetto XVI è comunque ancora in grado di essere una preziosa “fonte di luce” per i cristiani. Se si legge con attenzione il contesto in cui l’affer­ma­zio­ne è stata pronunciata, e non solo i titoli dei giornali, appare chiaro, infatti, che ciò che l’arci­ve­sco­vo intendeva sostenere era che la grande luce di Benedetto XVI, per quanto vada per ovvi motivi progressivamente indebolendosi, brilla ancora intensamente e rimane un punto di riferimento per tutti i fedeli. Resta il fatto che l’espressione utilizzata, soprattutto se letta alla svelta, dava la possibilità di equivocare sul reale stato di salute del pontefice emerito, dato che essa, in italiano, viene per lo più usata per indicare la debolezza, la consumazione, la fragilità, l’estrema prossimità alla morte di chi si trova in tale condizione di “affievolimento”.

In questa più comune accezione, tale espressione non è peraltro qualcosa di sensazionale o di assolutamente inaudito. Si può anzi dire che la nostra cultura abbia da sempre fatto più o meno esplicitamente riferimento a essa quando si è trovata a dover descrivere la natura di ciò che appartiene alla dimensione della temporalità. L’Occidente non afferma infatti forse da secoli e millenni che tutti noi “abitatori del tempo”, in fondo, non siamo altro che “esili fiamme di una candela”? Ciò che accade ogni giorno nel mondo non ci ricorda inoltre costantemente che ogni essere umano, anche se è nel fiore degli anni e nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e mentali, rimane comunque una luce fragile e indifesa, che anche un semplice “soffio di vento” può spegnere all’improvviso e per sempre? E da un paio di secoli a questa parte la nostra cultura non aggiunge forse, e con sempre maggior forza, che a trovarsi in tale precaria situazione non sono solo gli esseri umani, ma sostanzialmente tutte le cose di questo mondo, persino gli “dèi” e i valori supremi che finora erano stati ritenuti stabili, granitici e assolutamente inscalfibili?

Può essere allora interessante tornare a leggere il libro di Gaston Bachelard intitolato La fiamma di una candela, che è tutto dedicato all’esplorazione del significato che ha avuto per letterati e poeti quella straordinaria lingua di fuoco che splende tremante e solitaria sulla sommità dei ceri, che, come già diceva l’antico filosofo greco Eraclito, i mortali accendono per avere «un lume nella notte, quando la vista dei [loro] occhi si è spenta» (fr. 26 B DK). Il proposito del filosofo francese è infatti quello di «meditare sul destino della fiamma» e, così facendo, su quello dell’uomo, della cui vita terrena la vibrante ma vulnerabile fiamma è un grande e potente simbolo. Bachelard riporta a questo proposito una bella poesia di Martin Kaubish, che suona: «Fiamma, alato tumulto, / oh soffio, rosso riflesso del cielo / – chi svelerà il tuo mistero / saprà che cosa è la vita / e la morte».

Certo, ricorda Bachelard, ormai «il mondo va in fretta, il secolo […] accelera. Non è più tempo di lucignoli e candelabri», che erano invece una «coppia indispensabile in una dimora degli antichi tempi». Eppure, ancora oggi, il loro surrogato moderno, la lampada, è «il centro di ogni dimora» e «lo spirito che veglia su ogni stanza». Perché allora voltare impunemente le spalle alla candela, che della lampada è il passato non poi così tanto remoto? Tanto più che – sostiene Bachelard – al cospetto della sua luce tremolante le cose ci appaiono diversamente: la luce della candela, che per poeti e scrittori è l’«astro della pagina bianca», «ci chiama a vedere le cose come se fosse la prima volta». Il potere di attrazione che tale donatrice di luce ha sulla fantasia dell’uomo è tale da poter perfino rapire la mente di chi perde il proprio sguardo in essa e proiettarla nel passato, verso gli antichi bagliori dei primi fuochi che furono accesi nel mondo.

Bachelard sa benissimo che oggi «siamo entrati nell’era della luce amministrata» e che attualmente il «nostro unico ruolo [nei suoi confronti] è girare un interruttore»; ma egli ci vuole trasportare in un tempo lontano, «un tempo dimenticato dagli stessi sogni», in cui «la vecchie domestiche [di casa] custodivano le lampade degli antenati» e «sapevano trovare per ogni grande evento della vita domestica la giusta lampada». In quel tempo, «la fiamma di una candela faceva meditare i sapienti: donava sogni infiniti al filosofo solitario». «Sul suo tavolo», – continua Bachelard – «accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma della candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite».

Posare lo sguardo sulla fiamma, oltre che sui libri, consente di comprendere meglio il mondo, perché che cos’è l’universo per la cultura occidentale se non una fiamma che continuamente consuma e rigenera se stessa, e che sprigiona luce finché riesce ad alimentarsi con lo “stoppino” fornitole dai dinamismi della materia? «Dentro una fiamma» – si chiede Bachelard – «non vive forse il mondo? […] Non contiene forse, questa fiamma, tutte le contraddizioni interne che conferiscono a una metafisica elementare il suo dinamismo? Perché cercare dialettiche di idee quando si hanno, nel cuore di un semplice fenomeno, dialettiche di fatti, dialettiche di esseri?».

A Bachelard non sfugge che nella fiamma brillano in piena luce i più antichi problemi ontologici evocati dalla filosofia. Già Roger Asselineau aveva scritto in una poesia che la fiamma è un «ponte di fuoco gettato tra reale e irreale / dell’essere col non essere ogni momento coesistenza», e Bachelard è perfettamente d’ac­cor­do: «i giochi di pensiero dei filosofi che conducono le loro dialettiche dell’essere e del nulla su un tono di pura logica diventano davanti alla luce che nasce e che muore drammaticamente concreti».

Metafora degli sforzi che la luce dell’essere fa per vincere il buio del proprio non essere, la fiamma della candela è anche immagine della lotta che la coscienza umana mette costantemente in atto per fuoriuscire (ed evitare di riprecipitare) nelle tenebre dell’ignoranza. Scrive Bachelard: «il mondo è per me […] il libro difficile rischiarato dalla fiamma di una candela. Perché la candela, compagna della solitudine, è soprattutto la compagna del lavoro solitario. La candela non rischiara una cella vuota, rischiara un libro. Solo, di notte, con un libro rischiarato dalla candela – libro e candela, doppia isola di luce, contro le tenebre doppie dello spirito e della notte».

Sennonché, per il filosofo francese, sembra che da ultimo siano proprio il buio e le tenebre a dover prevalere. Al termine del passo egli scrive infatti: «ma la candela [della coscienza] si spegnerà prima che il difficile libro [del mondo] venga capito». Con questa frase, Bachelard sembra allinearsi alle più pessimistiche correnti di pensiero che trovano posto all’interno della sapienza occidentale. Si pensi ad esempio a Leopardi, che nel maestoso Cantico del gallo silvestre afferma che l’universo farà in tempo a venir distrutto dalle forze che si agitano in esso prima che l’enigma «mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» possa venir pienamente compreso dall’uomo.

Eppure queste tonalità cupe sembrano smorzarsi e quasi venir meno quando Bachelard offre al lettore questo tenero ricordo della sua infanzia: «a volte la mia cara nonna riaccendeva, con un fusto di canapa, al di sopra della fiamma, il fumo lento che risaliva il focolare nero. […] E quando la sovrafiamma riprendeva esistenza: “Vedi, piccolo mio”, mi diceva la nonna, “sono gli uccelli del fuoco”. E allora io, che sognavo sempre al di là delle parole della nonna, credevo che quegli uccelli del fuoco avessero il nido nel cuore del ceppo, ben nascosti sotto la scorza e il legno tenero. L’albero, questo custode di nidi, aveva preparato, nell’intero corso della propria crescita, l’intimo nido in cui gli splendidi uccelli del fuoco si sarebbero nascosti. Nel calore di un grande focolare, viene il tempo di schiudersi e di volare via».

Proponendo questo aneddoto, Bachelard sembra infatti quasi voler suggerire la possibilità che anche la fiamma dell’anima umana, dopo la morte, possa rinascere dalle proprie ceneri e librarsi sopra le braci annerite del proprio cadavere, rifulgendo di uno splendore forse anche maggiore di quello che aveva perduto. E, certo, sarebbe davvero magnifico se il fuoco che splende nel profondo di ognuno di noi non fosse spento del tutto dal gelido soffio della morte, ma covasse ancora, nascosto sotto le nostre ceneri, in attesa di esser riacceso e di poter spiccare verso l’alto, in un tripudio di scintille, quello stesso volo liberatorio e vittorioso che Bachelard aveva visto eseguire alle “Fenici domestiche” che da piccolo egli credeva che facessero il loro nido nel caldo cuore della casa di sua nonna, tra i ceppi fiammeggianti del focolare.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
G. Bachelard, La fiamma di una candela, trad. di G. Alberti, SE, Milano 2005 (1a ed. it. 1996; 1a ed. franc. 1961)

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Divertirsi per non pensare?

Il nostro tempo è caratterizzato dall’affermazione del divertimento come categoria esistenziale fondamentale. Gran parte delle manifestazioni umane di giovani e adulti si fonda sul divertimento, indicatore sociale di una “bella vita”. Osservando le proposte di aggregazione, le esperienze relazionali e la condivisione di quest’ultime sui social network, risulta evidente come il divertimento sia creduto l’unico sinonimo dello stare bene, dell’avere una vita piena e ricca di significato.

Tuttavia, ad un occhio più attento e profondo, la condizione esistenziale dell’attuale società del “benessere”, appare come una vera e propria contraddizione. La filosofia, il cui compito è sin dalle origini quello di comprendere e “smascherare” la realtà, rivela come al di sotto di questo stile di vita basato sul divertimento e sul desiderio di godimento senza limiti, si celino un disagio profondo e un vuoto esistenziale, dei quali è necessario rendersi consapevoli.

Indagini e statistiche di natura sociologica e psicologica, evidenziano come alla base della “bella vita” sia sottesa una precarietà esistenziale, un’assenza di disciplinamento del desiderio e un vuoto di senso dilaganti, che la società preferisce non riconoscere per perpetuare il suo sistema ideologico radicato nel consumo di ogni aspetto dell’esistenza. A ragione si può parlare di consumo, proprio perché dai più la vita non viene vissuta e portata a compimento, ma letteralmente sciupata. Nella falsa convinzione che maggiormente il desiderio di godimento, privo di legge, è spinto all’estremo, maggiormente si realizza l’esistenza. Quando in realtà il desiderio si alimenta precipuamente di assenza, di limite, di tutto ciò che non lo esaurisce e non placa la sua sete, ma continua a tenderlo verso l’infinito che è sorgente.

La filosofia e i filosofi, sono come profeti che vogliono ridestare la nostra attenzione, avvertendoci che il desiderio infinito dell’infinito, non può essere colmato attraverso il divertimento spinto oltre ogni limite. «Il divertimento, inteso come fuga, − scrive D’Avenia − si può alimentare e ripetere ad oltranza, ma il vuoto resta lì»1. Dunque, una volta finito l’effetto anestetizzante del divertimento stesso, il desiderio esistenziale, che è sete di verità, ritorna a bussare ai nostri cuori e alle nostre menti, portando con sé un carico di angoscia che esige di essere accolto e affrontato, proprio perché essenziale della nostra naturale, precaria condizione.

Pascal è stato magistrale interprete della condizione dell’uomo nel mondo e in particolare dell’uso del divertimento come “alternativa” alla riflessione su se stessi. L’essere umano appare paradossale al filosofo e matematico francese, in quanto in esso coesistono bene e male, sapienza e ignoranza, grandezza e miseria. Questo paradosso non dev’essere negato, ma integrato e compreso. Tuttavia, la maggior parte degli uomini evita di riflettere sulla propria essenza, allontanando il pensiero per la paura di inabissarsi nel vuoto, nel nulla. Gli uomini nascondono a se stessi questa fragile condizione, questi insanabili contrasti e lo fanno attraverso quello che il pensatore chiama divertissement, ovvero divertimento, meglio se tradotto come “diversione” o “distrazione”, dal latino de-vertere “volgere lontano da qualcosa”, in questo caso dalla ricerca del senso della vita. Scrive infatti Pascal:

l’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte2.

Il divertissement pascaliano, indica propriamente quanto avviene nel nostro tempo: l’oblio della propria vera natura e condizione, la fuga da se stessi, al fine di esimersi dal pensare. Ed è proprio questo il lato tragico del nostro tempo, l’abdicare il pensiero, il quale però «costituisce la grandezza dell’uomo»3 e la sua più intima dignità. «L’uomo non è che una canna – scrive Pascal – la più debole della natura; ma è una canna pensante»4.

Il divertimento, così com’è vissuto nel nostro tempo, concede una gioia temporanea. Non appena questa finisce, l’uomo ripiomba nella sua infelicità, nel suo vuoto, nella sua miseria. In tal modo, l’uomo non vive mai il presente, il solo momento realmente esistente. Non è mai contento di ciò che ha, ma è sempre proiettato nel futuro laddove si persuade sia posta la felicità. Ecco che l’uomo non vive veramente. Anche quando crede di farlo attraverso il divertimento, semplicemente spera di vivere, procrastinando la realizzazione di se stesso nel futuro.

Il divertimento è oggi la strategia maggiormente adottata per evitare di soffermarsi a riflettere sul mistero della propria esistenza, costantemente meravigliandosi di essa, interrogandola e indagando ciò che la circonda, come insegna il pastore errante del sublime Canto notturno di Leopardi.

Quanto scritto non intende pronunciare una condanna della dimensione ludica dell’umano, o della sua naturale necessità di abbandono. Si propone piuttosto come un’esortazione, un esplicito invito a meditare criticamente, circa le forme estreme del divertimento e del godimento, ormai divenute habitus e oggetto di vanto per molti uomini (sic!). Al fine di recuperare la peculiarità umana, che è quella di essere capaci di pensare. Perché attraverso il pensiero l’uomo supera la propria miseria conoscendola e riscopre il proprio valore morale. Solo così, riconoscendo il silenzioso dialogo con noi stessi, è infatti possibile la fondazione di un’etica che ci traghetti dalla “bella vita” ad una vita bella, inondata di significato nella sua più intima e misteriosa essenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. A. D’Avenia, L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori, 2016, p. 118.
2. B. Pascal, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 198712, pp. 179-180.
3. Ivi, p. 240.
4. Ibidem.

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Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da gazzettadimantova.gelocal.it]

Sul senso etico della storia

La storia è strettamente collegata al divenire, essendo questo quel movimento delle cose, regolato dal principio di causalità e procedente in avanti nel tempo, ossia, detto in breve, il susseguirsi di tutti i fatti (fenomeni),i quali costituiscono poi la materia di studio della storia.

Naturalmente nella comune accezione con “storia” è intesa la sola analisi dei fatti umani; chiaramente, l’ottica storica, l’interesse per il passato, può focalizzarsi anche su tutti i fenomeni precedenti l’uomo, come ad esempio le ere geologiche, o la storia dell’evoluzione animale (darwinismo) e di quella vegetale. In questo senso, la storia sarebbe l’analisi di tutta quella parte del divenire già venuta in essere. Di tutto ciò che ci ha preceduto. Ma l’associazione storia-divenire non esaurisce la relazione tra storia e filosofia; anzi, è solo il punto di partenza di un fruttuoso rapporto: la concezione lineare della storia ci porta inesorabilmente verso un concetto-chiave così potente da abbracciare la natura intera: quello di “sviluppo”; la nostra storia non può essere concepita se non come una strada, una lunga strada che si chiama progresso: evoluzione dei corpi animali fino all’uomo, poi della cultura ,della tecnica, della società, il tutto volto al raggiungimento di forme vitali-culturali sempre più abili e capaci. È tipico della natura incarnarsi in forme di vita via via più evolute: questa è la verità generale del divenire, cui perveniamo inevitabilmente mediante la considerazione della storia. Sembra che la natura abbia come degli obiettivi, e che lavori senza sosta nel suo perseguirli: questa vicenda ci riguarda a priori, essendo noi non solo parte della natura, ma anche l’ultima novità nel campo nell’evoluzione, l’ultima grande innovazione della volontà naturale. Possiamo considerare che se la natura si accontentasse di generarsi in animali irrazionali e spietati, che si uccidono a vicenda come orribili e letali macchine, avrebbe tranquillamente potuto fermare la propria mutazione ben prima dell’uomo; avrebbe potuto ad esempio accontentarsi di incarnarsi nei dinosauri, mentre invece si è riprodotta negli uomini, la più recente versione della vita animale, estremamente intelligente (salvo eccezioni ovviamente), razionale, empatico; tutto ciò sembra gravido di conseguenze etiche per noi umani; non possiamo ignorare che tutto questo sviluppo mira precisamente a sviluppare un’intelligenza sempre più potente: e a questa appartiene poi l’empatia e lo stesso sentire etico in generale. Il tutto volto ad un’esistenza sempre migliore, volto a togliere il male dal mondo, almeno nella misura nella quale ciò risulterà effettivamente possibile. Ognuno compie il proprio destino solo adempiendo a ciò per cui nasce (Nietzsche diceva: “Diventa ciò che sei”) ; in generale, noi uomini siamo nati per progredire nella civiltà: è questo il nostro vero imperativo etico, questo è il senso etico della nostra storia.

Chiaramente noi dovremmo aspettarci dal futuro l’avvenire di una potenza tecnica tale da eclissare ogni malessere del mondo; questo è sempre stato il destino dell’intelligenza umana, ciò verso cui noi tendiamo; ne potremmo fare altrimenti, essendo la ricerca del piacere e la fuga dal dolore tutto lo scopo della nostra vita, come rilevava Leopardi nello Zibaldone:

Tutti gli esseri viventi desiderano la felicità: ricercare il piacere ed evitare il dolore sono fenomenologie tipiche di tutti gli enti senzienti.¹

In realtà la questione non concerne il solo grado di potere tecnico in possesso dell’uomo; il vero problema, infine, è il genere umano stesso: già oggi disponiamo di tecnologie potenzialmente sufficienti a garantire un tenore di vita accettabile per ogni singola persona sulla faccia di questo pianeta. Il fatto è che noi non rendiamo un buon servizio alla natura, e neppure a noi stessi; in fondo la storia dell’uomo è quasi interamente una lunga vicenda di sfruttamento e guerra: i rapporti tra i popoli si sono sempre stabiliti sulla base della reciproca potenza militare, gli uomini si sono sempre scannati a vicenda, proprio come quelle belve feroci che hanno evolutivamente superato. Non siamo poi così diversi dai dinosauri. Abbiamo usato la nostra intelligenza per fare il male, siamo stati nichilisti, ci siamo sempre annientati vicendevolmente. Anzi è sempre stata la guerra a trainare il carro dell’innovazione tecnologica; probabilmente si tratta del più grande business dell’economia umana. Tutto questo perché non abbiamo intravisto quel senso etico che ci suggerisce la nostra storia, quel valore positivo del progresso indirizzato verso il puro miglioramento della vita.

Tutto ciò si rivela estremamente preoccupante soprattutto se pensato nell’ottica evoluzionistica: è tipico della natura scartare, distruggere ciò che non adempie al proprio scopo, e sostituirlo con forme di vita più adatte: è questa la legge dell’evoluzione. È necessario un rinnovamento etico del genere umano intero. Posto che ciò sia poi veramente possibile.

Alessio Maguolo

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Good bye Schopenhauer! Scelgo la bellezza

Scrive  Dostoevskij

“La bellezza salverà il mondo”

Ricordo che mio padre stava guidando adagio lungo una strada tra i boschi della Val Badia, in  Trentino Alto Adige, era l’imbrunire. Mentre la macchina, una vecchia FIAT Punto grigia, esce da una curva a tre metri da noi sbuca dal bosco un grande cervo, maestoso e solenne come una musica liturgica senza tempo, le grandi corna che si stagliano contro il cielo. Eravamo tutti immobili al centro della strada. Trattenemmo il respiro, un lungo incrocio di sguardi e senti quella sensazione che Aristotele chiama meraviglia afferrarti. Mi sarebbe piaciuto trattenere quella creatura stupenda con gli occhi mentre rientrava lentamente nella sera nel bosco. Facemmo fatica a ripartire.

Mi è tornato in mente questo incontro ravvicinato con la bellezza riflettendo sul perché riflettiamo su quanto ci circonda e sui misteri del mondo. Spesso la Filosofia tra ‘800 e ‘900 con esponenti che vanno da Leopardi, Schopenhauer a Nietzsche ha dipinto il mondo come un luogo dominato dalla crudeltà al punto da contestare l’esistenza stessa di Dio o della bellezza, ammessa solo come qualcosa di fugace, effimero e destinato al nulla. Eppure la bellezza rinasce ogni giorno nel mondo. Il male ci fa dubitare, ci sembra troppo nel mondo, è feroce, è pazzo: i ragazzi del Kenya come agnelli sgozzati a centinaia; bambini ai quali insegnano a dare la morte con il coltello, mi fanno dubitare; il martirio crescente dei cristiani e di altre confessioni religiose sembra contestare nel contempo l’esistenza di un Padre buono e provvidente tanto quanto l’idea stessa che la bellezza appartenga a questo mondo. Aggiungeteci milioni di persone che non hanno cibo, acqua, casa, amore; il cancro, la corruzione, il cinismo, il nocciolo durissimo dell’apatia, la terra avvelenata per denaro e che avvelena il futuro mi fa dubitare che si possa parlare di bellezza.

Scrive Aristotele nella Metafisica:

Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo.

Meraviglia come “sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere una cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata”, qualcosa che ci colpisce, ma che non ha sempre una accezione positiva perché la sorpresa può anche suscitare paura e timore, del resto tutta l’esistenza umana è spesso un grosso tentativo di annullare la casualità proteggendoci dall’inaspettato. La Scienza è un enorme dispositivo creato proprio per mettere in “sicurezza” e “controllare” la vita, disinnescare l’inaspettato attraverso l’individuazione di leggi e costanti che garantiscano all’umanità di prevedere ciò che ci attende. Un tempo gli uomini scrutavano il cielo con meraviglia e immaginavano che i cambiamenti atmosferici fossero il frutto dell’azione di divinità antropomorfe, oggi guardiamo i nostri Smart Phone, le previsioni del tempo quando non ci vengono spiegate in televisione. E’ in un certo senso questa nostro esserci messi al riparo dall’imprevedibile, inteso sempre e solo come minaccia e mai come opportunità, ad averci resi meno capaci di cogliere la bellezza del mondo.

Se solo l’umanità si fosse addestrata alla bellezza, all’imprevedibile, ad abbracciare la gratuità di qualcosa di bello come quando una mano viene tesa a chi ne ha bisogno, che mondo meraviglioso sarebbe! Siamo figli e nipoti del nichilismo, coviamo nell’inconscio l’idea che in fondo tutto sia destinato al nulla, figli di Jean-Paul Sartre per cui “l’inferno sono gli altri” fino ad arrivare all’estrema conseguenza che la bellezza non esista e che il mondo in cui viviamo sia già un po’ un inferno. Perché? Perché abbiamo paura e così ci difendiamo dall’imprevedibile, dal malato, dall’anomalo, dal diverso senza capire che rinunciare all’imprevedibilità della vita significa in sostanza rinunciare alla vita stessa, alla meraviglia. Aprirci alla bellezza significa anche discendere negli inferi della storia, nelle catacombe dei fuggiaschi, nei buchi dei dannati della terra, nei barconi degli immigrati che affondano perché anche nell’abbraccio di una madre su una barca dispersa in mezzo al mare che non sa se giungerà mai a riva si annida la bellezza, solo che noi forse non siamo più capaci di vederla, di ascoltarla. Bisognerebbe invece discendere nelle profondità della materia e delle persone, nella vittima e anche nel carnefice, la bellezza come forza di risurrezione, come forza di gravità celeste, come forza di attrazione verso l’alto, l’annuncio che i carnefici non avranno ragione in eterno a patto di non diventarlo noi stessi perché non riusciamo più a scorgere la bellezza che ci attornia in piccoli gesti, in dettagli effimeri come ci racconta Manzoni in “I Promessi Sposi”, una storia di puro male nella quale emerge però la Provvidenza dei piccoli gesti, nelle lacrime inattese dell’Innominato. Il mondo sembra una immensa collina di croci. Certo. E tuttavia è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo. Dove la terra è stata spianata vedo spuntare un filo d’erba testardo, e poi un fiore che si impunta, ostinato a fiorire, e poi un prato verde irremovibile. Vedo mucchi di macerie, eppure sulle macerie torna ad apparire un germoglio di vita, ostinata e invincibile. Vedo che la bellezza alza di nuovo ogni giorno il suo stendardo sul mondo. E questo perché? Perché al di là della narrazione nichilistica del mondo la bellezza è all’opera, in silenzio e con piccole cose. La bellezza e la vita riscattano l’entropia del mondo, la vita non è qualcosa che un giorno sarà relegata a un lontano passato, ma una forza che ha penetrato il mondo dell’inanimato, dello statico, del costante e che non riposerà finché non avrà raggiunto l’ultimo ramo dell’Universo e rovesciato la lapide dell’ultima tomba dell’inorganico.

Il mondo combatte per fiorire. L’autunno si avvicina, le foglie degli alberi si ingialliscono eppure una nuova primavera è già annunciata e nuovi fiori verranno alla luce. Scrive padre David Maria Turoldo “E’ Dio che in essi fiorisce / si espande, dilaga / e poi torna a fiorire”. In senso laico potremmo dire che la bellezza è quella forza che fa fiorire il mondo. La Bellezza combatte per farci fiorire; ogni mattino combatte per svegliarci dal sonno del cuore. La bellezza è la sicurezza che guarda bene in faccia le sofferenze del mondo e promette che non va perduta nessuna delle sincere preoccupazioni per gli altri. Non va perduto nessun atto d’amore per chi ne è bisognoso, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò continuerà a circolare attraverso il mondo come una forza di vita.

Questa è la linfa profonda che scorre nelle arterie del mondo, una corrente di atti buoni, di parole buone, di gesti puliti che hanno la loro sorgente nella bellezza e contribuiscono a rinnovarla. “Io credo in questo tesoro nascosto dentro il vaso di creta e fango del mondo” (2Cor 4,7). La bellezza per chi sa guardarla e crearla intorno a sé produce, in ogni luogo, germi di questo mondo nuovo. Potranno tagliare tutti i germogli, potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno impedire alla primavera di tornare. La bellezza non si lascia sgominare, la bellezza non si lascia sconfiggere, non si ritira, ha penetrato la trama nascosta di questa storia del mondo che stiamo costruendo insieme, tutti, nessuno escluso, con i piccoli gesti quotidiani e con le nostre parole.

Good bye Schopenhauer! La bellezza come rivoluzione del mondo.

Matteo Montagner

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Amore cosmopolita

Spesso si parla in malo modo della società moderna come priva di amore, individualista e vuota, utilitarista portata solo al consumo del singolo, ma prima ancora di entrare in quel vasto campo delle possibili soluzioni bisogna capirne prima la causa.
Se vogliamo prendere per buona questa citazione di Leopardi:
quanto sia vero che l’amore universale, distruggendo l’amor patrio, non gli sostituisce verun’altra passione attiva, e che quanto più l’amor di corpo guadagna in estensione tanto perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà” (pensieri di varia filosofia è bella letteratura. Pagina 457)
allora possiamo immaginare la globalizzazione dell’amore cosmopolita come un telaio che tessendo estende troppo il tessuto sfilacciandone le maglie più sensibili senza rinforzarle adeguatamente, perché se si è cittadini del tutto non si è più cittadini di niente lasciandosi tirare e perdendo l’intensità della vita. Perdendo quei legami con la terra propria, che davano quella passione attiva di unione in un gruppo, ci si ritrova legati solo dal consumo globale e dall’utilizzo del nuovo gadget elettronico uscito. È la morte anche del sogno illuminista di generare quel cittadino che dotato di coscienza e ragione libera esprime la sua individualità in un contesto di comunione tra i popoli, ma invece di una patria unica per tutti ci si è divisi in tante piccole patrie quante sono le persone che non provano amore altro che per se stessi e ci si ritrova uniti solo in quel unico modo di agire consumando conformandosi a quel matrix mediatico che poco spazio dà alla ragione.
Loris Fagaraz
Quarantenne di Santa Lucia, né giornalista né studente né scrittore ma un elettricista.
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Un unico grande respiro

Io non voglio stima, fama e gloria.

Io voglio amore, entusiasmo, fuoco, vita.

[ dal film Il giovane favoloso ]

Parole che restano sospese nell’aria sempre più densa di un cinema. Il silenzio, divenuto pesante, le sostiene, le scandisce, donando loro una forza che mi blocca il respiro.

Elio Germano è lì, davanti a me, sullo schermo di quel cinema.

Leopardi è lì, sospeso nell’aria densa, accolto da quel silenzio.

Un genio precoce, un ribelle, un uomo solo con i suoi pensieri.

Un uomo il cui tormento è impresso come una condanna nella fragilità del suo corpo, e parla alla parte più oscura della nostra anima con la profondità delle sue parole e dei suoi silenzi.

I versi sono l’unica via di fuga per i suoi pensieri ribelli. Più sente vivo il suo tormento più scrive, e più scrive più questo tormento cresce, e con esso il bisogno di affermare le sue idee pagate con la solitudine.

Leopardi canta una sofferenza che trasuda vita, una sofferenza che cerca la verità dell’esistenza, consapevole che una verità assoluta non c’è. C’è solo la tensione che spinge l’uomo a cercarla.

La tensione profonda, incessante, logorante che cresce dentro di lui: questa è la sua grandezza.

Le sue parole non sono altro che una voce prestata al suo tormento, dove l’amore, l’entusiasmo, il fuoco, la vita spingono violentemente per venire alla luce. E in questa spinta c’è la consapevolezza che la libertà e la forza, che animano questi sentimenti, debbano scontrarsi con la finitezza e la precarietà del corpo nella sua permanenza nel mondo.

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Ciò che è nel mondo e che nasce da esso deve finire e morire. Ma ciò che non è di questo mondo e che non vuole esserne parte, lo attraversa facendolo vibrare con tutta la forza di un lampo che balena nella volta celeste, e che non conosce né tempo né morte.”

Per una strana coincidenza, per reminiscenze passate, o forse per entrambe, mi ritrovo tra le mani questo libricino giallo e ruvido che non apro da un pò di tempo: Il nulla della vita di Schopenhauer.

Tra le parole del filosofo tedesco rivedo quella contraddizione, propria dell’essere umano, che nel Leopardi disincantato e ribelle pesa come un macigno.

Schopenhauer recupera la differenza kantiana tra fenomeno e cosa in sé, identificando quest’ultima con la volontà di vivere libera e irrazionale, che è l’essenza autentica dell’uomo, non soggetta né allo spazio né al tempo. Seguendo il pensiero del filosofo, gli uomini che arriveranno a conoscere quella che nel profondo è la loro essenza, vivranno una vita autentica senza temerne la fine. Perché se la morte determina la fine dell’individuo, questa non intacca quella che è la sua vera essenza, ossia la volontà, che con la morte del singolo ritorna alla sua condizione originaria.

Il film “Il giovane favoloso” traduce in carne questa volontà, la volontà di vivere di un uomo che attraverso la poesia esplora tormenti e contraddizioni dell’essere umano. Seguire Leopardi in questo viaggio è camminare in punta di piedi dentro la nostra tensione più intima alla ricerca della nostra essenza.

Ascoltare questa tensione non è una scelta ma un’inevitabile condanna che porta malinconia, inquietudine e solitudine. La tensione è troppo rumorosa per essere ignorata e solo quando le sarà data una voce, quando le sarà concessa una via di fuga, questa, oltre al dolore, ci porterà la vita.

La vita come respiro, ampio, profondo, talmente profondo da farci cadere negli abissi più neri per poi farci risalire verso una dimensione infinita. Una vita fatta di dubbi, contraddizioni, malinconie, inquietudini. Una vita fatta di illusioni, poesia, curiosità, stupore e meraviglia.

Perché

non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.

Leopardi

Allora è proprio questa tensione, con tutte le sue sfumature, la chiave per liberarci dalla condanna di un’esistenza sterile, fatta di ruoli e maschere; un’esistenza in cui il bisogno di affidarsi a una verità è più forte dell’impulso di liberare le nostre tensioni e vivere il rischio che la nostra essenza autentica richiede per prendere il volo.

La vita piena è la vita dell’anima; è il respiro ampio che riusciamo a dare alla nostra anima quando sentiamo salire le vertigini e ci abbandoniamo al vuoto rinunciando ad ogni pretesa di certezza, abbandonando le ripetizioni e l’immobilità.

La vita piena è aprirsi completamente per far entrare dentro anche il più piccolo respiro del mondo, perché ciò che possiamo contenere è infinito.

E’ svegliarsi nel cuore della notte perché il rumore dei nostri pensieri è troppo forte, ed è rimanere svegli tutta la notte perché non possiamo rimandare e dobbiamo scrivere questi pensieri.

E’ rimanere immobili a contemplare un dettaglio e assorbirne tutta la bellezza per restituirla al mondo sotto altra forma.

E’ guardare la scena di un film, leggere il passo di un libro, ascoltare una melodia, contemplare un’opera d’arte, e lasciare che le parole, le immagini e i suoni ti entrino dentro fino ad arrivare al punto di non capire più chi sei tu e chi è l’attore, qual è la tua vita e qual è la vita raccontata tra le pagine, qual è la vibrazione della tua anima e quali sono le note che vibrano nell’aria, qual è la tua immagine del mondo e qual è l’immagine dipinta sulla tela.

Tutto questo, ogni momento, ogni dettaglio, ogni sfumatura, è un passo verso la conoscenza profonda di noi stessi e verso la libertà. E mano a mano che avanziamo, non abbiamo più bisogno di distinguere l’io dal resto del mondo, l’anima dal corpo, ciò che definiamo reale da ciò che confiniamo nella nostra immaginazione, la gioia dal dolore, il bene dal male: fa tutto parte dello stesso grande respiro, dove la tensione che sentiamo è quella vertigine che ci fa volare.

Lisa De Chirico

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Maturità artistica presso il Liceo Artistico Statale di Treviso e laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia. In ambito lavorativo mi occupo di progettazione architettonica e grafica, interior design e architettura del paesaggio. La mia trasversale passione per il mondo della creatività nelle sue diverse forme, dall’arte all’architettura, dalla scrittura alla fotografia, risponde ad una necessità di espressione che attinge ai diversi strumenti che questa dimensione mi offre. Un segno tracciato su un foglio, il progetto di uno spazio, l’illustrazione di un concetto, un frammento di realtà rubato da uno scatto, sono l’espressione di una ricerca continua che trova nella filosofia, nella letteratura e nella musica il suo punto di partenza.

Ogni mia espressione è una condensazione di ciò che sono, di ciò che vivo e immagino; dove ciò che viene definito arte, architettura, fotografia e scrittura, perde i propri limiti e si mescola.

[Immagini tratte da Google Immagini ]